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INTERVISTA AD ALBERTO MAGNAGHI - 28 AGOSTO 2001


Sempre parlando di limiti di quella esperienza, c'è un'altra questione più teorica: la maggior parte della sinistra è ancora ora una cultura inscritta nelle teorie tradizionali dello sviluppo. Intendo con ciò quelle teorie che accomunano il capitalismo, il capitalismo di Stato, il comunismo, che hanno come caratteristiche dominanti il rapporto lineare tra scienza, applicazione scientifica e progresso sociale, l'idea di sviluppo economico fra stato e mercato, l'idea di continuità, di sviluppo lineare e di modernizzazione, l'idea salvifica dell'Occidente (la teoria degli "stadi" di sviluppo): non dimentichiamo che Lenin propugnava le colonie come mezzo per modernizzare il Terzo Mondo costruendo fabbriche e classe operaia. Quindi, anche l'operaismo italiano di cui ho fatto parte non ha mai messo in discussione le teorie tradizionali dello sviluppo. I temi centrali erano la redistribuzione del reddito prodotto e la classe operaia come motore dello sviluppo: ma quale sviluppo? Quello dato: anzi, un po' irridevamo alla Cina di Mao, ai contadini. Lo sviluppo era lo sviluppo dato, il problema era l'appropriazione sociale, economica e poi anche statale del potere da parte della classe operaia. Ciò non riguardava solo noi ovviamente: non lo metteva in discussione il Movimento Operaio istituzionale, non lo metteva in discussione l'Unione Sovietica, tanto è vero che le risposte di Lenin o di Stalin al problema dello sviluppo sono state l'imitazione accelerata, la famosa pianificazione dell'industria pesante, la messa in pari dell'Unione Sovietica con l'Occidente dal punto di vista dello sviluppo economico e industriale. Ma il modello era identico, lo stesso, semplicemente era gestito dai soviet anziché dai capitalisti privati. Questo modello si prolunga ad esempio in Africa, dopo i movimenti di liberazione anticoloniali degli anni '60. A Maputo e ad Algeri il modello di sviluppo, "curato" dall'Unione Sovietica i dall'Europa è lo stesso di prima. Questo secondo me è un altro elemento molto importante da tenere in conto: nessuno di noi allora intravedeva una crisi delle teorie tradizionali dello sviluppo. Dico questo, però negli anni '70 esistevano già le teorie della dipendenza di Baran e Sweezy in America Latina, cioè la crisi della teoria degli stadi di Rostow che prevedeva che i paesi sottosviluppati, seguendo l'esempio dei paesi ricchi, avrebbero aumentato il loro benessere. Già le teorie della dipendenza in America Latina attorno alla rivista Monthly Rewiew evidenziavano che lo sviluppo dell'industrializzazione e dei mercati dipendenti dal primo mondo aumentava la dipendenza e il divario anziché diminuirlo. Poi vengono gli "approcci normativi" allo sviluppo, le teorie dell'ecosviluppo, I. Sachs, Galtung ecc., fino alle critiche radicali allo sviluppo, Illich, Amin, Shiva, Latusche, ecc. Nel Terzo Mondo negli anni '70, attraverso la verifica delle inattendibilità del modello di sviluppo occidentale a determinare una diminuzione del divario della ricchezza, della morte, della povertà, cominciava a crescere in modo abbastanza lineare una coscienza teorica ma anche poi pratica, nelle esperienze di governo e via dicendo. Si pensi alle teorie dello sganciamento dal mercato mondiale, di Samir Amin negli anni '70, fino a Vandana Shiva che scrive "Sopravvivere allo sviluppo", titolo del suo primo libro; ci sono poi gli studi di Wolfgang Sachs, "Archeologia dello sviluppo", un bellissimo libretto, ma il testo più importante è "Dizionario dello sviluppo", tradotto recentemente dalle Edizioni Missionarie Italiane. Un libro molto importante che riassume tutto questo dibattito tra teorie tradizionali, approcci alla dipendenza, e poi approcci alternativi, l'escosviluppo ecc., è un testo di Bjorn Hettne, "Le teorie dello sviluppo e il Terzo Mondo".
In conclusione un limite di quell'epoca, di questo nostro ragionamento intorno al conflitto di classe come motore dello sviluppo, il rifiuto del lavoro e via dicendo, è che non veniva messo in discussione poi il tipo, la qualità, il modello dello sviluppo: quindi, c'era un discorso puramente riappropriativo e redistributivo della ricchezza tra le classi. Questo forse anche perché allora effettivamente pensare che quell'operaio astratto, così lontano dai fini della produzione, potesse occuparsi di ecologia, di ambiente, di qualità della produzione e legare la propria lotta ad uno sviluppo diverso, era forse anche impossibile data la natura del lavoro. Voglio dire che c'è anche una difficoltà oggettiva a pensare all'operaio Fiat (per fare un esempio di una figura espropriata di sapere tecnico, espropriata dell'orto, espropriata del sapersi farsi una casa, espropriata di tutto, ridotta a pura forza-lavoro astratta in una metropoli) come soggetto di un altro sviluppo. Probabilmente l'orizzonte era quello di smantellare questo tipo di organizzazione sociale con la quale era impossibile pensare a uno sviluppo diverso, più attento all'ambiente, più equilibrato ai valori dell'alimentazione, di cosa pensiamo oggi della vita, della qualità della vita, della lentezza nel tempo.

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