|
INTERVISTA A MARCO REVELLI - 24 LUGLIO 2001 |
|
Devo dire che tutto il mio percorso è interamente extraleninista e antileninista, radicalmente opposto all'idea dell'autonomia del politico e delle avanguardie esterne. Se c'è una parola che mi sta sulle scatole è proprio quella delle avanguardie esterne, comprese le cose a cui ho partecipato quando lo sono diventate: Lotta Continua lo è diventata e così molte altre realtà. Questo è un dato biografico che mi sento di rivendicare.
Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze delle esperienze politiche a cui sei stato interno e più in generale dei movimenti e delle ipotesi espressesi negli anni '60 e '70?
Voi prima parlavate dei referenti e dei riferimenti politici. Se devo fare una rapidissima carrellata dei riferimenti, c'è sicuramente la rielaborazione del marxismo italiano che si è espressa intorno ai Quaderni Rossi, l'asse Panzieri-Tronti, con un pendolo, a volte un po' più l'uno e a volte un po' più l'altro: io sono partito da Tronti e ho rivalutato Panzieri più tardi, altri hanno fatto diversamente. Ci sono le categorie di "Operai e capitale", l'idea che l'insieme dei rapporti sociali vengono determinati dentro il processo di valorizzazione, nel confronto materiale capitale-lavoro, che quello è l'asse centrale attorno a cui puoi leggere il processo, e quindi l'aspetto forse più metafisico trontiano; e dall'altra parte invece c'è l'attenzione sociologica forte di Panzieri, la riflessione sull'uso capitalistico delle macchine, il recupero dei francofortesi in una chiave di marxismo critico radicale, il tentativo da lui fatto di tenere ancora un piede dentro la CGIL e l'altro dentro i movimenti di massa. Quindi, Quaderni Rossi più che non la loro evoluzione in Classe Operaia e nelle letture più marcatamente politico-militanti. Quindi, c'è questa dimensione, con ovviamente il Marx dei "Grundrisse" dietro, il Marx del capitolo VI inedito de "Il capitale", questo Marx qui insomma, fortemente coniugato con Francoforte, con la filosofia critica. Poco Foucault, che arriva molto più tardi. Per altri versi c'è molta eresia dei movimenti comunisti novecenteschi, Rosa Luxemburg, lo spartachismo. Niente trotzkismo e niente leninismo, anzi una originaria e permanente antipatia per Lenin. Un'interlocuzione molto critica con ciò che scriveva Negri, e soprattutto con la tendenza forte al cortocircuito tra teoria e pratica immediata che ci sembrava di vedere nelle sue cose. C'è questo sostanzialmente nel Dna.
Se mi si chiede cosa c'era di sbagliato in questo, secondo me c'era l'assolutizzazione di una delle tante possibili forme della valorizzazione del capitale, come se il fordismo fosse in qualche modo lo stadio supremo del capitalismo. C'era l'idea che quel livello di organizzazione del capitale fosse in qualche misura lo stadio estremo e finale, fosse insuperabile per via capitalistica, e che di lì dentro si giocasse un'uscita verso l'altro, addirittura l'idea che dentro quel livello il comunismo potesse essere il programma minimo, che fosse già tutto scritto il nuovo modello di società. E l'incapacità di vedere come in fondo quel conflitto stava segando il ramo su cui eravamo seduti, come in realtà ogni punto segnato da quella composizione di classe in termini di potere fosse un colpo di piccone al modello che aveva generato quella composizione di classe: tanto è vero che quando poi il capitale fa il salto organizzativo quella composizione di classe si dissolve. Dunque, c'è stata questa incapacità di vedere i limiti di quel tipo di composizione di classe ancora tutta chiusa dentro l'involucro del capitale, la scarsissima attenzione invece ai processi di accumulazione culturale nel senso di stile di vita, stile di comportamento, trasformazione della soggettività e così via. L'unica soggettività che veniva trasformata era quella dei militanti, mentre il resto si immaginava che fosse trainato e determinato dal movimento del capitale, che il nemico lavorasse per noi per certi versi, che in ogni salto in avanti nel processo di sussunzione della forza-lavoro dentro il capitale si avvicinasse il momento del rovesciamento, dentro questa visione teleologica e storicistica che appunto ci faceva immaginare che il nemico lavorasse per noi. E di colpo invece ti trovi di fronte al nemico che fa la propria rivoluzione e azzera il tuo soggetto sociale: questa credo che sia stata la grande tragedia dell'operaismo italiano, di avere vinto e nel momento in cui vinceva di essere stati sbaragliati, perché è cambiata radicalmente la forma dell'organizzazione capitalistica senza che venissero meno i rapporti sociali di produzione.
|
1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6
- 7
|
|