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INTERVISTA A CHRISTIAN MARAZZI - 5 LUGLIO 2000

Quante volte si è detto "ma non è vero, perché poi gli operai in realtà non sono mai stati veramente così, c'erano un sacco di stratificazioni ecc.", ma questo è sempre stato vero, la parola d'ordine operaio-massa era qualcosa che rimandava per esempio alla dimensione di massa del salario, della forma salariale, del rapporto tra capitale e lavoro, era il tirare dentro questa universalità di massa della società capitalistica dei nuovi soggetti, gli studenti per esempio. Il problema non era portare gli operai dagli studenti, il problema era portare gli studenti a mettere in rapporto organico le loro lotte con quelle degli operai, e a sua volta fare in modo che le lotte degli operai permettessero ai poveri studenti, o a dei giovani, a dei nuovi soggetti di uscire da una prospettiva di tipo progressista, riformista, perché sicuramente erano più radicali le lotte degli operai nel momento in cui proprio non parlavano né di Trotzki né di Lenin ma parlavano di salario, che non quelle degli studenti che invece magari erano molto carichi di ideologia e di estremismo ma che però tante volte restavano in un certo ambito. Anche se poi secondo me è importante nella critica attiva degli anni '70 ricordare appunto che quello che oggi è, per parlare di questa metabolizzazione, il discorso sull'economia della conoscenza, che si produce a mezzo di conoscenza, o sulla base di conoscenza del sapere, è proprio uno degli esiti della crisi del modello fordista: il rifiuto del lavoro salariato del padre che ha passato quarant'anni in fabbrica e la domanda di saperi, di università, di scuola ha spinto anche il capitale a muoversi su questo terreno dell'immateriale. Seattle è una moltitudine che è una caricatura della moltitudine, nel senso che ha dei vestiti e ha dei corpi che però rischiano di svuotare di potenza politica la moltitudine nel momento in cui di nuovo questi corpi per fare politica, in quanto corpi, fanno un po' quello che fanno i partiti: nei numeri di Le Monde Diplomatique dopo Seattle ai teorici della critica del pensiero unico non pareva vero, il che è giusto, è gente brava e simpatica, ma c'era la proposta di voler mettere in piedi un parlamento internazionale o sovranazionale, per fare dei gruppi di lavoro con i corpi, con i rappresentanti del movimento internazionale ecologista. Qui si vede immediatamente come possa cadere in poco tempo una categoria, quella della moltitudine, che ha delle potenzialità proprio perché è una categoria politica e non è una composizione sociologica, quindi con i suoi corpi, ma è una categoria di pensiero che non è riducibile a dei corpi, dunque non è sociologica, non è neanche politologica nel senso dei sistemi organizzativi, le organizzazioni non governative ecc.: questo accade proprio perché non si è ancora lavorato abbastanza su questa idea di un soggetto molteplice che è dentro ma è contro la globalizzazione.
Ripensandoci e cercando di ricostruire tutto questo percorso, l'ultima cosa che mi sembra veramente interessante è questa idea dell'impero che Michael Hardt e Toni Negri hanno sviluppato in un libro pubblicato negli Stati Uniti, "Empire". E' un'idea piuttosto geniale, nel senso che da una parte effettivamente dire impero è molto più di quanto si possa immaginare, non significa dire pensiero unico, significa dire qualcosa che non è più riducibile all'imperialismo, il quale è sempre stato costruito sulla dialettica perversa tra centro e periferia, sviluppo e sottosviluppo, un dentro e un fuori. All'idea dell'impero io ci sto arrivando, se si vuole dal punto di vista dell'economista, seguendo e studiando quello che sta succedendo internazionalmente sul piano finanziario, però nel libro Toni e Hardt ci sono arrivati certo facendo i conti con la tradizione dell'imperialismo, però soprattutto attraverso la categoria della biopolitica, del biopotere; io vedo le cose e mi sento sempre più vicino a questa idea di impero però non partendo da lì, dal biopotere e quindi dalla tematica foucaultiana che è un po' al centro dell'impero. Dire impero significa dire che il nemico o meglio il centro è nella periferia anche, non solo al centro, e la periferia è nel centro; vuol dire quindi dare una definizione nella quale, io dico, l'altro è qui e qui è l'altro. Faccio un esempio: quest'anno gli Stati Uniti hanno dimostrato di avere da una parte ovviamente sempre la forza del dollaro che è la moneta internazionale, però allo stesso tempo di avere paradossalmente avuto un'evoluzione di tipo economico, finanziario e anche sul piano degli scambi commerciali di tipo asiatico, sono fortemente esposti dal punto di vista dell'indebitamento verso l'estero, sono anche esposti al loro interno agli effetti che una politica monetaria restrittiva potrebbe provocare proprio sul dollaro; supponiamo che a un certo punto tutti gli investitori che hanno investito nelle Borse di New York, visto il rischio di una svalorizzazione, dovessero prendere su, esportare i capitali e metterli in Europa o in Giappone, ci sarebbe veramente una crisi di tipo "asiatico" ma della capitale dell'impero.

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