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INTERVISTA A CHRISTIAN MARAZZI - 5 LUGLIO 2000

La meta New York o gli Stati Uniti per me (ma perché adesso sto parlando di me) era ovviamente una meta importante, nel senso che c'è sempre stata una forte attenzione e presenza delle tematiche americane grazie a Ferruccio Gambino, grazie al compagno Paolo Carpignano, che era già a New York nel '68-'69, e poi grazie proprio all'impostazione complessiva del lavoro teorico e storico dell'operaismo, di questo troncone di operaismo. Io avevo avuto una grande fortuna perché ero stato contattato da un professore di università dello stato di New York che aveva letto un mio articolo apparso sul secondo numero della rivista Zerowork e che era sulla crisi monetaria internazionale. Questo professore mi aveva dunque chiesto se volevo andare a New York: figuriamoci, era la cosa più inaspettata ma anche la più sognata e desiderata perché era un'occasione. In effetti questo periodo è stato molto metropolitano per tutto ciò che significa essere a New York, però allo stesso tempo anche lì c'era una coincidenza: ero arrivato nell'agosto del '78 e dopo qualche mese, nel '79, scoppia il 7 aprile. Per cui, con delle persone che avevo incontrato e in particolare Silver Lautrange (che è professore di Lettere e Filosofia francesi alla Colombia University e ha tuttora una rivista che si chiama Semiotexte), per l'interesse suscitato da questa repressione, vista dall'esterno soprattutto come una repressione degli intellettuali, avevamo fatto un numero unico appunto sull'Autonomia italiana. L'esperienza era interessante perché era una rivista che era un po' il referente teorico di quella new wawe nascente, di tutte queste esperienze di musica, di poesia, di teatro, di letteratura, di cinema: ad esempio, c'era tutto quel giro che poi per alcuni è stato anche il punto di partenza di carriere di successo, per dire di una persona Madonna bazzicava da quelle parti lì. Questo lo dico perché l'interesse per l'Italia allora da parte di questo movimento culturale, musicale che si chiamava new wawe era un interesse sicuramente molto estetico per certi versi, questi non ci capivano niente, era il periodo delle Brigate Rosse, era difficile comprendere le varie esperienze, però c'era questa attrazione per una trasgressione che era politica: mi ricordo che il sottotitolo di questo numero dedicato tutto all'Autonomia (c'erano dentro scritti di Piperno, di Toni, di Bifo, un po' di tutto) era "politica e postpolitica", giocato tutto su questo passaggio che se vogliamo allora non era come si dice oggi al postfordismo, ma era già dentro al postmoderno. Questi erano giri che erano passati tutti dalla Factory di Andy Warhol per dire, quindi c'è questo tipo di nuovo incrocio. Adesso io lo dico ma queste cose mi sono capitate, non è che le ho provocate io: mi è capitato di essere testimone di ramificazioni, di questa sorta di diffusione molecolare di un'idea di politica altra rispetto a quelle sperimentate. E' importante dire che Silver Lautrange è colui che ha incominciato a importare e a tradurre il pensiero di Foucault, di Derrida, di Deleuze e Guattari: quindi, si vedono le varie intersecazioni di schegge diverse che in un certo senso, pensando retrospettivamente (ma non solo, anche pensando adesso), mi permette di dire o di capire quanto in realtà fosse poco italiano quello stesso movimento e filone di pensiero e teorico che pure era stato il mio battesimo, e quanto fosse poco se vogliamo operaista nel senso della stanzialità, della fabbrica; era un operaismo nel senso semmai internazionalista, basato su un'idea di rottura con un modo stesso di concepire la politica e che partiva ovviamente dalla critica del lavoro, dal rifiuto del lavoro, che era stata una delle parole chiavi e degli obiettivi forti dell'operaismo, ma quindi di una messa in discussione di tutto un modello culturale che dal lavoro salariato fordista si era storicamente dato. Quindi, diciamo che è questa critica operaista della società fordista che fa dell'operaismo italiano una cosa che immediatamente ha una sua dimensione multinazionale, multiculturale, pluriculturale, pluridisciplinare. Io l'ho vissuta così, ma l'ho vissuta in carne ed ossa nel senso che c'ero, non è una mia invenzione: ho visto David Burn dei Talking Heads interessarsi all'operaismo, in forme poi (come sono sempre) magari anche estetico-culturali, però fino a un certo punto, perché poi in realtà le cose si sono venute a sapere, si è capito che non erano solo cartelloni pubblicitari o manifesti e che c'erano delle lotte, c'erano i movimenti, c'era organizzazione, c'era uno scontro, c'era la prigione, c'era l'incarcerazione, c'era la repressione. Tutto ciò è una cosa che è importante ricordare quando si fa la ricostruzione di tutto questo periodo perché effettivamente permette di capire che certe ipotesi di lavoro non erano volontaristiche, non erano semplicemente basate su bisogni a trovare degli alleati, di coloro che portano il nostro pensiero, non era quello: è che in effetti il pensiero si è diffuso più attraverso le cose reali, i movimenti ripeto non solo di tipo classico operaista e militante tradizionale, tutt'altro, ma attraverso quelli che sono stati movimenti di rottura nell'ambito artistico, musicale ecc.

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