Per noi, invece, era fondamentale l'internità alla classe e alle sue dinamiche sociali, mentre l'uso della violenza e della forza era subordinato a questo. Però, il fatto che comunque lavorassimo in una situazione in cui si veniva sovradeterminati da cose che noi non riuscivamo a governare, ci spiazzava continuamente. Tentavamo di tenere sempre aperta la dialettica tra intervento di massa, classe e uso della forza e organizzazione della violenza; ma questo non era facile in una situazione in cui altri, sostanzialmente molto più organizzati, dettavano tempi e scadenze completamente diverse.
Ferruccio Dendena ha parlato di una grossa compressione dei tempi in cui si è sviluppato il movimento e il percorso dell'Autonomia, sostenendo, metaforicamente, che un bambino in fasce non può guidare un'automobile. Secondo te, che ruolo e che peso ha avuto ciò rispetto ad un discorso progettuale e organizzativo?
Questo discorso è vero. Da una parte, come dicevo prima, c'era sostanzialmente un'immaturità; dall'altra è anche vero che ci misuravamo con la chiusura di un ciclo: stava davvero scomparendo quella figura che veniva definita operaio-massa e si stava scomponendo una composizione di classe che era stata presente sulla scena negli anni '60 e '70. A quel tempo i nostri riferimenti erano l'Assemblea Autonoma di Porto Marghera o quella dell'Alfa Romeo, però già questa azienda incominciava a scontrarsi con il problema della ristrutturazione che, nel giro di vent'anni, l'ha poi praticamente portata a chiudere; la stessa cosa avveniva nelle grosse fabbriche di Milano. Da una parte ci trovavamo con un movimento in fasce, nel senso che era estremamente giovane, composto da giovani operai o da studenti, con poca esperienza di lotta di classe e di fabbrica; dall'altra iniziava pesantemente la ristrutturazione all'interno delle fabbriche e anche nel tessuto sociale della classe operaia, e a questo noi non riuscivamo a dare risposte. Inoltre la ristrutturazione era estremamente veloce e noi non siamo riusciti a starle dietro. Rileggendo quelle fasi, nei giorni scorsi pensavo a quando la colonna milanese Walter Alasia delle Brigate Rosse sequestrò Sandrucci, un dirigente del personale dell'Alfa Romeo: la trattativa per il rilascio verteva sul bloccare 2.000 licenziamenti che ci dovevano essere in quella fabbrica. Il fatto che una forza che si definisce rivoluzionaria sequestri il dirigente del personale di una multinazionale e poi chieda di non licenziare 2.000 operai, dà il segno dell'incapacità e della pochezza strategica di una proposta di quel tipo. Ciò dimostra che non si lottava su un terreno offensivo ma su un terreno difensivo, tamponando le falle e cercando di frenare una ristrutturazione che, invece, non eravamo in grado di frenare, né avevamo gli strumenti, perché era molto più grande di noi.
Il tutto era complicato dal fatto che era un movimento estremamente giovane, magari con delle grosse intuizioni teoriche, ma con l'incapacità di farle vivere nel concreto. Una di queste grandi intuizioni poteva essere la parole d'ordine del salario sociale, che allora non era nella forma in cui oggi se ne parla (ad esempio del salario di cittadinanza, come dicono in Francia): consisteva, ad esempio, nelle lotte a Milano sulle autoriduzioni, che andavano dai trasporti al cinema. Intorno al '73-'74 i collettivi metropolitani giovani entravano nei cinema senza pagare il biglietto oppure, attraverso l'autoriduzione ai concerti, si riappropriavano della musica: si trattava di una forma embrionale del discorso sul salario sociale. Non si è però riusciti a collegarla al resto, ridando fiato ad un discorso molto più ampio. Prima parlavo dell'Alfa Romeo, che per noi a Saronno è stato un polo importante: noi siamo anche cresciuti soggettivamente sui picchetti a quella fabbrica, perché era un periodo in cui l'Alfa comandava squadre di operai al lavoro il sabato mattina, in quanto allora stavano preparando la Giulietta; noi andavamo a tentare di bloccare i cancelli facendo il discorso "No agli straordinari, lavorare tutti e lavorare meno". Noi, in quanto disoccupati, studenti o operai della piccola fabbrica, dicevamo: "Rifiutatevi di fare gli straordinari, che l'Alfa Romeo assuma". Ma, anche lì, a parte alcuni contatti sporadici con le avanguardie di fabbrica, non siamo in realtà riusciti a far partire un movimento al suo interno su queste parole d'ordine; restavamo un soggetto abbastanza estraneo al corpo della classe e della fabbrica. Il tutto era poi complicato da un livello che non era determinato da noi.
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