Tutto ciò è più pensabile in una società dove i produttori hanno la possibilità di produrre territorio, qualità territoriale, qualità ambientale, di produrre merci sane, cosa che allora era probabilmente irrealizzabile dentro una società che andava da tutt'altra parte, cioè industria di massa, consumo di massa, trasporti di massa, quartieri di massa, cibi di massa, vacanze di massa, ospedali di massa, era tutto di massa e quindi non c'era il campo per pensare ad un modello di vita diverso. Con questo non voglio però giustificare l'assenza totale di barlumi di consapevolezza rispetto a ciò. E' per questo che io chiamo il movimento del '68 l'ultimo della società industriale e il primo della società postindustriale, perché presenta aspetti intrecciati al culmine dell'operaizzazione della società, ma gli studenti portano anche le prime problematiche di fuoriuscita dalla società di massa industriale. Tanto è vero che poi il movimento che matura nel '77 esprime proprio questa sperimentazione: dai germi del '68 non nasce solo il discorso del rifiuto del lavoro, ma nascono tutta una serie di esperienze propositive, i discorsi sulla salute ambientale, sui problemi dell'alimentazione, cominciano le tematiche sull'ecologia, nascono le ipotesi di produzione biologica, nascono i discorsi di un diverso rapporto di cura del territorio e dell'ambiente, nasce il movimento femminista e quindi c'è tutto un discorso di trasformazione dei rapporti di convivenza, di relazione, di nuove problematiche comunitarie. Quindi, nascono le istanze identitarie, rinasce un discorso di comunità che riguarda le esperienze di autorganizzazione nei quartieri, nel territorio e via discorrendo.
Se si rilegge Quaderni Rossi, Classe Operaia, Potere Operaio, si nota che non c'è questa tematica della trasformazione del modello di sviluppo come guida poi di un discorso di militanza politica. Mentre nel movimento queste istanze cominciano a nascere fin da allora e poi si svilupperanno pesantemente negli anni '90 e oggi, fase in cui sono alla base di tutti i movimenti antiglobalizzazione, di tutti i movimenti propositivi di iniziativa di base, ma anche del dibattito istituzionale.
Romano ha formulato una peculiare ipotesi sull'operaismo politico, che tocca diversi degli aspetti che tu hai analizzato. Sostiene che esso si è mosso all'interno di un particolare poligono, cercando di fare i conti con i suoi vertici, in parte riuscendovi ma soprattutto non riuscendovi, lasciandoci quindi tanti nodi irrisolti o addirittura poco affrontati. I vertici sono rappresentati dagli operai e dalla loro soggettività, dalla politica e dal politico, dalla questione generazionale, dalla cultura, mai criticata fino in fondo, tant'è che i modelli dominanti sono alla fin fine restati quelli della cultura esplicita umanistica e dell'intellettuale organico. Romano ipotizza che la grande ricchezza dell'operaismo politico, dirompente rispetto ai tradizionali modelli marxisti e socialcomunisti, consista in una lettura socioeconomica nuova della realtà italiana degli anni '50, nella fase di entrata ritardata nel taylorismo-fordismo, nel momento in cui il PCI e il Movimento Operaio erano impantanati nelle teorie dei monopoli e ristagniste. Ma la vera rottura consiste soprattutto nell'aver individuato nell'operaio-massa non solo una nuova figura utilizzabile in una prospettiva anticapitalista, ma un'avanguardia di massa che poteva andare contro se stessa, verso la propria autoestinzione. In ciò rompendo con il tecnicismo, lo sviluppismo, lo scientismo, il lavorismo tipico dell'operaio di mestiere, figura su cui si è formata tutta la tradizione della sinistra. Dall'altra parte, il grosso limite e fallimento dell'operaismo politico è consistito nell'incapacità di portare fino in fondo la rottura, elaborando nuovi fini ed obiettivi, un nuovo progetto politico adeguato a quella lettura completamente nuova. Quindi, se c'è un operaismo politico che rompe e va avanti, dall'altra c'è un operaismo politico che ritorna indietro, nei vecchi modelli socialcomunisti.
Io concordo abbastanza con questa lettura di Romano. Ho aggiunto che a mio parere c'è stata anche questa scarsa attenzione alle teorie dello sviluppo, che avrebbero potuto (poi nella storia è sempre difficile dire cosa sarebbe potuto essere) non permettere che si creasse quella rottura e frammentazione tra il nascente ecologismo e la vecchia cultura politica dell'operaismo. Io sono stato investito da questa trasformazione anche nel mio pensiero politico, che si è spostato dall'operaismo verso l'anarcocomunitarismo e l'ecologismo, cercando di ricollegare l'ecologismo a tematiche socioterritoriali.
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