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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 13 MARZO 2000 |
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E' come se ci fosse proprio un'ansia di questo organismo maturo, il capitale internazionale oggi, che da qualsiasi parte, quindi anche da paesi del Terzo Mondo, da paesi deboli, possano aprirsi delle falle pericolosissime per la capacità di generalizzare una rottura, magari non immediatamente antagonistica, ma di equilibri rigidi. Facciamo l'esempio dei paesi che hanno detto di non voler pagare il debito a livello internazionale: al di là del fatto finanziario in sé, che è secondo me ridicolo rispetto al Fondo Monetario Internazionale, esso ha dentro una carica dirompente e pericolosissima dal punto di vista politico. Questo perché, da una parte, ci sarebbe una gravissima capacità di legittimare azioni di questo genere, "sono un paese povero, adesso basta, non pago più". L'effetto a valanga e a catena che può causare una scelta determinante di questo tipo è pericolosissima, al punto che si preferisce risanare, si preferisce ancora una volta dire: "Sono io che, unilateralmente, ti concedo dilazioni, sanatorie eccetera, ma non è il risultato di un conflitto".
Così, anche a livello dei paesi occidentali, la mia sensazione è che si stia lavorando in maniera molto intelligente per costruire una sensazione e un clima di massa in cui la libertà e la democrazia si riescono a presentare come davvero avanzate, realmente più maturate. C'è questa insistenza sulla fine del conflitto di classe, ma non perché ci sia stata una sconfitta, bensì perché c'è stato il progresso che ha superato queste cose; addirittura si riconoscono meriti e legittimità al movimento operaio storico, ma dicendo: "Adesso i tempi sono cambiati". Non si azzardano a dire alla classe operaia: "Vi abbiamo liquidato durissimamente", cosa peraltro verissima; si dice che i tempi sono cambiati. Sono i tempi in cui la democrazia ha una maturità tale da riuscire a fare i conti con i conflitti di interesse dentro la società comunque in un quadro ricompositivo, in un quadro che li riequilibra: questo da un punto di vista culturale. Ma quanta violenza c'è dietro a questa cosa qui? Altro che il corporativismo fascista, in cui c'era uno Stato forte che diceva: "Ognuno al suo posto, padroni al loro posto, operai al loro posto, sindacati al loro posto, il regime come garante di questo equilibrio". Allora era una cosa grossolana come modello di pacificazione sociale, perché agli operai veniva detto: "Non andare oltre questi limiti, rivendica il tuo salario e i tuoi spazi, anzi, ci pensiamo noi come Stato a rispondere ai tuoi bisogni; se vai oltre vieni mandato al confino, in galera, davanti al plotone d'esecuzione". Era un modello rozzo di normalizzazione; oggi, secondo me, siamo di fronte ad un laboratorio di progettazione di un modello sofisticatissimo, ma, ripeto, con all'interno uno spaventoso grado di violenza. Tendenzialmente è come se si volesse dire: "Tutto ciò che diventa conflitto radicale è ontologicamente sbagliato, poiché non esiste più il motivo e la ragione plausibile perché ci sia una contrapposizione e un conflitto radicale di interessi". Dunque il problema è che chi rompe le regole sicuramente è violento, quindi fuori dalla democrazia, sicuramente è mancante di una progettualità, per cui anche politicamente illegittimo ad esistere, sicuramente è minoritario, quindi destinato, come tutte le minoranze nella storia dei conflitti, ad essere identificato come corpo estraneo. Ma, attenzione, corpo estraneo vuol dire davvero un elemento di patologia e di malattia in un organismo complessivo sano: questa è la violenza spaventosa che c'è, questo far sentire anche il singolo individuo la cellula vitale, con pari dignità di tutte le altre, di un organismo sano, che ha superato la sua epoca primitiva, dunque di sangue e di lacerazioni, raggiungendo quindi un suo equilibrio. Tutto diventa patologia: e questa, proprio perché considerata non giustificata, quindi nemica ontologicamente e nei suoi fondamenti, va isolata e combattuta radicalmente. Questo è uno scenario in cui si vuole a tutti i costi dipingere una fase dello sviluppo della società nell'Occidente, e gradualmente a livello planetario, in cui finalmente, grazie anche al merito dei rappresentanti degli sfruttati, quindi delle socialdemocrazie, assistiamo alla fine definitiva di ogni possibilità di una contrapposizione sostanziale di interessi tra modelli antagonisti impersonati nella società. Siamo davvero di fronte al pensiero unico, ossia ad una concezione dello sviluppo in cui tutto è diventato oggettivo, come se non fosse possibile altro scenario; inoltre, è come se l'esistenza di altri scenari, sul pianeta o anche dentro al singolo occidente, sia la sopravvivenza di vecchi retaggi, i quali faranno i conti con la capacità di questo organismo sano di metabolizzarli, quindi di neutralizzarli; oppure faranno i conti con il bisturi. Ci sarà la capacità della comunicazione, della politica, delle istituzioni, in tutti i loro aspetti ramificati, di creare nella cultura collettiva lo stigma della patologia.
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