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INTERVISTA A CARLO FORMENTI - 13 DICEMBRE 1999 |
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C'è stato una piccola ripresa di attività, se vogliamo chiamarla di militanza, che riguarda le elezioni politiche dell'88 in cui su pressione di Franco Berardi e altri compagni di quello che era stato il percorso dell'autonomia creativa di Bologna si era tentato di fare una candidatura come indipendente nelle liste dei Verdi nel capoluogo emiliano, cosa che per altro è andata molto male nel senso che era evidente che l'operazione era un po' strumentale e quindi sia da una parte che dall'altra non c'era una grande chiarezza. Quindi, me ne sono rapidamente tirato fuori, è stata una parentesi che è durata molto poco. Da allora in poi non ho più avuto nessuna esperienza di militanza politica in termini classici, in fondo nemmeno alternativi; mi sono sempre collocato in una dimensione di intellettuale ma non di militante politico.
L'esperienza di Alfabeta.
Alfabeta è stata molto importante sia per il ruolo di cui parlavo prima, cioè di controinformazione sui processi tipo 7 aprile, sia perché è stata un po' l'ultima barriera o l'ultimo strumento comunque che ha tenuto insieme un gruppo di intellettuali anche molto differenziati come posizioni e come matrice ideologica, ma sostanzialmente unificati ancora da un atteggiamento critico nei confronti del potere politico e non di pura adesione ai percorsi della sinistra istituzionale. Percorsi che nel frattempo andavano verso il superamento del PCI, ma questo ancora prima del crollo del Muro e ancora prima della trasformazione del partito, del cambiamento di nome e della svolta guidata da Occhetto; questo era già nel codice genetico dell'evoluzione della sinistra tradizionale negli anni '80. Diciamo che Alfabeta è l'unica voce critica non di puro accompagnamento di questo processo negli anni '80, quindi è stata una battaglia culturale abbastanza importante che tentava in qualche modo di spostare l'attenzione dalla socialdemocratizzazione spinta e rapida della sinistra ad un tentativo invece di analisi critica approfondita dei processi sociali, economici e culturali di trasformazione che stava subendo già allora il mondo.
Quando ha chiuso la rivista mi sono trovato completamente isolato e quindi, per problemi di pura e semplice sopravvivenza, sono passato al giornalismo professionistico, lavorando per una serie di testate: prima l'Europeo, poi Sette, che era ed è l'inserto settimanale del Corriere della Sera, e poi dopo direttamente alla redazione cultura del Corriere in cui sono rimasto fino a due anni fa. Attualmente sono giornalista sempre del Corriere della Sera ma ho un articolo o due, cioè sono un collaboratore fisso e non più un redattore interno.
Dal punto di vista della produzione bibliografica, negli anni '80 ho sempre mantenuto l'attenzione sui temi della tecnoscienza però spostandomi sugli aspetti dell'evoluzione un po' antropologica non soltanto dell'organizzazione del lavoro o dell'impatto sull'economia e la società dei nuovi strumenti, ma proprio sulle trasformazioni dell'immaginario che i nuovi media riuscivano a determinare, e quindi trasformazioni dei miti e del ruolo che l'immagine della scienza aveva nella mutazione culturale. Su questo ho pubblicato due cose, "Prometeo e Hermes" e "Immagini del vuoto" che sono usciti da Liguori; il percorso è stato completato da un libro uscito nel '91 da Cortina, "Piccole apocalissi", che ha chiuso un po' quel ciclo di riflessione su tecnologia, scienza e la loro capacità di fare mito, di costruire un frame culturale su cui poi andavano ad accelerarsi una serie di altri processi a livello politico, economico e sociale.
Da qualche anno invece l'attenzione è tornata a spostarsi sui temi del valore d'uso. Direi a partire dall'esplosione del fenomeno della rete e di Internet l'attenzione è tornata a focalizzarsi sulle nuove modalità di valorizzazione capitalistica e sulle nuove modalità di conflitto sociale all'interno del quadro antropologico determinato dai new media. Questo è un po' l'asse centrale della mia riflessione e quello su cui sto lavorando in questo momento.
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