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(pag. 9)

INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 13 MARZO 2000


Questa logica di un'attenzione preventiva forte a me dà un po' il sapore della debolezza; quando le regole del conflitto sono ridotte, ristrette, per cui il conflitto compatibile è qualcosa di molto più regolamentato di prima, ho la sensazione della debolezza. Ma questa è una cosa abbastanza vecchia come ragionamento, non credo che processi autoritari più forti costituiscano un segnale di un largo respiro del capitale; mi fanno anzi pensare ad un'ansia forte a livello internazionale del capitale dal punto di vista del controllo. Ma non vorrei che ciò fosse dipendente soprattutto da questa nuova antropologia del soggetto produttivo, cioè di un soggetto che davvero è più intelligente e più dotato di risorse tecniche e di conoscenza per rompere le regole; e che quindi quella preventiva sia una necessità ansiogena del capitale, come dire: "Questi qui potrebbe accorgersi che io sono inutile". Direi che questa è una cosa interessante da ragionare perché la classe operaia anche italiana, occidentale, fino agli anni '70, comunque, in fondo in fondo, riconosceva nel padrone un soggetto che stava sullo scenario del progresso: esso era odiato e nello stesso tempo, però, difficilmente si diceva "prendiamo il suo posto", era più il soggetto politico magari a fare questo discorso. Quello capitalistico rientrava tra i soggetti protagonisti di un percorso conflittuale ma di progresso. Oggi, secondo me, la posta in gioco è il rischio che il nuovo soggetto produttivo sociale possa acquisire consapevolezza di poter fare a meno del comando capitalistico, e che addirittura capisca che esso rischia di essere puro e semplice comando, una sorta di gendarme senza divisa che per la sua riproduzione è costretto a imporre delle regole senza una funzione positiva. Il vecchio padrone era qualcuno che costruiva le strade, dava servizi, creava posti di lavoro e via di questo passo; nella concentrazione degli strumenti di controllo della scienza e della tecnica, non del controllo disciplinare della società, c'era una funzione intelligente del capitale. Oggi le grandi multinazionali sono molte preoccupate, per esempio, di monopolizzare i patrimoni genetici, di controllare i mezzi di comunicazione. Parliamoci chiaro, quali sono i settori strategici che si stanno sviluppando dal punto di vista capitalistico? Le biotecnologie, la comunicazione e l'organizzazione del tempo. Questi mi sembrano i tre scenari fondamentali su cui si sta misurando il capitalismo delle multinazionali; chi dice che è l'automobile il settore trainante afferma una cosa che, secondo me, è assolutamente sbagliata. Probabilmente non sono solo questi tre che cito io, ma essi mi paiono settori abbastanza evidenti di investimento a livello internazionale.
E' come se avessi la sensazione che il problema capitalistico a livello internazionale sia quello di avere consapevolezza che il modello si può generalizzare in tempi velocissimi. Quindi, la formazione di mercati di tipo capitalistico a livello internazionale non ha più tempi ottocenteschi, ma nemmeno quelli della prima metà del '900, fino al boom economico: quelle dinamiche di gradualità sono scomparse. C'è la possibilità di una formazione e di una generalizzazione del modello capitalistico rapidissima, e quindi il rischio di saturazioni veloci di nuovi mercati, anche in una situazione di aree a relativa stabilità politica, quindi dove gli assetti di controllo del territorio sono abbastanza consolidati e ben legati all'Occidente. Ho la sensazione che questa paura faccia diventare il soggetto capitalistico addirittura un freno alla generalizzazione del suo stesso modello: è un'inversione di tendenza storica, strategica rispetto al passato, dove l'ostacolo allo sviluppo era dato solamente dalle resistenze della lotta di classe, che rallentava il bulldozer dell'iniziativa capitalistica. Oggi, anche in assenza di conflitto alto, mi sembra che, da una parte, il capitale diventi freno al suo stesso sviluppo, alla generalizzazione del modello; dall'altra parte, proprio perché c'è un'apertura di spazi di libertà di azione sociale (l'auto-imprenditorialità, il lavoro autonomo, la mobilità e via dicendo), lascia trasparire una preoccupazione di controllo totale del tempo sociale in maniera altamente sofisticata. Ma questo altamente sofisticata non vuol dire semplicemente che i meccanismi del consenso si stiano raffinando (ed è senz'altro vero, si stanno ultra-raffinando); ma si tratta di un processo (non so se riesco a spiegarlo) in cui mi pare che la soglia tra l'integrazione nel modello (con tutti i benefici che ne conseguono, anche dal punto di vista economico) e la rottura sul terreno della nemicità, sia una soglia quasi a mediazione zero. E' come dire che si va o a un'internità, un processo di integrazione totalizzante, quindi della vita in generale di questi nuovi soggetti, oppure al dover fare i conti con un livello di violenza di risposta altissimo. Come dire: "Se non tappo la falla, rischio di non controllarla più".

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