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INTERVISTA A CHRISTIAN MARAZZI - 5 LUGLIO 2000
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Quindi, l'Asia è negli Stati Uniti e gli Stati Uniti sono sempre in Asia, dunque dire impero significa rompere con quella dialettica del dentro e fuori, del centro e della periferia, sviluppo e sottosviluppo, che pure ha contribuito a dare una connotazione politica all'internazionalismo proletario o delle lotte, pur sempre basata su una solidarietà un po' volontaristica. E' sempre stato il limite della traduzione politica dell'analisi delle teorie dell'imperialismo quello di pensare che bastasse fare delle manifestazioni di solidarietà con i Vietcong: la sconfitta è avvenuta certo perché c'è stato un grosso movimento della pace e contro la guerra, però anche a causa della crisi interna all'esercito americano, è una crisi reale indotta anche da fenomeni reali, la rivoluzione culturale degli anni '60, della Beat Generation, dei Rolling Stones ecc., era una roba che entrava nelle vene della gente che era giù a lottare in Vietnam, non erano solo parole e manifestazioni. Quindi, essere entrati in questa nuova visione delle cose che con una parola, impero, vogliamo riconfigurare, mi sembra interessante perché pone per esempio la lotta di una banlieu di Parigi o dell'hinterland milanese immediatamente sullo stesso piano di una lotta a Seattle, ma Seattle di Bill Gates, oppure nella Silicon Valley. Questo secondo me è importante, si pensi ai lavori della Saskia Sassen, "Città globali", lei è veramente brava, è interessante, perché dice: "Le città globali sono i piedi dell'economia globale, sono le realtà urbane dove hai i broker però di notte hai le donne della pulizia che sono di colore o filippine che vengono a pulire gli uffici dei broker". Lei giustamente sostiene che questa è la realtà della globalizzazione, analizzando come poi realmente questa funziona: non è solo perché esistono le tecnologie informatiche o Internet, ma ci sono proprio dei luoghi, e tali luoghi sono queste stazioni dell'impero, ma sono le stazioni che possono essere a New York, a Zurigo, a Milano, a Seul, a Singapore, a Tokyo e via di questo passo. Sono quindi delle stazioni di una grande rete ferroviaria virtuale dove si trasportano modalità di sfruttamento del sapere.
Tu prima parlavi della moltitudine, i conflitti che essa esprime e che esprimono i vari soggetti anche nella loro singolarità e nella loro differenza: non pensi che però in questo discorso vada considerata una pesante colonizzazione della soggettività da parte del capitale e un'imposizione dei propri modelli a partire proprio dai comportamenti, dai bisogni, dalle credenze, dalla cultura, dalle ideologie ecc.? Non pensi che molti conflitti vadano in una direzione funzionale al sistema piuttosto che in una dimensione di alterità? I bisogni di per sé non sono antagonisti, sono quelli che il capitale ha imposto, quindi i conflitti che da essi nascono si esprimono molto più in senso orizzontale e individuale che in forme di contrapposizione collettiva al sistema, perché si è esclusi da determinati benefici del capitalismo e non perché si è contro ad esso. Anche a Seattle sembra essersi visto questo: le forme di contrapposizione alla globalizzazione per molti partivano ad esempio da rivendicazioni protezionistiche o di determinati privilegi individuali.
Certamente lì si è visto, perché quando si prendevano i programmi di lotta e le agende dei vari movimenti e delle varie organizzazioni ciò era evidente: come si fa da una parte ad avere il sindacato dei lavoratori americano, l'AFL-CIO, che lotta contro i dumping salariali, e dall'altra poi avere i rappresentanti dei paesi poveri? Oppure avere coloro che lottano contro lo sfruttamento nei paesi sviluppati, nelle periferie o nei paesi emergenti, e poi avere quelli che sono contro lo sfruttamento minorile nelle fabbriche della Nike in Indonesia? Voglio dire che per certi versi era un macello, ma io credo sia proprio quello che si diceva prima, ossia il limite di un'opposizione alla globalizzazione che ha bisogno per esistere di una sua corporeità. Faccio un esempio da economista: nel dibattito, o nella lotta, tra la old e la new economy (si prenda l'ultimo libro di Rifkin) una cosa che salta sempre fuori è che le imprese dot.com sono imprese che non hanno capitale fisico immobilizzato, che hanno la proprietà non dei mezzi di produzione come li intendiamo classicamente ma hanno la proprietà intellettuale.
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