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INTERVISTA A SANDRO MEZZADRA - 3 APRILE 2001 |
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Poi alla fine degli anni '80 le cose sono un pochino cambiate, nei primi anni '90 c'è stata l'esperienza delle varie riviste, da Luogo Comune a Riff Raff a Futur Anterieur in Francia: lì ho cominciato un pochino a dialogare, sia pure all'inizio con qualche elemento di scetticismo e di sospetto, con chi faceva queste riviste. Nel frattempo la mia formazione aveva continuato a svolgersi appunto sotto gli auspici dell'operaismo italiano. Diciamo che forse un elemento di anomalia nel mio percorso intellettuale, per quello che può contare, rispetto a quello di tanti giovani compagni di quegli anni lì (o meglio pochi, perché eravamo pochi), è il fatto che leggevo molto Tronti, anche il Tronti contro cui giustamente Negri aveva polemizzato negli anni '70 e nei primi anni '80. Dalla lettura di Tronti, nonché dalla lettura di molti libri di Toni Negri, mi ero formato l'idea che fosse opportuno, in una fase caratterizzata da un'apparente assenza di movimento e di lotte, ragionare sul profilo concettuale della politica. Ho quindi cominciato a fare questo, ho fatto una tesi di laurea su Hobbes, sulle origini della politica moderna. Poi mi sono iscritto a Scienze Politiche a Bologna, ho iniziato a studiare giuristi, sociologi, teorici dello Stato tedeschi tra '800 e '900. Mi sono formato un po' i ferri del mestiere del ricercatore, oltre a quel minimo di curriculum che poi mi ha permesso di entrare in università. La fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, ripeto, è il periodo in cui, dapprima sospettosamente, poi invece con maggiore convinzione, ho cominciato a dialogare con queste esperienze di riviste, pur senza mai identificarmi appieno con nessuna. Ho tuttavia collaborato con gli uni e con gli altri, ho anche intrapreso rapporti di profonda amicizia con alcuni, Paolo Virno per esempio (da cui ho imparato moltissimo), ho avuto più volte occasione di incontrare Toni Negri e di discutere con lui. Poi va forse anche ricordato che all'inizio degli anni '90 (nel '91-'92), sull'onda lunga della Pantera, abbiamo fatto un ciclo di seminari sulla trasformazione del lavoro qui a Genova, gestito del tutto su basi volontarie, con un minuscolo contributo per gli studenti dell'università: sono venuti Sergio Bologna, Paolo Virno, Romano Alquati, Ferruccio Gambino, Yann Moulier, sono insomma venute le persone che in qualche modo ci sembravano quelle più interessanti e più vive nel dibattito di quegli anni lì. E' stato un momento sicuramente importante, anche per svecchiare un po' la discussione a Genova. L'idea era quella di andare avanti, di non fermarci a fare il ciclo di seminari: facciamo questo e poi partiamo con un lavoro di inchiesta. Come spesso accade il primo tempo ha funzionato bene, dal secondo tempo abbiamo tirato fuori molto poco, abbiamo fatto un po' di interviste su Genova.
Fin qui si può vedere che il percorso è abbastanza lineare. Io in quella fase continuavo a lavorare all'università di Bologna, seppure in modo precario; quando invece è venuto a Genova Alessandro Dal Lago abbiamo cercato di recuperare una parte delle esperienze che erano state fatte a ridosso di quel seminario e di trasformarle in un lavoro più strutturato, con qualche elemento di tenuta istituzionale, di garanzia di durata in più, all'interno di Scienze della Formazione. Abbiamo fatto una serie di seminari su questioni variamente legate ai temi delle migrazioni. Quello per me è senz'altro stato un momento importante, se si vuole anche di parziale discontinuità rispetto al passato, perlomeno un momento per me decisivo per cominciare a misurarmi anche criticamente con alcuni limiti della tradizione dell'operaismo italiano, al cui interno ritengo comunque di continuare a ragionare.
Quali sono, secondo te, i limiti e le ricchezze dell'operaismo?
La ricchezza io continuo a vederla nel tentativo di leggere la realtà sociale e lo sviluppo attraverso categorie che abbiano una forte tensione soggettiva. Tenere aperta una riflessione sul modo di produzione capitalistico che abbia al proprio centro l'elemento della scissione, l'elemento della soggettività come motore (tra gli altri motori, aggiungerei) del processo dello sviluppo, mi pare che sia, in poche battute, il principale aspetto che vale la pena valorizzare della lezione operaista. E tra l'altro è valorizzato a livello internazionale, anche da teorici che sono lontani dall'operaismo: se si pensa, per esempio, al modo in cui un gruppo di storici indiani ha rinnovato in profondità il modo di guardare alla storia dell'India coloniale (mi riferisco all'esperienza del collettivo che ha dato vita all'esperienza dei "Subaltern Studies") si vede che lì c'è un'intenzione teorica che è profondamente affine a quella dell'operaismo: restituire dignità e statuto di soggetto ai contadini, ai milioni di senza nome che hanno condizionato e determinato in profondità lo sviluppo dello stesso dominio coloniale in India. Questo, ripeto, l'ho qui detto in poche battute, vi si può tornare con più sistematicità: secondo me è il principale aspetto che credo debba essere valorizzato dell'operaismo.
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