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INTERVISTA A GIAIRO DAGHINI - 1 AGOSTO 2000


Le cose importanti della vita sono degli incontri. Tu ti incontri con delle idee, con delle persone, con dei movimenti, con alcuni ci stai e con altri no. Mi sono incontrato con gli eventi dei gruppi e con il PCI invece, che era il mio mito, non mi sono incontrato, cioè questo incontro non è avvenuto e ho percorso un'altra strada. Si può dire che noi non possiamo scegliere l'evento. Siamo investiti da eventi del reale che ci cadono addosso da ogni parte. Noi abbiamo invece la scelta delle idee, la scelta dei concetti con cui pensare il mondo, con cui situarci nei confronti degli eventi cosiddetti reali. L'incontro è l'avvenimento di una scelta, è la scelta di un concetto, anche di persone, ma è soprattutto la scelta di un divenire. L'incontro non ce l'hai con una forma che è già lì, qualcosa che ti hanno detto e che tu vai a cercare: non è quella forma immensa del PCI che io sapevo che c'era, che l'andavo a cercare come un'immensa struttura che mi avrebbe dovuto contenere; invece, camminando incontro qualcos'altro, incontro qualche cosa che è un divenire, che non è una forma già data ma che è una ricerca, che è un'insurrezione, che è una rivolta, che ha altre ragioni, ha le ragioni, mentre quell'altra, che ce le aveva anche lei, però non era più in grado di essere un incontro, una scoperta. Questa è stata una delle cose più importanti che mi sono capitate venendo in Italia e che ha dato un senso tra altre alla mia vita. Questo incontro con dei concetti avveniva poi anche con delle persone precise, Panzieri, Alquati, Pierluigi, poi Tronti soprattutto nella lettura, anche se l'ho visto alcune volte, poi c'era tutto il giro di Classe Operaia che erano poi Greppi, anche Rieser, poi i padovani, Toni Negri, e subito Bologna: insomma, tutto questo giro che in Italia, fine anni '50 inizio anni '60, lavorava su e con la soggettività operaia, con i costruttori della ricchezza intellettuale e materiale nel paese.
Un incontro importante, fondamentale è stato Enzo Paci, una figura di maestro. Come filosofo della fenomenologia egli cercava di far interagire il pensiero husserliano con il marxismo, ciò con molta onestà e con molta passione. C'era soprattutto il discorso husserliano della crisi delle scienze europee, che voleva dire la crisi della cultura europea nel suo insieme, una critica radicale al "produttivismo" filosofico e quindi la caduta di legittimità delle forme di questa cultura, dentro cui facevano irruzione il marxismo e tutti i divenire politici e di società che erano un'altra cosa dalle forme della cultura europea esistente. Anche questa è stata una cosa molto importante, questa cultura aperta, inquieta, nervosa dell'Italia degli anni '60 che cercava di dare un senso e di realizzare un incontro con i movimenti della società, della classe. Per alcuni anni Milano è diventata veramente la mia città, era una grande città europea. Ho vissuto prima con i miei amici filosofi in viale Maino e poi ho messo su con altri una casa in via Sirtori che è diventata subito una Comune in cui, dal 1960 al '75 abbiamo vissuto diverse ondate di eventi legati alle vicende filosofiche e politiche del tempo. Lì abbiamo tenuto, allora, diverse riunioni di Classe Operaia. Con Alquati, Gasparotto e altri avevamo iniziato le letture e i commenti al pensiero di Marx. Negli anni '60 abbiamo tenuto anche delle letture pubbliche de "Il capitale" molto frequentate. Lì girava sovente, e in parte vi abitava, il giro filosofico legato a Paci, quindi Guido Neri, Filippini, Piana, Gambazzi, Renato Rozzi e altri. Non era un luogo di identità, ma di presenze transdisciplinari, che passavano da un campo all'altro, sempre secondo questa idea di incontri possibili tra le cose. Era un periodo di grande energia, di incontri memorabili con Paci, con quella sua capacità fantastica di captare e di connettere tra di loro tutti i campi del pensiero, dell'arte, della musica da Schönberg a Proust, da Parmenide ad Agostino a Husserl, in una specie di immenso piano di immanenza di concetti e di figure. Lì, contemporaneamente, abbiamo cominciato il lavoro politico legato all'emergenza delle lotte operaie degli anni '60 nelle grandi fabbriche di Milano. Da lì anche abbiamo cominciato a costruire rapporti con i movimenti francesi di resistenza alla guerra d'Algeria e quindi con i movimenti di decolonizzazione. Successivamente Bologna ed io siamo andati a Parigi a fare tutto il '68, su cui poi abbiamo scritto un pezzo sui Quaderni Piacentini. Da lì siamo partiti per Torino nel '69, nel tempo dell'intervento a Mirafiori e delle assemblee alle Molinette, con il gruppo che poi si è formato attorno a Dalmaviva, cioè Mario, me, Vesce, anche Toni Negri che veniva a Torino ogni tanto (ma non spesso), e poi il gruppo dei Romani con Piperno. A Torino c'era anche il gruppo di Sofri, di Viale, Bobbio e altri. A quel tempo è nata Lotta Continua, la sigla è di Dalmaviva che lancia questa figura della Lotta Continua come firma dei volantini. Dopo, nel settembre del '69, decidiamo invece di darci un nome diverso, una parola che ci caratterizzi e scegliamo "Potere Operaio" (mentre "Lotta Continua" resterà il nome del movimento che si stava costituendo attorno ad Adriano, a Viale...). Questa è una cosa che decidiamo a Torino, a Milano, a Padova, a Roma e così via, alcune riunioni importanti di questa fondazione vengono tenute in via Sirtori. I primi numeri di Potere Operaio vengono fatti a casa mia da Oreste Scalzone e da me, con altri, con tutto il gruppo che campeggia nella Comune, ma siamo un po' noi due che costruiamo i primi venti numeri. Questo giornale è pensato, scritto, fatto lì poi, quando lo stampiamo a Roma, Scalzone ed io partiamo con un aereo alle cinque del mattino e andiamo là a fabbricare il giornale una volta alla settimana. Insomma, molto alla svelta, questi sono gli anni d'inizio a Milano. Da qui poi comincia la storia di Potere Operaio, che è una storia complessa, che non posso raccontare così, a memoria.

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