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INTERVISTA A FERRUCCIO GAMBINO - 10 GIUGNO 2001


A Venezia il disorientamento sul da farsi rimaneva ancora molto forte nella mattinata del 9, soprattutto in mezzo ai giovani, e davvero sembrava che non potesse uscire una qualche parola d'ordine per i mesi successivi. Nel pomeriggio la situazione si capovolse, quando Guido Bianchini prese la parola. Era un intervento che avevamo concordato come Potere Operaio veneto-emiliano, ed era un intervento che derivava da decine di contatti che Guido, Licia De Marco e i compagni ferraresi avevano intrecciato ormai sia a Ferrara sia poi anche a Modena e da altre parti. Situazioni apparentemente slegate: la Berco di Copparo, ad esempio, era una fabbrica dove gli operai non avevano il coraggio né la forza politica di parlare; prendevano i volantini, tacevano e dopo, però, con bigliettini o con telefonate anonime facevano sapere ai compagni del Potere Operaio veneto-emiliano: "Avete assolutamente ragione nei vostri volantini, ma non possiamo venire fuori, perché se veniamo fuori ci stangano". Si trattava ormai di volantini orientati ad aumenti salariali uguali per tutti. E quando Guido Bianchini nel pomeriggio di quella domenica del 9 giugno sostenne con tutto il fiato che aveva in gola "Aumenti uguali per tutti fino a 120 mila lire al mese", fu come se fosse scoppiato un vulcano. Risultavano spiazzati i precedenti oratori. Quindi, sia l'ala che poi sarebbe diventata il Manifesto sia, ancor più, coloro che sarebbero rientrati nel PCI guardavano alla proposta di Bianchini come alla parola d'ordine di un marziano.
Qualche mese dopo "120.000 lire al mese" è sulla bocca degli operai di tutta Italia. Ma dietro appunto questa parola d'ordine si era svolto un lavoro costante di almeno quattro o cinque anni: agitazione , propaganda, impegno, costruzione di contatti anche nei posti più sperduti.
Quindi l'incantesimo della separazione dell'università dal mondo del lavoro comincia a rompersi nella seconda metà del '68. Lo sciopero di Marghera del luglio-agosto segna il momento fondamentale in questa rottura. Da questa fase di agitazione e propaganda si passa ad una fase di vera e propria enucleazione dei primi gruppi. I ritmi di lavoro sono abbastanza sincopati e quindi c'è anche chi proprio fisicamente non ce la fa. Nell'interrogatorio che è pubblicato nel suo libro "Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico", edito da Manifestolibri, Luciano Ferrari Bravo lo dice ai giudici: "Bisognava anche alzarsi alle 4 della mattina, e poi alle 5 del pomeriggio, dopo aver lavorato tutta la giornata, c'era la riunione: il lavoro politico noi lo facevamo così". L'intensità del lavoro politico opera una selezione, dettata anche dalle circostanze, perché il quadro politico è in forte mutamento. All'inizio del 1969 è diffusa ormai la sensazione che anche le corazzate comincino a muoversi: Milano, e soprattutto Torino.
A Milano di piccoli gruppi e conventicole ne erano già sorti alcuni: c'era un po' di Quarta Internazionale, c'erano gli operaisti come me, di cui si diceva "sono quelli di Classe Operaia", c'erano quelli di Lotta Comunista, e c'erano soprattutto i marxisti-leninisti delle due linee, la linea rossa e la linea nera. Allora, uno dei tentativi più maldestri che io abbia combinato nella mia vita è stato quello di passare una notte con due o tre marxisti-leninisti per convincerli che le lotte avevano un certo peso (è ovvio che con loro bisognava stare attenti e misurare le parole), e che comunque non era forse il caso di seguire nel loro giornale, Nuova Unità, soltanto la lotta degli infermieri dell'ospedale di Livorno, che, se ben ricordo, campeggiava nella prima pagina! Naturalmente io ero un pivello, sicché non avevo ancora capito che con loro il saggio di ricavo era nullo. In séguito non ho più cercato marxisti-leninisti di nessuna gradazione. Tuttavia va ricordato che ci sono stati anche questi tentativi, nei quali non ero affatto solo: era un andare anche nelle situazioni più cementate e cercare in qualche modo di smuoverle, di sbloccarle. Qualche volta avveniva il portento, ma raramente. Altrettanto vale per la Casa dello studente, dove avevo ancora molti amici, parecchia gente che conoscevo, e abbiamo fatto riunioni su riunioni. Non c'erano soltanto le università milanesi e le scuole, ma era tutto quanto un reticolo di situazioni - in particolare giovanili - in uno stato di grande fluidità.
Lo sforzo di Potere Operaio veneto-emiliano di giungere anche altrove comincia a dare risultati anche grazie al fatto che Sergio Bologna continua ad andare a Trento dove è assistente di Umberto Segre e dove conosce un gruppetto di studenti di Sociologia tra quelli che erano chiamati i fuorisede. Conosciamo così Mario Dalmaviva, che viene a una riunione a Milano alla Statale e illustra la situazione torinese. E poi naturalmente rivediamo Mario, finché (forse a febbraio del 1969) Toni ed io andiamo a Torino: Dalmaviva vive in una soffitta, dove il giaciglio è duro, ma va bene lo stesso perché la previsione è facile e favorevole all'intervento: il pentolone torinese inizia a bollire, e occorre prendere le misure di un possibile aiuto da parte di militanti che arrivino a Torino in quella fase.

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