Ad esempio, mi ricordo un volantino che distribuimmo alla Parma di Saronno dopo che a Milano era morto un poliziotto, se non erro si trattava di Custrà; gli operai ci dicevano: "Dite delle belle cose, però intanto a Milano hanno ammazzato un poliziotto: voi su questo cosa dite?". Questo, ovviamente, ci metteva in una posizione di difficoltà nel gestire le cose e complicava tutto.
Prima parlavo della provincia di Varese come polo abbastanza importante rispetto a Milano. Secondo me, tra l'attività militante nelle aree metropolitane e quella nella provincia, tutto sommato, non c'erano grosse differenze, nel senso che la provincia la si poteva vedere come una metropoli allargata sul territorio. I poli industriali c'erano anche in provincia; forse, anzi, nell'ultima fase erano più in provincia che a Milano. Se uno guarda Milano e la provincia nelle rispettive estensioni territoriali, Saronno o Tradate diventano quartieri della metropoli, come Baggio o la Valona: magari c'era più difficoltà di spostamento (a Milano ci si sposta con la metropolitana e in provincia no), però non credo che ci fosse una grossa differenza.
Secondo te, che ruolo hanno avuto la repressione e, all'interno del carcere, il pentitismo e la dissociazione? Qual è stato invece il peso del documento dei 51? Che conclusioni si possono trarre rispetto ai limiti soggettivi di un movimento che è stato annientato nel giro di pochi anni?
E' ovvio che quello che dico lo faccio con il senno di poi, non c'è nessun tipo di critica o di presa di distanza da quella storia. E' certo che, probabilmente, non poteva che andare così; però, riletta oggi, uno dei nostri limiti è stato quello di accettare questo meccanismo, di gatto che si mangia la coda, della repressione - lotta contro la repressione e via di questo passo. Fu un continuo innalzamento dello scontro, il quale molto spesso, anzi quasi sempre, non era dettato dai nostri tempi e dalle nostre scelte, ma da quelle dell'apparato repressivo dello Stato. Noi, un po' ingenuamente, siamo stati dentro a questa cosa, per cui c'erano i primi compagni arrestati, i comitati contro la repressione e via di questo passo. Questo è stato un limite anche nel senso che assorbiva un grosso impegno di lavoro e di energie, non si faceva nient'altro che quello, per cui ci siamo un po' mangiati la coda: i compagni venivano arrestati, bisognava trovare i soldi per gli avvocati, e alla fine non si riusciva a fare nient'altro, a svolgere il lavoro politico che avremmo voluto fare su altri terreni.
Personalmente, devo dire che il periodo del carcere, per me, è stato di grande crescita, nel senso che comunque mi ha messo in contatto con altri compagni e con altre realtà che mi hanno arricchito. Dall'altra parte, anche la dissociazione e il pentitismo sono la dimostrazione di quelli che, secondo me, erano i limiti di quel movimento: era giovane, immaturo, basato molto sulla disponibilità soggettiva e poco su gambe teoriche e di radicamento reale. Quando questo movimento si è soggettivamente scontrato con i propri limiti e con una sconfitta storica, è crollato. Poi continuiamo a dirci che, nella nostra esperienza stretta, il fiore all'occhiello è che non ci sono stati né pentiti né dissociati: continuiamo a farne un vanto, ma soggettivamente, nel senso che i compagni che sono stati arrestati soggettivamente hanno tenuto, ma per loro ragioni personali. Il fatto che poi a livello alto, di massa, ci sia stato questo dilagare della dissociazione e, peggio ancora, del pentitismo, dimostra i limiti che aveva il movimento. Io credo che non si possa imputare alla repressione la sconfitta di un movimento rivoluzionario: se esso è solido, ha le gambe per camminare ed è radicato socialmente, nessuna repressione lo può sconfiggere. Noi siamo stati sconfitti proprio perché abbiamo fatto una scelta che non era matura rispetto ai tempi, fu forzata, e poi ne abbiamo pagato le conseguenze, in quanto non era il momento di fare certe cose: noi le abbiamo volute fare, più basandoci sul una disponibilità soggettiva che su una forza di classe reale.
|