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INTERVISTA AD ALBERTO MAGNAGHI - 28 AGOSTO 2001 |
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L'idea forza, conseguente a questa messa a nudo dell'essenza del rapporto sociale di produzione dell'operaio massa, è stata il discorso del rifiuto del lavoro, che era interpretato in termini positivi come molla dello sviluppo tecnologico e del progresso: e questo è stato un fatto molto importante perché ha chiarito il valore dialettico e il ruolo costruttivo della negazione della fatica operaia e del lavoro salariato.
Teniamo conto che noi stiamo parlando di un'epoca in cui il lavoro salariato era la forma dominante dei rapporti sociali di produzione; oggi siamo in un'altra epoca; lo studio di Sergio Bologna sul "lavoro autonomo di seconda generazione" mette in evidenza il cambiamento radicale avvenuto fra gli anni '70 e '90 sulla composizione di classe di cui parleremo più avanti. Per quanto riguarda allora parliamo di un rapporto di produzione in cui il rapporto di lavoro salariato era quello dominante, quindi attenzione: quando parliamo di rifiuto del lavoro non intendiamo rifiuto dell'attività umana o dell'attività produttiva o dell'attività creativa di ricchezza in generale, bensì rifiuto di quel tipo di lavoro che allora si configurava come totalmente astratto, totalmente impossibile da affrontare con un rapporto affettivo o di interesse. Quindi, parliamo della fase matura del processo storico di astrattizzazione del lavoro che è iniziato con la manifattura del '700 in Inghilterra, ma che con il fordismo e con l'industria di massa ha avuto il suo compimento. Allora, quando parliamo di rifiuto del lavoro e di ruolo positivo di questo rifiuto parliamo di un'autonegazione da parte della classe operaia di questa condizione di astrazione del lavoro, quindi di alienazione; parliamo dunque di un comportamento, il rifiuto, che costringe il capitale a forme di trasformazione tecnologica che in fondo portano al superamento di questa figura del lavoro salariato.
E' ciò che in gran parte è avvenuto, naturalmente non in tutto il mondo: per ogni operaio autonomo, di microimpresa di terziario avanzato in Italia o in Europa crescono cinque disgraziati sottoproletari o lavoratori, non so come meglio si possano definire quelli del cosiddetto Terzo Mondo. Comunque, il processo di rifiuto di questa condizione è stata una forte molla di trasformazione capitalistica. Non c'è niente di scandaloso in ciò, perché, come in tutte le situazioni conflittuali, la finalità del processo è molto ambigua: da una parte l'operaio rifiuta questa condizione e quindi mette in crisi il capitale con la richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la richiesta di servizi, con il rifiuto dell'orario, l'autoriduzione, tutti quei processi che nel '69-'70 avvengono; naturalmente, ciò dal punto di vista operaio è una conquista di riduzione della fatica e di aumento della quota di ricchezza, mentre per il capitale è costrizione ad un salto tecnologico che neghi la possibilità per l'operaio di appropriarsi della ricchezza. Si verifica perciò il noto processo del decentramento produttivo, dell'astrattizzazione del comando, cioè l'informatizzazione del ciclo produttivo, l'isola di montaggio, l'esplosione del processo produttivo su scala mondiale, l'articolazione geografica degli insediamenti produttivi in modo da rendere meno offensivo lo sciopero. Quindi, le motivazioni sono ovviamente diverse, però tutto ciò mette in moto dei processi che hanno come sempre la loro ambivalenza: da una parte conducono a nuove forme di sfruttamento, ma dall'altra portano anche a nuove opportunità di riappropriazione dei saperi e a possibilità di riavvicinamento tra produzione e fini della produzione. Sono le potenzialità (descritte appunto da Sergio Bologna e che io riprendo nel mio recente testo, "Il progetto locale") del lavoro autonomo, cioè di quel lavoro che in qualche modo può riappropriarsi dei mezzi di produzione, dei saperi, delle tecniche, si mette sul mercato come proprietario dei mezzi di produzione. Naturalmente resta sempre da fare, molto chiaramente, la distinzione tra composizione politica e composizione tecnica della forza lavoro che non coincidono mai, nemmeno allora coincidevano. Questi sono stati gli aspetti interessanti, sia culturalmente sia come motore delle lotte, della fine degli anni '60 della cultura operaista, con grosse aperture sulle tematiche territoriali.
Gli aspetti negativi di tutto questo movimento secondo me sono stati di due ordini. Da una parte, il non aver saputo prospettare un ceto politico che in qualche modo interpretasse questo passaggio dalla figura dell'operaio salariato a una figura di produttore-abitante che si andava riavvicinando nel modello dei distretti, della fabbrica diffusa, ecc.
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