Quindi, ci si trovava di fronte ad una situazione in cui da una parte c'era il salario, che magari nella comunità d'origine non c'era, però mancavano la casa, il prezzemolo, le patate, la solidarietà di mutuo scambio del quartiere o del villaggio. Dunque, c'è un salto da una riproduzione non monetaria, che non passava attraverso il mercato, prevalentemente nella comunità contadina e nei centri delle vallate alpine e del Mezzogiorno, ad una vita in cui tutto deve essere monetizzato e tutto sottoposto al mercato. E di qui la crescita dei costi di riproduzione della forza-lavoro a partire dall'affitto della casa, dei generi alimentari, dei vestiti, dalla mancanza di reti solidali; crescita che lascia l'individuo e la famiglia operaia in balia di tutte le strutture di mercato della riproduzione, dall'assistenza all'acquisto dei beni di prima necessità alla socialità al divertimento e via dicendo. Questo fenomeno di levitazione dei costi di riproduzione, che poi si riversava come pressione sul salario, faceva saltare tutti i meccanismi di funzionamento della metropoli, cioè metteva in crisi il modello cosiddetto metropolitano: da questa crisi si sviluppò più tardi il modello della " terza Italia", dei territori comunitari della piccola e media impresa e dei distretti industriali, a cui accennerò più avanti.
Per tornare al problema, io ho studiato e praticato proprio questo tema del rapporto fabbrica-territorio occupandomi sostanzialmente dei problemi di organizzazione territoriale, dei costi dei servizi, degli affitti e delle forme di comunicazione territoriale delle lotte operaie. Lavoravo in barriera di Nizza a Torino, nei vari quartieri popolari, e poi soprattutto a Nichelino (era un quartiere di immigrazione operaia) facemmo una grossa esperienza di cosiddetto "sciopero dell'affitto" occupando anche il Comune, che diventò centro di organizzazione delle lotte.
Quando si svilupparono le lotte del '68-'69 alla Fiat questa organizzazione territoriale si saldò nella famosa "insurrezione" del 3 luglio '69, con tutti gli operai in corteo che andarono nella notte, facendo barricate lungo via Nizza, verso Nichelino dove appunto c'era il Comune occupato. Si saldarono queste tematiche delle lotte salariali e sulle condizioni di lavoro con le lotte territoriali.
Questo mio lavoro dette luogo a molte ricerche. Anni dopo (nel 71-72), quando mi trasferii a Milano, fondai una rivista che si chiamava Quaderni del Territorio, di cui uscirono quattro numeri, che affrontava già allora la tematica del rapporto tra globalizzazione, "metropoli del comando" (così chiamavo allora le "global cities" degli anni '90), e riorganizzazione del sistema della grande fabbrica e soprattutto del sistema territoriale, dell'attività produttiva; vale a dire il passaggio da un sistema di macrofunzioni territoriali legate alla produzione e riproduzione di massa, ad un sistema invece più legato alla diffusione produttiva, alla piccole e medie imprese, ad un diverso rapporto sociale tra fabbrica, territorio, comunità, tipico poi del distretto industriale. Questo rapporto era stato anticipato in Italia dall'esperienza olivettiana come tentativo, fallito ma interessante, del problema di vedere il rapporto fabbrica-territorio in modo completamente diverso dal modello fordiano della Fiat. Ecco, questa è la mia formazione, coi temi che poi sono proseguiti anche dopo l'esperienza nel PCI, quella di Potere Operaio e dei Quaderni del Territorio.
Complessivamente quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze delle esperienze e delle proposte politiche degli anni '60 e '70, in particolare di quelle legate al filone operaista?
Attraverso un rilancio dell'analisi della composizione di classe, sia politica che tecnica, con gli studi dei Quaderni Rossi di Classe Operaia e di Alquati in particolare a Torino, secondo me la ricchezza è stata quella di aver individuato, in modo anche volutamente semplificato, quale era la forma "contemporanea" del conflitto di classe, intendo la forma dominante del conflitto e la forma dominante dei rapporti sociali di produzione. Ciò non in termini quantitativi, si badi bene, ma qualitativi, di centralità culturale, sociale, politica: la figura dell'operaio-massa era al centro dell'indagine. Per operaio-massa si intende una figura in cui il lavoro diviene totalmente astratto, parcellizzato e alienato, lontano dai fini della produzione stessa, senza più la mediazione dei saperi tecnici dell'operaio professionale (incorporati nel macchinario), senza più la mediazione della conoscenza produttiva, del processo produttivo nel suo insieme. Una figura che è completamente estranea al processo produttivo, non ha più nessuna affinità o interesse per ciò che produce, ha solo interesse a difendersi dalla fatica della propria condizione astratta e atomizzata di forza-lavoro. Da qui lo slogan "più soldi, meno lavoro", che sembrava a molti allora un po' semplificativo ed economicista, ma che culturalmente denunciava l'essenza socioculturale di questa figura.
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