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INTERVISTA AD ALISA DEL RE - 26 LUGLIO 2000

Questo è un periodo in cui ho fatto due figli (una è nata nel '74, l'altro è nato nel '76), mi sono sposata, stavo qui a Padova, non mi sono neanche tanto mossa in giro per l'Italia, anzi l'ho fatto veramente molto poco: quindi, del movimento e delle sue forme sia organizzative sia delle sue espressioni politiche ho una visione molto ridotta, che è la visione di qui, dei Collettivi Politici insomma. Quello che leggevo nella realtà, su questi giornali ecc., lo leggevo molto in trasparenza rispetto a quello che mi diceva Toni, mi raccontava Guido: l'Istituto continuava a funzionare come centro di produzione teorica in ogni caso, in quel periodo io ho pubblicato un libro sull'impresa pubblica in Italia, insomma non è che non si facesse nulla o che fossi fuori dal mondo, però non avevo più, o non ho avuto per qualche anno, quella partecipazione molto più diretta (e molto più soddisfacente devo dire) che c'era stata alla fine degli anni '60 e nei primi anni '70. Devo dire che questo è un periodo che rimpiango come fase estremamente ricca, produttiva per me, però mi sembra che anche nella realtà sociale le cose fossero molto in movimento, che dessero l'idea di come si poteva prendersi il potere per modificare le cose, cioè ciascuno di noi poteva in qualche maniera influire sul proprio destino e sul destino degli altri: forse era una sensazione soggettiva, molto limitata e utopica, però era talmente evidente e palpabile questa sensazione (che non provavo solo io ma si provava collettivamente) che, devo dire, l'ho sempre rimpianta e so che dopo i sentimenti sono stati molto più legati alla solitudine, all'isolamento, al cercare una collocazione in qualche maniera o in qualche angolo. Non so cosa ha detto Oreste di questo, ma persino il tentativo (dall'82 sono andata a Parigi) di ricostruire un'identità comune degli esiliati che in qualche maniera oggettivamente ci metteva insieme si è sempre frantumato con tutte le diversità che avevamo interiorizzato alla fine degli anni '70. Dunque, nonostante si partisse da quello che poteva essere un elemento di grande impatto comunitario, il fatto di essere esuli in un paese straniero, con gli stessi problemi, con le stesse cose, eppure non ci siamo mai riusciti, ci sono state assemblee disastrose a Parigi nei primi anni '80. Quindi, se rimpiango è perché proprio non l'ho più rivisto questo modo di sentire e di potere di tipo comunitario, anche se soggettivamente e individualmente adesso ho molto più potere sulla mia vita, sulla decisione su di essa, di quanto ne avessi allora: però è una cosa molto solitaria.


Mantenendo un taglio di analisi attualizzante, secondo te quali sono state le ricchezze e soprattutto i limiti che si sono espressi nei movimenti e nelle ipotesi più o meno organizzate tra la fine degli anni '60 e gli anni '70?

Non so se fosse un limite, la mia ipotesi è che, almeno quelli che ho vissuto e come ve li ho raccontati, sono stati movimenti con un forte impatto riformista, di rivoluzionario c'era solo la nostra volontà: poi gli unici esiti possibili e secondo me, col senno di poi, prevedibili erano degli esiti realmente riformisti. E in effetti le riforme poi ci sono anche state e secondo me erano ascrivibili solo a questo forte impatto sociale dei movimenti in generale: parlo proprio di tantissime cose, dallo statuto dei lavoratori, al piano nazionale degli asili nido, alle leggi di parità del '77, senza poi parlare delle solite leggi sull'aborto, il divorzio, il diritto di famiglia, queste cose qui. Cos'è che non ha funzionato? Il fatto che noi non ce ne rendevamo conto: secondo me noi abbiamo supposto che la rivoluzione, il cambiamento radicale, fosse un processo rapido e senza interruzioni, senza pause, e invece probabilmente noi stessi siamo stati sconfitti dalle riforme, cioè da quello che non poteva che essere l'esito immediato delle lotte. Parlo sempre dei movimenti di massa di tutti gli anni '70, vedendo le organizzazioni clandestine armate come le Brigate Rosse, Prima Linea ecc. come momenti aberranti e nemmeno concomitanti con queste grosse forze che invece muovevano la società intera. C'è forse una visione di trent'anni dopo quando dico queste cose, allora probabilmente non le avrei dette: però, devo dire che adesso come adesso se ci fosse stata la consapevolezza di un processo riformista buono sarebbe stato diverso. Dico riforme buone nel senso che la base di partenza italiana era veramente ai minimi livelli paragonandola agli stati europei, però si pensi alla Francia che ha avuto un grosso movimento nel '68, non solo studentesco ma anche operaio: il tipo di riforme che ha messo in atto subito tutto sommato ne ha fatto non dico un paese felice, ma un paese che ha retto molto di più, e che continua a reggere, anche le aspettative di parti del proletariato.

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