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INTERVISTA A MARIO DALMAVIVA - 19 FEBBRAIO 2001
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Allora, per tornare alla tua domanda, non sono proprio d'accordo, poi non so da che punto di vista parlasse Tronti: secondo me le lotte degli anni '60 si innescano con le lotte della fine degli anni '60 assumendo una dimensione di massa e trovando il referente nell'operaio-massa. E non solo, dentro queste lotte così diffuse e di livello così elevato si forma un'avanguardia di lotta e in parte politica, ma non solo quelli che fanno i gruppi, diventa in parte politica perché i più avvertiti dell'avanguardia di lotta cominciano a guardare fuori dalla fabbrica e probabilmente a capire che se la sono presa nel culo, cioè che uno sbocco politico di tutte queste lotte non esiste. Naturalmente quello che c'è tenta di appropriarsene, il PCI tenta di andare al governo, poi non ci riuscirà, sarà giocato, ma a quel punto il PCI si presenta legittimamente con il fatto di dire "l'unico che può controllare le lotte sono io", e ovviamente con la leva della CGIL. Poi ci sono tutte le storie molto meno lineari, però io non sono d'accordo con questa cosa che dice Tronti: trovo e ritengo che di questo secolo, a parte le storie del '17, ma di questa seconda metà del secolo è forse questo il fenomeno di movimento più significativo che sia avvenuto, per quello che io conosco, nel mondo occidentale, molto più alto di livello di quello che è avvenuto in Francia ad esempio, dove tutto era impastoiato con questo partito comunista retrogrado. Ritengo che il rapporto lotte-movimento-sindacato trovi il suo limite nella funzione istituzionale del sindacato, che non ha la forza di liberarsi e di dire "ma chi se ne frega del sindacato, io sono il partito", cioè di rompere nell'arena istituzionale, questo sì come fatto rivoluzionario. L'avevano tentato attraverso un percorso, i consigli operai che entravano nelle scuole e via dicendo, ma era ancora un tentativo dal basso, di uscire dalla camicia stretta della fabbrica. Probabilmente, sempre a posteriori, forse è una cosa antistorica, lì veramente era il sindacato che doveva fare il partito, cioè "che mi frega che mi chiamo sindacato e del ruolo istituzionale che mi hai dato, io adesso sono il partito". Era l'unica cosa adeguata, il resto erano se si vuole pallidi fantasmi, i gruppi erano proprio dei pallidi fantasmi, molto chiusi; ma in alcuni momenti secondo me del '69, specie la prima parte poi anche la seconda come spinta ulteriore anche nel '70, assolvono una grossa funzione di stimolo e di diffusione delle lotte, ma poi ognuno a occuparsi dei suoi quadri operai nell'assemblea, con una miopia pazzesca, ma che me ne frega se tu hai 20 operai e io ne ho 10. Secondo me mancava, ognuno preso nella sua ideologia, uno sguardo lungo, e forse lo sguardo lungo avrebbe anche potuto dire che non potevano andare altrimenti le lotte, cioè che i sogni rivoluzionari erano appunto sogni; però, ci sarebbe dovuta almeno essere la capacità di dichiarare i fenomeni per quello che erano.
Romano è stato uno dei pochi ad occuparsi di cosa fosse realmente la soggettività operaia, fino ad arrivare agli operai e ai loro vissuti, e quindi di cosa fosse quell'insieme di comportamenti, credenze, bisogni ecc. che sicuramente non erano del tutto antagonisti, però in una certa fase avevano degli elementi di effettiva diversità dal padrone e dalla borghesia. Si trattava di capire da dove venissero le differenze soggettive, i momenti di formazione (non solo esterni, ma interni) di una particolare cultura e soggettività con elementi di antagonismo, di una forza da cui si poteva partire per un processuale percorso politico di ri-soggettivazione e costruzione di alterità.
Sì, forse è vero, ma cos'è una soggettività operaia? E' un insieme di comportamenti, è un insieme di scelte di lotta ma anche scelte esistenziali: non lo so cosa intenda Romano per questa soggettività operaia. Forse è stata poco studiata, noi avevamo sostanzialmente i tempi che la lotta ci concedeva. Devo dire che, tranne poche volte, eravamo molto a rimorchio delle lotte di questa famosa soggettività operaia, anche se sì, facevamo circolare le informazioni, ci montavamo la testa, una volta abbiamo anche proclamato lo sciopero generale, queste "stronzate" veramente da piccoli dirigenti comunisti. Qualche volta le abbiamo azzeccate, il 3 luglio l'abbiamo azzeccata: non eravamo neanche una piccola organizzazione, eravamo una piccola fettina di movimento di avanguardia politiche, ma parlo dell'ordine di 20-30-40 compagni e non di più, che proclama uno sciopero fuori dalla fabbrica, c'era lo sciopero generale per la casa, che porta in piazza 1.000-1.500 operai, una cifra enorme, ma poi incendia due interi quartieri di Torino. E' una cosa secondo me casuale, io quello sciopero l'avevo voluto contro tutti, avevo solo dalla mia Romolo Gobbi, tutti gli altri stavano chiusi nell'università e non si muovevano. Ma è un caso, non voglio venderlo come un calcolo, ma no, è un caso. Perché poi era una scena surreale, su corso Traiano tutti questi scontri tra operai, avanguardie politiche, polizia, è arrivato il battaglione Padova, la gente che partecipava dalle case, tirava giù i vasi da fiori, ci eravamo impossessati di alcuni caterpillar che usavamo come carri armati per bloccare le strade: cioè, una scena dell'altro mondo, e sui due corsi, corso Unione Sovietica e al fondo di via Nizza, la gente che tornava dalla gita fuori porta che tranquillamente scorreva in macchina. E' una cosa che dici "ma che rivoluzione?", rivoluzione per qualche migliaio di noi qui in questo quartiere, la lotta con la polizia, la lotta di fabbrica, e poi centinaia di migliaia di abitanti di Torino che tornavano tranquillamente in macchina in questo afflusso di lunghe code ignorando assolutamente tutto quello che stava avvenendo. Perché dico questo? Cos'è lì la soggettività operaia? Come l'hai raccolta? Allora probabilmente per capirci in questa cosa occorrerebbero proprio delle definizioni di una cosa così difficile come la soggettività operaia. E' un po' come la composizione di classe, se ne parla ma è necessario definirla molto bene. Credo che questa cosa sia vera, io rimango abbastanza legato a questo discorso del rapporto tra movimento, potenza del movimento (torno a usare questa parola) e potenza dell'interlocutore politico in grado di mediare. Cioè, che cosa succede? L'interlocutore Stato in tutte le sue articolazioni o reprime o trova un soggetto che media questa cosa: però deve essere un soggetto adeguato, e in Italia storicamente questi soggetti erano il sindacato e il partito, santi non ce n'erano. Per il resto, se debbo dire, abbiamo a volte avuto una funzione di acceleratore, molte più volte siamo stati in coda, altrettante volte abbiamo fatto ideologia. Le cose sono andate in un certo modo perché non abbiamo capito i comportamenti soggettivi di classe? Ma se noi li avessimo capiti, rispetto al discorso che faccio sulla potenza, qual era poi il soggetto politico? Certo, la composizione di classe da un lato, ma il soggetto politico in grado di trasformare in percorso rivoluzionario questa soggettività dei comportamenti qual era? Quindi, a una domanda rispondo con un'altra domanda.
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