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INTERVISTA AD ALBERTO MAGNAGHI - 28 AGOSTO 2001


Non è detto che la militanza assuma sempre le stesse forme in diverse epoche storiche e in differenti modelli sociali e societari, e rispetto anche ai diversi obiettivi. Probabilmente un atteggiamento di rigoroso privilegio dell'antagonismo di classe oggi richiederebbe una forma di militanza diversa da quella che pratico io, dovrei continuare a ricercare delle fabbriche da qualche parte, che ne so da Amadori nel Bresciano, o nelle concerie di Santa Croce sull'Arno, per dire le più puzzolenti, alle cui porte distribuire volantini (che sarebbe molto utile!). Quindi, c'è questa diversità, quanto al giudizio rispetto alle diverse forme di militanza, mi va bene il discorso che facevate sulla densità di alcune epoche che producono una cultura del soggetto che non è solo una cultura, ma è anche una forma di vita, un atteggiamento etico, una capacità di interpretazione, di rinnovamento anche. Quasi tutte le persone che avete intervistato continuano a dare senso ai loro progetti in termini forti, in modi molto diversi fra loro. Con Mario Dalmaviva, che non fa più "politica" da trent'anni, però, guarda caso, ci incrociamo sui suoi progetti sulla montagna, di rivitalizzazione delle Alpi, nelle sue attività editoriali intelligenti. C'è sempre qualche filo conduttore che magari poi è trasversale. Con Augusto Finzi, ex leader dell'assemblea autonoma di Porto Marghera, redattore della prima rivista di ecologia italiana, Lavoro Zero del '72, abbiamo un serrato dibattito sulle sue esperienze di educazione militante al benessere.


Hai avuto dei numi tutelari, ossia persone o testi che sono stati particolarmente significativi per la tua formazione, nella militanza politica, in ambito accademico, all'interno della tua dimensione di vita?

Nell'ambito della militanza politica ovviamente io ho studiato molto Marx, i "Grundrisse" soprattutto, ho seguito l'interessante seminario su "Il capitale" che facevamo con Romolo Gobbi a Torino, mi sono formato in quella scuola. Come già dicevo, sul piano invece accademico mi sono riferito a pensieri come quello di Lewis Mumford, Patrick Geddes, i geografi francesi, la geografia umana, il pensiero anarco-comunitario. Ho letto pochissimo Gramsci. Ho invece letto molti scritti di Mao Tze-tung e di Gandhi. E poi ci sono le letture che tutti abbiamo fatto da piccoli, Lenin, Trotzki, la vulgata comunista. Sono stato anche alle scuole di partito, alle Frattocchie, all'Istituto Marabini di Bologna: allora anche nel PCI c'era un certo lavoro di formazione dei quadri. Quando con Foa e Garavini si è deciso a Torino di fondare la CGIL scuola, il partito mi ha subito spedito al Marabini per una settimana intensiva di scuola quadri sul sindacalismo autonomo della scuola dal dopoguerra.


Questa è una domanda che facciamo perché ci sono dei fili conduttori nella formazione di tutti quanti che sono abbastanza comuni, invece altri che si differenziano da soggetto a soggetto, e che si può vedere come spesso siano caratterizzanti rispetto ai successivi percorsi, modi d'essere e di pensare.


Io penso di sì. Probabilmente ognuno incrociando la cultura politica, le letture teoriche e il proprio campo di studi crea un'originale combinazione di interessi. Ho cercato di spiegare come alcune mie intuizioni politiche mi derivano anche dall'essere a mezzo tra una cultura geografica, urbanistica, territoriale, e la storia politica, cose che mi hanno dato, nel gruppo di Potere Operaio e anche dopo, una prospettiva particolare anche di impegno militante.

Facendo una parentesi che non c'entra con la domanda vorrei dire in conclusione che la mia militanza nel Partito Comunista a Torino è quella che mi è piaciuta di più, mi divertivo un mondo, mi sentivo a mio agio, ma allora era la realtà dei Garavini, dei Pugno, delle Rossanda, una situazione molto interessante. Poi c'era anche Pecchioli, che governava reprimendo. E poi la Rossanda, il Manifesto era ancora dentro questo processo di partito. Rossanda e Cacciari venivano a Torino a fare seminari per aiutare l'operaismo della camera del lavoro nei conflitti con la federazione. E' stato un periodo veramente interessante, con i consigli di fabbrica che nascevano. Io sono stato nel PCI fino al '68, quando al congresso provinciale la mia mozione è stata battuta per pochi voti da Pajetta, che convinse la platea che quello non era più il partito dei soviet. (Non mi hanno né radiato né espulso, ma mi impedirono successivamente di entrare nelle sezioni territoriali; non contenti organizzarono un pestaggio davanti alla porta 2 di Mirafiori, nel '69, esecutori la sezione di Nichelino, città di cui avevo organizzato la occupazione del Comune l'anno prima. Non contenti 10 anni dopo, con il "teorema Calogero" ispirato dallo storico Ventura, negli ambienti del PCI, vengo incarcerato nell'ambito del processo "7 aprile" contro l'Autonomia Operaia). C'erano ancora molto attive le sezioni territoriali a Torino alla fine degli anni '60: la 39, una sezione tutta trotzkista, molto critica, che faceva dei dibattiti storici sull'Unione Sovietica con tanti operai con una cultura enciclopedica. Poi c'erano le sezioni che erano dei centri di aggregazione sociale, i Cral: la Casa del Popolo di Settimo Torinese, era un vero e proprio tempio laico. Adesso cose simili ci sono solo più in Toscana, ma quelle che c'erano nelle varie barriere di Torino che io frequentavo erano dei punti non solo di politica, ma soprattutto di aggregazione sociale, con le bocciofile, le balere, i balli, c'era sempre gente. Io ero segretario della sezione universitaria che era ospitata in una sezione del centro storico, c'era un ampio salone centrale e la domenica c'erano delle gran feste da ballo, tutti si portavano la merenda. Quindi, era un periodo ancora straordinario, ho vissuto la coda di una fase affascinante, in cui il partito era società, non solo in fabbrica, ma nel territorio. Ed in Toscana (e la cosa è strana) le ritrovo ancora adesso queste cose, in forma non più di partito, le case del popolo si sono trasformate in cooperative, però sono rimaste attive, espressione della resistenza di una altissima socialità. Io sto nel Chianti fiorentino, ed in ogni frazioncina di 200 abitanti sulle colline ci sono don Camillo e Peppone, le Società di Mutuo Soccorso e i circoli Acli; ogni circolo ha la sala giochi, la sala giovani, la sala ballo, la sala bocce, il bar, il teatrino. E' una cosa straordinaria, che si è conservata come forma sociale indipendentemente dai partiti, e che mi crea emotivamente una strano senso continuità, nonostante lo spostamento di luogo, di attività, di passioni, fra gli anni della giovinezza e quelli della maturità.

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