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INTERVISTA AD ALISA DEL RE - 26 LUGLIO 2000

Il femminismo degli anni '70 portava avanti un discorso che era quello della liberazione, non quello dell'emancipazione, comunque lo portava avanti rivendicandolo con certi rapporti di forza e dunque una certa violenza; andando avanti, negli anni quello che sembra essere rimasto è invece esclusivamente il discorso del percorso di emancipazione, che effettivamente a livello istituzionale è andato avanti perché (come dicevi tu prima e come ho potuto analizzare in una ricerca che ho fatto) molte donne scelgono il lavoro autonomo, conquistano una posizione, ad esempio alcune rivendicano certi ruoli di conduzione di cooperative in forme in cui usano anche il loro passato femminista. Però, alla fine si tratta di ruoli che magari non vengono svolti in forme uguali agli uomini, tuttavia sono funzionali al sistema stesso: quindi, dai discorsi di queste donne sembrerebbe essersi completamente perduto il percorso di liberazione.

Su questo io ho dei dubbi, nel senso che una cosa è quello che soggettivamente una dice di sé e un'altra è quella che poi oggettivamente avviene quando, in un sistema in cui sono immesse competenze per esempio solo maschili o solo di un certo tipo, poi improvvisamente vengono immesse delle competenze legate a un corpo diverso. Io non penso assolutamente che ci sia un destino biologico tale per cui le donne comunque fanno delle cose diverse dagli uomini, però riconosco un percorso storico-sociale diverso e quindi un'esperienza diversa: gli schiavi romani avevano un'esperienza diversa dai liberti e dai liberi, e quindi un comportamento diverso, un bagaglio sociale e culturale diverso, dunque un bagaglio relazionale diverso. Allora, quando tu immetti un corpo diverso che ha questa esperienza diversa, non è vero che fai esattamente le stesse cose e sei funzionale, o sempre e comunque funzionale, alle richieste che ti fa la struttura produttiva o sociale. Su questo non ci sono studi, per esempio io adesso sto facendo una ricerca, che è finanziata dalla Commissione Europea e durerà tre anni, su genere e gestione locale del cambiamento, per vedere se le poche donne elette portano pratiche ed esperienze che modificano la strutturazione delle politiche a livello locale, cioè la forma e la sostanza delle politiche. Siccome questo progetto è in sette stati europei, in molti di questi la cosa è già abbastanza confermata da inchieste anche precedenti e devo dire che anche qui in Italia, almeno dalle tre interviste che abbiamo fatto (noi lavoriamo in tre regioni diverse, Veneto, Emilia Romagna e Calabria), incominciamo a renderci conto che inconsapevolmente (le donne non si rendono conto neanche loro stesse della diversità del loro comportamento) inseriscono pratiche che non saranno assolutamente rivoluzionarie, però sono pratiche diverse: per esempio, nella politica locale c'è un'accentuata consapevolezza del dovere civico nel fare le cose; un uso dei tempi molto più razionale, cioè la riduzione dei tempi nelle riunioni ecc.; se sono assessori un accentuato interesse per il rapporto con i cittadini, quindi facendo in modo che il rapporto citadino-istituzione sia il più fluido possibile, quindi razionalizzazione degli uffici ecc.; un'attenzione alla vita riproduttiva della città, quindi anziani, percorsi per handicappati, ciclisti, asili ecc. Queste sono caratteristiche di cambiamento che abbiamo potuto notare, il che non ha niente a che vedere con il cambiamento per esempio del colore politico della giunta o del sindaco, ma ha a che vedere con un cambiamento di genere, cioè quando da un uomo si passa a una donna. Questo tante volte anche come consapevolezza soggettiva dei sindaci donna che hanno scelto degli assessori donna per esempio all'istruzione o alle politiche sociali perché hanno più sensibilità; oppure senza nessuna consapevolezza soggettiva ma nelle pratiche di cambiamento che sono state fatte.

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