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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 13 MARZO 2000


Io non riesco a spiegarmi come mai, ad esempio, quando si parla delle recenti manifestazioni del movimento, sul terreno della comunicazione in generale (non solamente delle Tv private, ma anche di quelle pubbliche) c'è un rifiuto sistematico e pianificato del porre la domanda "cosa c'è dietro?"; è quasi peggio di quando si parlava delle azioni micidiali delle Brigate Rosse che facevano i morti. Addirittura, mi pare di ricordare che la televisione di stato facesse dei ragionamenti per dire "ma cosa c'è dietro?"; naturalmente le conclusioni erano quelle ovvie, ma c'erano dei ragionamenti politici, adesso non ci sono più. Mi sembra quasi che tutto sia appiattito semplicemente su un terreno in cui si dice: "Attenzione, abbiate tutti paura e temete tutti l'uscire dalle regole, perché ciò vi identifica immediatamente in un certo modo: violenti, minoritari, non legittimati ad avanzare diritti". Addirittura, laddove diventa difficile la criminalizzazione, si dice: "I terreni su cui si esprimono questi bisogni in maniera conflittuale e dura sono anche nostri; quindi, è parte del nostro terreno di iniziativa di trasformazione che ci viene espropriato in una logica vecchia, quella del conflitto di classe".
In generale (so che è più una sensazione che non un'analisi approfondita) questa cosa mi dà l'idea di una democrazia totalitaria, che si impone cioè come scenario oggettivo, davvero da pensiero unico, e che, dall'altra parte, nasconde un livello di violenza quale mai una società avanzata abbia potuto conoscere. La mia impressione, rispetto ai pochi momenti di lotta che emergono soprattutto nell'Occidente, è che una massificazione forte del terreno di conflitto possa o dare adito a scenari di inaudita violenza oppure, nella migliore delle ipotesi, a conflitti che metteranno il dito direttamente su un'alternativa. Non lo so quanto questa seconda ipotesi, di carattere così generale, possa riuscire a praticarsi e quanto il capitalismo sia in grado di tollerare percorsi alternativi al suo interno, isolandoli e creando una sorta di enclave. Non credo che le logiche dei territori liberati o di percorsi indipendenti di trasformazione sia accettabile, non credo che possa funzionare, perché in quelli ci sarebbe una valenza di generalizzazione fortissima, dati i mezzi di comunicazione che ci sono anche nelle mani della società, non solo dei grandi monopoli. La comunicazione sarebbe rapidissima, il modello, laddove si afferma, può diventare esportabile: "Ecco, abbiamo capito che c'è un'altra possibilità di camminare su un percorso addirittura antagonistico di trasformazione". Che questo possa avvenire pacificamente io, francamente, non riesco proprio a vederlo e a immaginarlo. Questo non vuol dire che io veda solamente uno scenario sanguinario: lo metto in conto, ma non escludo anche che ci possa essere una sorta di terzo scenario, che è quello di una impossibilità di rispondere in tempo a nuovi processi che si generalizzano, cioè alla impossibilità da parte capitalistica di trovare tempestivamente (poiché quello della tempestività è fondamentale come meccanismo di intervento) la capacità di bloccare la generalizzazione. Certo è, e di questo io personalmente sono convinto, che esperienze forti e significative, ma puntiformi, dovranno fare i conti con un tentativo di prevenzione micidiale, se hanno una valenza politica alta, cioè se in sé rappresentano davvero la possibilità di rompere questa sorta di granitica "cupola democratica" che si sta costruendo. Se questa valenza ci sarà, il tentativo di stuccare la diga sarà immediato.


Il discorso che tu prima facevi rispetto ai due scenari (da una parte l'integrazione totale, dall'altro la violenza inaudita) dipende, secondo te, dalla consapevolezza del capitale di poter perdere il controllo?

Penso di sì, perché se è vero che il nuovo soggetto produttivo, cioè il nuovo operaio, la nuova tuta blu del capitale moderno e maturo, ha nelle mani gli strumenti della conoscenza, è una situazione davvero eccezionale dal punto di vista delle potenzialità. Il sogno capitalistico, secondo me, è quello di avere una società intelligente e disciplinata, non una società tonta: io sono convinto che il miglior servo del capitale sia il più intelligente. Quindi, avere una società produttiva di questo livello è davvero un sogno per il capitale, ma è un sogno che potrebbe farlo ridestare d'improvviso di fronte a questa intelligenza collettiva che dice: "Adesso a che cosa servi tu?".

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