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INTERVISTA A SANDRO MEZZADRA - 3 APRILE 2001 |
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Tra quella che è la composizione tecnica e politica dell'operaio-massa e quella che è la composizione tecnica e politica del cosiddetto operaio sociale c'è una grossa differenza: sia in Italia negli anni '60 sia a livello anche americano e mondiale, la forma del conflitto dell'operaio-massa viene fuori dopo 30-40-50 anni che c'era questa figura sociale.
Composizione tecnica e composizione politica secondo me sono strumenti molto efficaci, a cui io sono parecchio legato, che però vanno maneggiati con cura, nel senso che non è sempre facilissimo distinguere la composizione tecnica dalla composizione politica.
E' un processo in cui ci sono intersecazioni.
Sono fatte per intersecarsi.
Anche Negri in alcuni momenti ha detto che l'operaio sociale era un'anticipazione di una figura che doveva comunque ancora formarsi, e certi livelli di conflitto peraltro li ha messi in campo quasi solo in Italia.
Qui entriamo in un'altra categoria su cui riflettere. L'operaio sociale secondo voi è una figura che oggi vale la pena riproporre? Non è da questo punto di vista più utile, anche se forse meno promettente, usare banalmente la categoria di lavoro sociale in senso marxiano? La categoria di operaio sociale ha in sé il rischio di dare per risolto il problema del processo di soggettivazione.
Il problema infatti va posto in termini diversi. Ad esempio, Romano parla di operaietà. Nella tradizione socialcomunista, ma anche alla fin fine in buona parte della tradizione operaista e di una certa sinistra critica e radicale, l'operaio è stato sostanzialmente identificato come il produttore artefattivo, ed in particolare come colui che usa esclusivamente le mani e i muscoli. Questo ha poi permesso, in una determinata lettura di quello che viene chiamato il postfordismo, di vedere l'erogazione di alcune facoltà nel processo produttivo (intellettuali, cognitive, timiche, relazionali ecc.) come un qualcosa di radicalmente nuovo, come se l'operaio classicamente inteso, il lavoratore artefattivo non usasse tali capacità. Sicuramente c'è oggi una diversità quantitativa nella composizione delle facoltà richieste dal processo produttivo, dall'altra parte non è vero che vengono erogate capacità una volta non richieste. L'operaietà non è dunque una questione di mani e muscoli, ma ha a che fare con le determinanti soggettive, fino ad arrivare alla mai indagata soggettività. C'è stata una fase transitoria in cui la soggettività operaia ha dimostrato alcune (ma non altre) determinanti soggettive di alterità rispetto a quelle di una soggettività colonizzata dal padrone collettivo. Di ciò non si rende conto chi pensa che l'unico problema consista nell'eliminare il comando capitalistico per liberare la composizione tecnica della classe o della moltitudine, senza analizzare che cos'è soggettivamente quella cooperazione sociale di cui si parla e quei bisogni evocati come custodi di immanenti istanze teleologicamente dirette verso il comunismo. Già verso la fine degli anni '60 le lotte operaie avevano imboccato la strada del declino, ben prima che i movimenti finissero e si frantumassero. Dunque, per una certa fase si è espressa una soggettività operaia che sicuramente non era del tutto antagonista, ma che aveva delle determinanti soggettive che, incontrandosi in una cicolarità virtuosa con una certa soggettività politica, offriva delle possibilità di esplorare un potenziale contropercorso. Una volta che le lotte operaie hanno imboccato la strada del declino, unitamente ai limiti e agli errori della soggettività politica antagonista, si è progressivamente giunti ad una fase di chiusura in cui la soggettività operaia è tornata ad essere quella dell'altra metà del padrone. Quindi, se non è questione di mani e di muscoli ma centrali sono le determinanti e le prerogative soggettive, Romano pone l'ipotesi della possibile ricerca di una nuova operaietà.
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