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INTERVISTA A FERRUCCIO GAMBINO - 10 GIUGNO 2001


Poi sono venuti subito i contraccolpi. Poco prima di partire per il giro in autobus degli Stati Uniti nell'agosto del 1967, ricevo una lettera da Sergio Bologna che mi annuncia la chiusura di Classe Operaia. L'esperienza di Classe Operaia era finita e ognuno galleggiava come poteva. In tale situazione l'unico gruppo che continuava a sviluppare un intervento politico di fabbrica era la sezione veneto-emiliana di Classe Operaia. Compio il giro degli Stati Uniti, 40 giorni di autobus e di incontri, rendendomi conto, oltre che della simpatia umana e della bellezza fisica del paese, delle dimensioni continentali in cui è costretta ad operare la sinistra statunitense: superando le barriere del razzismo, collegare il "livello di classe", come si diceva allora, di Kiev con "il livello di classe" di Lisbona. Provare per credere. Solo per qualche anno c'erano riusciti a metà Ottocento gli schiavi che scappavano al Nord e all'inizio del Novecento gli Industrial Workers of the World.
Faccio tempo ad arrivare a Detroit, subito dopo che la Rivolta di massa del luglio del 1967 ha lasciato semidistrutti interi quartieri. Come nei momenti cruciali della lotta di classe statunitense, a cominciare dallo sciopero dei ferrovieri del 1891, Washington aveva gettato il peso dell'esercito federale nella Rivolta, ordinando l'intervento dei paracadutisti della 182a divisione aerotrasportata. La Rivolta, partita dall'ala più radicale del movimento nero, aveva spaventato a morte tutto l'establishment perché aveva poi coinvolto anche migliaia di bianchi. C'era di che atterrire la struttura del potere.
Quando sono poi tornato in Italia, a Milano, nel settembre del '67, avendo rinunciato a qualsiasi prospettiva di carriera nell'ambito in cui mi ero laureato, e anzi avendo proprio rifiutato le proposte che mi venivano rivolte e che erano piuttosto vantaggiose, tant'è che gli amici della Casa dello studente che avevo ritrovato mi dicevano che ero matto, mi sono trovato sostanzialmente a ripartire da zero. Quindi, grosso modo, da settembre a dicembre ho vissuto nel vuoto. Mi aiutava con generosità Giairo Daghini, il quale mi procurava qualche recensione per una sua trasmissione culturale alla radio della Svizzera italiana: collaborazioni coordinate non continuative, si direbbe adesso. Poi, credo a novembre, Sergio Bologna mi consigliò di concorrere per una borsa di studio a Padova, dove l'anno precedente Toni Negri era diventato direttore dell'Istituto di Scienze politiche. Non ricordo se avevo già visto una volta Toni e Massimo Cacciari a Milano, per un incontro con compagni comaschi del tessile, o se ci siamo incontrati a Padova per la prima volta.
Con la borsa di studio, sono diventato pendolare settimanale tra Milano e Padova per un triennio. Sono stati tre anni intensi, una addestramento alle scienze sociali che in parte avevo già cominciato negli Stati Uniti. Da tenere presente poi che a cavallo del '68 abbiamo organizzato un seminario a Padova a cui ha partecipato anche George Rawick; gli atti di quel seminario sono compresi nel volume "Operai e stato", pubblicato dalla Feltrinelli nella nota collana di Materiali Marxisti, poi bruciata dopo gli arresti del 7 aprile del 1979. Questo seminario è stato importante per molti aspetti, soprattutto perché per la prima volta c'era la disponibilità di uno studioso statunitense che considerava i nodi cruciali degli anni '20 e '30 fuori dagli schemi della Guerra fredda. L'affermazione più importante di Rawick a quel seminario, quella che colpì soprattutto noi giovani, fu: "Non sono stati negli anni '30 i sindacati ad organizzare i sit-in, le occupazioni e gli scioperi, ma sono stati i sit-in, le occupazioni e gli scioperi ad organizzare il sindacato". Luxemburghismo, diceva qualcuno già allora per minimizzare. Per noi invece è stata veramente tanto ossigeno nel momento di maggior bisogno. Nessuno fino a quel momento aveva riportato uno snodo cruciale della storia sociale del Novecento come quella delle lotte operaie degli anni Trenta a un movimento dal basso di dimensioni continentali. Negli anni '60 a Milano si poteva fare il giro di tutto quello che era politicamente a sinistra e non riuscivi a cavare un ragno dal buco: più o meno tutti quanti, anche quelli che apparentemente erano più lontani dalle posizioni del PCI o comunque dal patriottismo di partito, alla fine ci ricascavano e dicevano che senza il Partito si facevano solo buchi nell'acqua.

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