|
INTERVISTA A DARIO CORBELLA - 28 MARZO 2000 |
|
D'altra parte mi viene da dire che, tranne la rivoluzione bolscevica nel '17, mai quelle del proletariato sono state lotte per mettere in discussione il modo di produzione capitalistico. Alla fin fine, anche le lotte per le 8 ore lavorative, o adesso per le 35 ore settimanali, o per la sicurezza, non sono lotte in antitesi al modo di produzione capitalistico, ma per migliorare le proprie condizioni. Quindi, non ci vedo niente di strano sul fatto che settori di classe lottino per le proprie condizioni di vita anche all'interno del modo di produzione capitalistico e del suo sviluppo. Indubbiamente lo sviluppo capitalistico, dal momento in cui sale alla ribalta la lotta di classe, è da leggere sempre in modo dialettico, per cui le lotte del proletariato spingono avanti determinate richieste e il capitale, per rispondere ad esse, si modernizza, si ristruttura, spinge avanti le forze produttive, le sviluppa: è un continuo rincorrersi, in termini dialettici, non vedo niente di male in questo.
Nella tua analisi delle esperienze degli anni '70 avevi evidenziato un grosso limite nella mancanza di radicamento, soprattutto in certi settori di classe. Come vedi il nodo del radicamento, sia riferito all'analisi critica dei tuoi percorsi sia rispetto all'oggi?
Rispetto agli anni '70 credo che vada riferito a quello che io dicevo essere il grosso limite di quei movimenti, cioè l'esternità, in buona misura, ad un tessuto di classe reale. Questo non vuol dire che molti compagni non abbiano anche fatto un percorso all'interno delle fabbriche, per cerare avanguardie di classe dentro ad esse: ma il movimento in quanto tale era esterno a quella realtà e non ne capiva le dinamiche. Pensavamo di essere avanguardie di una classe, ma questa andava per conto suo, ancora all'interno di un ciclo di espansione capitalistico: noi invece credevamo ad una possibile crisi rivoluzionaria in tempi brevi. E' invece ovvio che la classe aveva le sue dinamiche e andava per conto suo, eravamo noi che non avevamo capito, che fraintendevamo alcuni dati magari anche presi dalla realtà, ma che non indicavano una possibilità di crisi rivoluzionaria. Nel '68-'69 e poi negli anni '70 c'era la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, per cui alcuni teorici sostenevano che il capitale era ormai giunto a non si sa quali soglie di crisi, per cui tendenzialmente crollava il saggio del profitto: evidentemente non era vero, il capitale aveva ancora amplissimi spazi per manovrare, per aprire mercati e tutto quello che oggi chiamiamo globalizzazione, e che allora non riuscivamo ancora a leggere.
Rispetto all'oggi internità, per me personalmente, vuol dire essere nel mio posto di lavoro, all'interno di dinamiche anche lì di rapporti tra soggetti, tra proletari che si pongono il problema della lettura e dello studio della realtà, capendo però che quella è la classe, non mi posso inventare soggetti che non esistono. Oggi la classe è quella lì, anche quella corrotta dal capitale, quella che magari ha due lavori o una soglia di benessere abbastanza buona: perché tutto sommato, almeno all'interno della metropoli imperialista, i margini delle soglie di benessere o di relativo benessere ci sono, per cui è inutile inventarsi una classe disposta a lottare su chissà che cosa quando in realtà questa disponibilità non c'è.
Affrontiamo il nodo della comunicazione e dei linguaggi, sempre mantenendo il doppio taglio di analisi dei tuoi percorsi e di attualizzazione del discorso nell'oggi, soprattutto in un momento in cui il nodo della comunicazione ha, in generale, assunto un peso grosso e nuovo.
Io credo che la comunicazione dipenda molto dai soggetti a cui ci si rivolge e da quello che si vuole dire, nel senso che penso che alcuni strumenti di comunicazione servano per raggiungere determinati soggetti che interessano e per dire alcune cose. Da questo punto di vista non credo che le tecnologie moderne diano molti strumenti in più rispetto a quelle che usavamo negli anni '70, e che sono tuttora quelli che si possono usare. Sicuramente il computer è utile, perché più nessuno ciclostila i volantini, ed è più comodo per impaginare un giornale o un bollettino. Però la comunicazione è comunque interazione tra soggetti, per cui non credo che sia cambiato molto: il giornale che si faceva negli anni '70 lo si può fare ancora adesso, il volantino, il tazebao, il manifesto sono rimasti quelli.
|
1 - 2 - 3 - 4
|
|