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INTERVISTA AD ALBERTO MAGNAGHI - 28 AGOSTO 2001


Questa riflessione è avvenuta in un contesto fortemente contraddittorio: da una parte l'ecologismo si è sviluppato in Italia come "ambientalismo scientifico", e quindi in modo del tutto avulso anch'esso da una discussione radicale del modello di sviluppo; e dall'altra parte l'operaismo si è un po' rinchiuso e si è disseccato come filone culturale all'interno della figura dell'operaio massa, magari proiettata sul "proletariato metropolitano" : è stata una grossa innovazione aver messa in evidenza e interpretata questa figura come motore del conflitto moderno di classe, ma di cui dovevamo (ha ragione Romano) anche saper prevedere la propria autodistruzione, cioè l'aver indotto con le proprie lotte il capitale in tutta Europa e negli Stati Uniti a cambiare completamente modello e rapporti sociali di produzione.
Probabilmente non c'è stata una continuità di capacità teorica di interpretare la nuova composizione di classe: cioè il salto tra l'operaio-massa dei Quaderni Rossi e l'operaio sociale del lavoro autonomo di seconda generazione. Non c'è stata una capacità di interpretare questa trasformazione. E ciò nello stesso Movimento Operaio ufficiale, che oggi si dibatte in una crisi tremenda perché, venendogli a mancare questa figura dell'operaio-massa come base elettorale, come ragione organizzativa della propria struttura associativa e politica, annaspa inseguendo Berlusconi, inseguendo la globalizzazione, inseguendo il mercato, inseguendo le privatizzazioni. Ovviamente poi la gente sceglie i capitalisti veri, non quelli improvvisati, opta per quelli che sanno accumulare di più, che sono più ricchi, in grado di sfruttare meglio, che sono più ammirati.
Recentemente vedo molte riflessioni riportarsi sulla tematica del rapporto tra organizzazione del lavoro e modelli di sviluppo innovativi: in alcuni almeno dei protagonisti di quegli anni (Piperno a Cosenza, io nei miei lavori, nelle mie ricerche, ma anche nelle mie pratiche, e altri come Bologna, Revelli, Perna, Paba, Bonomi) c'è un circuitare di esperienze che tentano per così dire di riconnettere un discorso sull'organizzazione del lavoro con un discorso sui modelli progettuali alternativi di sviluppo. Non a caso nel mio ultimo libro, "Il progetto locale", metto in evidenza una possibile relazione tra una nuova composizione sociale del lavoro e modelli di sviluppo locale, di autogoverno, di rottura dell'eterodirezione, di costruzione di modelli sostenibili economicamente, politicamente, culturalmente. Propongo il tema della sostenibilità e dei modelli di sviluppo autocentrato. C'è una lunga disamina degli attori potenziali di questo progetto, che è un coacervo molto complesso: come dice Marco Revelli, non si tratta più di mettere insieme le omogeneità, le identità omogenee di classe come allora, ma di trovare delle forme di governo della complessità fra attori molto diversi, che sono giovani, anziani, donne, bambini, piccole e medie imprese, attori sul territorio che fanno società locale complessa. Quindi, in questa società reticolare, complessa, retta da reti che vanno dal locale al globale, non possiamo più parlare con un criterio né di intellettuale organico né di organizzazione di classe così come eravamo abituati allora ad immaginare. Dunque, anche la ricerca sul tema dell'organizzazione assume forme e connotati completamente diversi, trovandoci di fronte ad una composizione sociale del lavoro in cui il lavoro salariato non è più la regolazione e lo statuto dei rapporti sociali di produzione, ma gli statuti sono tanti e legati a questo multiverso di lavoro di microimpresa, autonomo, di rete, di no-profit, di commercio solidale. Sono tante relazioni sociali e produttive che non possono più essere inscritte in un'unica forma organizzativa se non quella delle reti complesse, ma possono essere inscritte in patti per lo sviluppo. La novità secondo me è che si va verso una società organizzata per aggregati regionali, per sistemi territoriali locali. La ricerca politica è la ricerca di nuove forme di democrazia in cui un multiverso di attori abbia voce per concordare un patto per lo sviluppo locale.
Faccio un esempio: io ho partecipato al movimento contro l'Acna di Cengio. Intanto fin dal primo giorno l'abbiamo chiamato "movimento di rinascita della Val Bormida" e non per la chiusura dell'Acna. Adesso sto preparando un libro per la Jaca Book sulla storia di questi ultimi dieci anni, ora l'Acna è chiusa. Tuttavia, io sottolineo che fin dall'inizio abbiamo chiamato il movimento "per la rinascita": si intuiva che il discorso non era quindi solo quello della chiusura di una fabbrica di morte, che aveva distrutto l'economia di una valle, un'identità collettiva, provocato emigrazione (non da sola ma insieme alla Fiat e tutto ciò che ha distrutto l'identità culturale, la proprietà della terra ecc.); la chiusura della fabbrica era solo il primo sintomo, la coscienza cioè che portava tutti questi paesi della valle a non scambiare più salario con morte.

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