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INTERVISTA A CHRISTIAN MARAZZI - 5 LUGLIO 2000

Io ho come l'impressione che l'operaismo, quella generazione ma non solo, anche tutti i giovani che sono cresciuti negli ultimi vent'anni dentro questo corpo teorico, in un qualche modo ha dato dimostrazione di avere una certa lucidità nell'analizzare cos'è il postfordismo, la new economy ecc.: insomma, mi sembra che da parte di quel cervello collettivo si siano prodotte delle cose che da una parte hanno anticipato (come è sempre stato nell'operaismo, una grande capacità di anticipazione) quelle che sono oggi per esempio le realtà della finanza, della finanziarizzazione nella società e non solo delle aziende, dell'agire comunicativo che nello stesso tempo è un agire produttivo nei luoghi di produzione, di questi soggetti postsalariali che negli anni '80 sicuramente erano i soggetti delle nuove povertà ma che oggi sono "normalizzati" dentro il modello di crescita economica postfordista. Però, mi sembra che si stia piano piano uscendo da quello che è stato il contraccolpo del passaggio dalla repressione, si incomincia a pensare non più soltanto in termini difensivi o resistenziali ma si inizia a vedere proprio dentro la produzione teorica anche la stessa possibilità di produrre lotte. Soprattutto in un'economia e in una società dove il linguaggio e la comunicazione sono fortemente pervasivi è importante quella che è stata una delle caratteristiche della politica operaista, quella di trovare le parole giuste per parlare di cose che non hanno parole, in verità ricostruire delle categorie che sono nello stesso tempo categorie che producono soggettività: mi sembra che adesso piano piano si stiano trovando delle parole e delle categorie che non sono soltanto la registrazione della forza del capitale, ma anche la registrazione di movimenti che possono essere attivi. Certo, Seattle, per dire, con tutti i suoi limiti interni, da una parte ha fatto vedere a miliardi di persone l'esistenza di un pensiero critico in carne ed ossa, però questo pensiero critico ha solo carne ed ossa, nel senso che lo vedi, alla televisione, ai telegiornali: il problema è di avere un pensiero critico che paradossalmente non abbia corpo, nel senso che sia pensiero critico che sappia penetrare nella società senza sedimentarsi nei corpi, nel corpo di Bovè, nel corpo del sindacalista che vede gli effetti collaterali della globalizzazione, nel corpo del giovane che rifiuta questa riduzione economicistica di tutta l'esistenza e di tutto l'universo ecc. E' una cosa che non saprei sviluppare oltre, ma questa idea di un movimento molteplice, di una moltitudine che però non ha corpo mi sembra una sfida interessante. La moltitudine di cui si parla oggi cosa ha dentro? E' il movimento della differenza, ma della differenza molteplice, è un movimento che nasce dalle donne in realtà, nel senso che per prime le donne hanno praticato la differenza, a partire dal sesso, dalla discriminazione ecc. hanno sviluppato tutto un linguaggio, tutta una comunicazione, delle parole insomma che sono state altre dal diverso. Oggi il problema è rendersi conto che la differenza è molteplice, quando si parla di moltitudine si parla di un mondo, di un pluriverso che è contro la globalizzazione pur essendoci dentro, ma allo stesso tempo la sua diversità si articola e si declina in tante diversità, addirittura in tante singolarità. Questo vuol dire moltitudine, vuol dire non mai ridurre la diversità al popolo unito, il popolo unito è quello che ci frega, è quello che ha fatto emergere ed esplodere le leghe, i nazionalismi berlusconiani e tutte queste robe qua; il popolo unito è un'eredità negativa dell'epoca industriale, della classe operaia, di questa visione nazional-popolare (anche a sinistra) dei soggetti. La moltitudine sulla quale oggi si sta più che altro ragionando è da una parte qualcosa che secondo me vede tutta la riflessione, la lotta e la produzione teorica delle donne, proprio in quanto pensiero della differenza, come un'esperienza teorica fondamentale, però d'altra parte vede proprio nel fatto del corpo e della differenza il suo stesso limite, perché il corpo e la differenza non ti portano a un concetto di moltitudine che sia antagonistico in quanto tale, ti portano semmai a un concetto di moltitudine che è una sommatoria di corpi, come è stato Seattle. Il problema è di andare al di là di questa cosa, il che non vuol mica dire trascurare il corpo, tutt'altro, ma trovare un modo di non prendersi cura del corpo come sta facendo il capitale, che si prende cura del nostro corpo perché si prende cura di noi come forza-lavoro, di corpi vivi da mettere in valore, da far lavorare.
D'altra parte mi sembra che, proprio per le cose che dicevo all'inizio, nella ricostruzione perlomeno di quello che è stata la mia vita dentro l'operaismo, sempre un po' in giro, non c'è solo il concetto teorico di moltitudine che di nuovo è una di quelle parole giuste che bisogna inventare per produrre delle lotte. Quando 30-40 anni fa si è detto operaio-massa si era detto qualcosa che era una parola, era un'espressione, poi dopo sono stati fatti mille studi di sociologia del lavoro per vedere quanto l'operaio fosse massa, molte volte confondendo i piani: l'operaio-massa era certo una categoria sociologica, sociale, nel senso che era rappresentabile nell'operaio della catena di montaggio, o nelle masse degli immigrati, o in tutto quello che si vuole, però nello stesso tempo l'operaio-massa era qualcosa che non era riducibile per esempio in termini di omogeneità.

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