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INTERVISTA A SILVIA FEDERICI - 18 DICEMBRE 2000

Questo è successo poi negli anni '80, dal '79-'80 alla fine '83 inizio '84 (quando sono andata in Nigeria): in quel periodo mi sono rimessa a studiare, nel senso del fare lavoro storico, teorico, sono stati gli anni in cui ho lavorato di più. Avevo già cominciato il discorso delle streghe ma mi sono chiusa a lavorare. Ho partecipato al movimento antinucleare perché ci sono stati momenti grossi, soprattutto dopo l'incidente nella centrale nucleare della Pennsylvania, c'è stata proprio un'esplosione di movimenti antinucleari, anche a Brooklyn vi ho partecipato, però non con lo stesso livello di impegno che avevo dedicato precedentemente, questa era una cosa che bisognava fare e basta. Nell'84 sono andata in Nigeria, George Caffentzis era già là da un anno e mi aveva detto di andare a vedere com'era la situazione: io avevo molta voglia di andare via per due ragioni, sia per conoscere l'Africa, volevo avere una mia esperienza del vivere nel Terzo Mondo, sia perché nei primi anni di Reagan ti sembrava di essere in un posto in cui non sbloccavi niente, cioè avevo la sensazione di un periodo di disaccumulazione politica, almeno a mio livello personale, di trovarti sempre in situazioni in cui c'è questo grosso senso di incapacità, di non riuscire ad adeguarti a fare delle cose, a rispondere. Non riuscivo a vedere un modo che mi permettesse di agganciarmi a gruppi politici, vedevo attorno a me proprio gli spazi che si restringevano. Allora, sono riuscita a trovare un lavoro, sono andata in Nigeria e mi sono fermata lì fino alla fine dell'86, e questa è stata l'altra grossa svolta della mia vita a livello politico. Lì c'è stato un incontro con talmente tante e tante cose a livello politico che adesso, guardando indietro, non riesco a capire come facessi a fare lavoro politico senza essere stata in Africa, come facessi a fare discorsi politici senza aver visto quella realtà: lì ho visto innanzitutto il colonialismo e il suo retaggio che continua non solo come eredità ma come realtà presente adesso, poi la resistenza allo sviluppo, cioè tutto il discorso sul fatto che lo sviluppo e il "sottosviluppo" non sono un fatto evolutivo. Erano tutte cose che teoricamente magari sapevo già, si diceva allora già nei libri di Samir Amin che lo sviluppo è lo sviluppo del sottosviluppo, cioè questi slogan ce li avevamo nella testa, però lì li ho vissuti, li ho visti, ho visto cosa vuol dire ciò concretamente nella giornata, come si organizzano rispetto allo spazio e al lavoro, come la gente parla, si muove. Quindi, c'è questo grosso senso di forza che mi è venuto, quello che oggi chiamano enpowerment: ho scoperto, ho pensato, mi sono resa conto che c'è tutta un'umanità che non vuole lo sviluppo capitalistico, proprio come se la montagna si fosse spaccata e ho visto che in effetti le forze che osteggiano l'avanzata del capitalismo sono molto più grosse di quelle che io potessi immaginare. Io che per anni avevo letto "Operai e capitale", invece prendevo coscienza che il mondo è contro il capitalismo: ecco, questa per me è stata l'esperienza forse più grossa dell'Africa. Anche se c'era un regime di dittatura militare (succedevano cose orrende, mai orrende come quelle che sono successe dopo con Abacha e via dicendo), è stato però un punto di forza molto grosso, perché davvero io so che o ci distruggono tutti o sono convinta che il capitalismo non ha speranza. Non sono ottimista nel senso che do per scontato che c'è la muta distruzione delle classi e che un giorno chissà cosa può succedere, dato che, visti gli orrori e i genocidi del passato, questa gente è pronta a tutto: però, sento molto dentro, dal tempo dell'Africa, che c'è una popolazione enorme, che una grande parte del mondo non vuole il capitalismo, e all'Africa l'hanno fatto pagare questo. Poi l'Africa è stata anche tutto l'incontro con la Banca Mondiale e con il Fondo Monetario: noi siamo arrivati proprio nel momento in cui c'era il dibattito sul Fondo Monetario Internazionale, se dovevano prendere i prestiti o no, era proprio al massimo in quegli anni ed era un dibattito pubblico, su tutti i giornali, è andato avanti per un anno con sì e con no. Tra l'altro la stampa nigeriana, quando noi siamo arrivati, era molto viva e bella, io ho portato a casa scatoloni di tanti giornali che ho ancora: adesso non è più così, ora i giornali sono stati chiusi, le gente è stata terrorizzata, ma ancora allora, anche se c'era un dittatura militare, c'era una stampa molto viva, molto sarcastica. Quindi, è stato un grosso senso di liberazione vedere e sentire che il capitale non ha il potere, negli Stati Uniti questo capitale mi sembra invincibile, questa è una delle cose terribili in America, ti sembrano invincibili perché continuamente ti dispiegano davanti un'enorme quantità di mezzi, di risorse, di forme di controllo sociale, dall'esercito a tutti i modi in cui la tecnologia viene utilizzata.

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