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INTERVISTA A MAURO GOBBINI - 11 DICEMBRE 2000 |
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Questo avviene proprio verso la fine degli anni '60 e inizio anni '70, quando a Milano nelle realtà di fabbrica in cui noi stessi si interveniva erano cominciate ad affiorare le situazioni di organizzazione alternativa ai sindacati e al partito, i famosi collettivi. In quel periodo io sono stato trasferito a Napoli, per ragioni politiche, perché avevamo fondato il primo comitato di base dentro la Rai, l'industria della formazione come già allora la chiamavamo. A Napoli sono stato quattro anni, dal '70 al '74, e lì ho vissuto la parabola di Potere Operaio, il mensile, il settimanale, il quindicinale, e Napoli era la città più industrializzata di tutto il Meridione. Mi ricordo per esempio che lavoravo alla Rai che è a Fuorigrotta, quindi praticamente a due passi da Bagnoli, e noi per circa un anno e mezzo, un giorno sì e uno no (io poi ero nel consiglio di azienda) ricevevamo le delegazioni degli operai. E lì, in quella fascia del golfo di Pozzuoli c'erano fior di fabbriche siderurgiche, chimiche e metalmeccaniche come l'Italsider, la Sofer, l'Olivetti, e sull'altro lato, verso San Giovanni al Teduccio, c'erano le altre fabbriche petrolchimiche e soprattutto, dai primi anni '70, c'era l'Alfa Sud. Quei quattro anni li ho vissuti come uno sfrangiamento del lavoro e della riflessione politica che avevamo fatto con molto rigore sia con i Quaderni Rossi che con Classe Operaia. Si andò infatti verso un tipo di riflessione politica che guardava più all'egemonia del gruppo che non alla volontà di capire esattamente come stavano le cose. Infatti, mi ricordo che c'erano penose discussioni con Lotta Continua, con frazioni e con singoli militanti, e poi le divisioni all'interno dello stesso Potere Operaio, per cui c'era Potere Operaio di Marghera, quello di Roma, di Bologna, di Napoli e poi dentro ad esso c'erano quelli che erano d'accordo con Roma e quelli che erano contrari: insomma, se uno dovesse non dico dare dei giudizi ma comunque esprimere delle valutazioni su quello che stava succedendo, bisognerebbe dire che si stava distruggendo tutto quello che avevamo costruito come gruppo politico di intervento in fabbrica e sul territorio. Quello che è avvenuto dopo aveva le premesse in quegli anni lì. E' vero, io sono convinto che dentro Potere Operaio, anche nelle aree più estreme, non c'è stata mai l'idea della lotta armata come pratica di avanguardia, come poi è stato accusato: mentre è vero che c'era un impoverimento dell'analisi di quello che avveniva, il che era distante anni luce dal rigore con cui alcuni compagni avevano riflettuto su quello che succedeva nella classe operaia negli anni torinesi dei QR e in quelli milanesi di Classe Operaia. Ovviamente questa deriva organizzativa dei gruppi ha pesato sulla serietà della riflessione e sulla pratica dell'intervento in fabbrica e sul territorio. Siamo approdati ad un concetto di classe operaia approssimativa generica che non ci ha aiutato a capire la rivoluzione del lavoro e del capitale che avveniva proprio in quegli anni. Poi, certo, le istituzioni (partito e sindacato) erano finite come sono finite, però diciamo che forse questa caduta verticale è dovuta più a un processo che si è svolto oggettivamente al di fuori delle nostre iniziative, che non per via di queste; io penso che noi non siamo riusciti a rendere efficace il movimento antagonista rispetto a queste cose, perlomeno non gli abbiamo dato continuità. Ci sono stati sicuramente dei momenti in cui abbiamo capito lo sviluppo dell'antagonismo dentro il sindacato, fuori dal partito e anche dentro di esso, ma questo antagonismo a un certo punto è andato avanti da solo, noi lo abbiamo solo cavalcato.
Quando hai cominciato l'intervista hai detto che ti sei riferito soprattutto alle esperienze fatte collettivamente: all'interno di Classe Operaia quali erano i processi per cui la capacità di elaborare questa sintesi di comprensione ma soprattutto politica si dava in termini collettivi?
Avveniva per una ragione secondo me pratica. Io parlo di Milano perché era la realtà dove vivevo: lì c'erano dei compagni che intervenivano nelle realtà di fabbrica della città, poi c'erano quelli che intervenivano a Como e nel comasco, dove c'erano la Ignis e altre fabbriche. Questi compagni si riunivano settimanalmente, a volte ci si riuniva anche due o tre volte a settimana, si discuteva, ci si riferivano le impressioni, le osservazioni, i colloqui che avevamo avuto con quadri sindacali che magari erano più aperti, con operai, si diceva qual era la situazione, si discuteva la traccia di accordo sindacale che veniva presentata: si faceva un lavoro molto pratico, cioè se c'era la lotta alla Pirelli perché volevano modificare l'accordo sul lavoro notturno o i turni, allora noi discutevamo quelle cose lì. Prima di tutto si assumevano le informazioni dirette, quindi attraverso colloqui con gli operai, si discutevano queste cose, si cercava di capire qual era la logica che stava dietro a queste iniziative del padrone, cioè perché i turni, perché il lavoro in quelle macchine veniva organizzato in quel modo piuttosto che in un altro. Voglio dire che non c'era il compagno che diceva "allora, l'ordine del giorno è questo...": no, ci si trovava, si discuteva e poi si decideva e si coordinavano anche gli interventi.
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