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INTERVISTA A MARCO REVELLI - 24 LUGLIO 2001


Nel tuo ultimo libro hai parlato molto delle donne e del movimento femminista: qual è stato, secondo te, il loro ruolo?


Io credo che il movimento delle donne sia una delle tre radici di quello che possiamo chiamare il postfordismo, della forma sociale e capitalistica attuale, del modo in cui il processo capitalistico di valorizzazione si è ricomposto dopo la crisi del suo livello precedente. Sono stranamente tre radici che provengono tutte dall'area dell'"antagonismo", non sono interne all'establishment fordista, sono tre filoni che hanno contestato frontalmente il fordismo e che in parte originano dai movimenti di rivolta degli anni '60 e '70. La prima radice è il salto tecnologico, la terza rivoluzione industriale con l'innovazione microelettronica, informatica, telematica e così via, il passaggio alla rete; la seconda è la componente ecologica e la scoperta dei limiti dello sviluppo, la terza è costituita dai risultati dei movimenti delle donne. Quest'ultimo è stato davvero il prodotto più radicale della contestazione al fordismo-taylorismo, forse persino più radicale della rivolta operaia che ha inceppato quel meccanismo, l'ha reso improponibile e impraticabile. Ma il movimento delle donne ne ha colpito lo statuto logico, ha colpito un elemento cruciale del modello fordista-taylorista che era la concezione unidimensionale del lavoro, l'idea che lavoro fosse solo l'erogazione astratta di capacità lavorativa misurabile e segmentabile, che fosse solo il lavoro misurabile con la logica fordista, riducibile a unità di tempo confrontabili tra loro e omogenee; era quella concezione che portava a escludere dall'universo del lavoro l'attività delle donne, e che queste invece con un attacco dal basso formidabile hanno imposto incrociando e intrecciando in modo fecondo eguaglianza e differenza, perché hanno richiesto pari dignità sulla base del discorso dell'eguaglianza, e hanno preteso pari dignità per le differenze, e quindi con un forte elemento differenzialista che metteva in crisi la dimensione unidimensionale del lavoro. Anche l'attività non misurabile e non riducibile a lavoro astratto tipica dell'attività femminile veniva affermata come lavoro: si rovesciava la concezione a mio avviso monoteistica del lavoro tipica del fordismo-taylorismo e si affermava una concezione politeistica del lavoro nella quale anche ciò che non è misurabile con i codici tayloristici pretende di essere rivendicato come lavoro. Oggi noi questo ce lo ritroviamo contro, ce lo troviamo nella forma di una capacità inedita del captale di mettere a profitto anche l'attività non misurabile, non astrattizzabile, anche la sfera delle emozioni, anche la sfera della corporeità, anche la rete dei sentimenti, anche la rete delle relazioni e così via. L'aspetto inedito dell'attuale sviluppo capitalistico è la sua capacità di sussumere ciò che il fordismo-taylorismo, proprio perché non riusciva a sussumere, escludeva dal suo universo visuale, ma lasciava sopravvivere, mentre adesso lo incorpora e lo usa come forma di valorizzazione. Da questo punto di vista la rivoluzione femminista è stata, da una parte, la più radicale e la più duratura rivoluzione del '900: laddove sono fallite le rivoluzioni epiche, questa rivoluzione, che non ha messo in campo nemmeno un centimetro di organizzazione di potere nel senso tradizionale del termine, ha cambiato profondamente le esistenze, quindi è il segno di una capacità straordinaria di come, trasformando le reti relazionali, si trasforma il mondo. E dall'altra parte, però, ha aperto la strada ad un livello incomparabilmente più alto di sussumibilità della nuda vita dentro il processo di accumulazione capitalistico, quindi dentro il processo di lavoro. E' stato un salto in avanti nella totalizzazione del lavoro, che mi sembra sia l'elemento all'ordine del giorno oggi, questa dimensione del lavoro che si decentralizza, si frammenta, si atomizza, si segmenta, ma non per questo diventa meno totale, diventa anzi più totale, più inglobante.

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