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INTERVISTA A BRUNO CARTOSIO - 15 MAGGIO 2000


Io sono tornato a casa nel '71, gli altri erano tutti residenti lì e sono andati avanti, e con loro siamo poi rimasti in contatto regolare per cinque o sei anni, tutti gli anni passavano da casa mia, ci vedevamo, ci scrivevamo, mi mandavano il giornale, dibattevamo una serie di questioni. Poi, soltanto negli ultimissimi anni, credo '79 o '80, il gruppo si è slegato, perché anche lì una serie di persone è entrata in posti di lavoro diversi: uno si è messo a fare l'avvocato, l'altro ha traslocato, l'altro è diventato un ricercatore di una qualche importanza e si è trasferito a Baltimora, un altro è andato a stare ad Ottawa. Quindi, il gruppo alla fine si è disperso, sedimentando però un qualcosa che è rimasto dentro la comunità, e alcuni di questi, perlomeno un paio, hanno continuato poi a fare politica all'interno della comunità italiana, nel rapporto tra essa e governo provinciale del Québec, grazie proprio a quella specie di apprendistato politico. Dunque, la cosa ha avuto un esito direi naturale, cioè un movimento che è diventato qualcosa d'altro e i suoi militanti si sono distribuiti su una serie di attività e hobby diversi. Però, è finito in questo modo, non è finito né con grandi litigi, né con rotture interne, né con un'incapacità di rapportarsi a quello che esisteva, quindi questo secondo me rimane un fatto tutto sommato positivo.
Dunque, io sono tornato nell'estate del '71, naturalmente un po' di cose erano già successe, come Piazza Fontana eccetera, e ho trovato in Italia una realtà profondamente diversa da quella della metà del '69, quando sono andato via. Ormai era una realtà in cui il movimento generale non esisteva praticamente più, esistevano tutta una serie di formazioni politiche, cioè i gruppi. Non esisteva più un luogo o dei luoghi in cui si faceva politica: l'università, intorno all'università, i rapporti con le fabbriche, i luoghi di aggregazione dei lavoratori-studenti, ossia luoghi in cui tutto era molto in movimento e coesistevano posizioni diverse, tra le quali c'era una dialettica a volte anche molto viva però aperta. Due anni dopo questo era tutto cristallizzato. Mi ricordo di aver partecipato a una manifestazione qui a Milano, se non sbaglio a settembre del '71, forse la prima grande manifestazione a cui ho preso parte dopo il mio ritorno, in cui era per me impressionante vedere le formazioni e i ranghi chiusi e inquadrati di un gruppo dopo l'altro; ci fu anche il fatto che in quell'occasione, dalle parti di Città Studi di piazza Leonardo da Vinci, vennero poi trovate (se non sbaglio in una macchina o in un furgone) delle bottiglie molotov preparate, che poi non furono usate ma erano pronte. Quindi, c'era stato un salto di qualità a cui ero stato estraneo, perché appunto il tipo di pratica politica che avevamo cercato di mettere in atto in Québec era sostanzialmente diversa, ed era molto più aperta, flessibile e non dottrinaria. L'altra cosa importante che viene da questo soggiorno negli Stati Uniti e che poi mi ha anche portato a questa sensazione in parte di estraneità, è tutta la lezione proveniente dal femminismo. Di nuovo un'esperienza di movimento, di grandi coinvolgimenti personali e di gruppo su questioni di dimensioni variabili dal molto piccolo e molto personale al molto grande e ai giudizi sulla società, sulla storia e così via, che però si articolava in termini di pratica politica secondo modalità non rigidamente gerarchizzate. Quindi, quando sono tornato qui e ho trovato queste formazioni così rigidamente chiuse e dottrinarie (perché poi lo scontro interno era molto forte), da una parte c'era la mia esperienza personale dentro un tentativo di organizzazione, dall'altra c'era una rimaturazione di temi, di questioni e di modalità dell'agire politico che venivano dall'esperienza femminista, cioè di movimento, che mi hanno portato a rifiutare di riconoscermi, di schierarmi, di entrare in una, l'altra o l'altra ancora di queste formazioni, nonostante che, sul piano poi dell'analisi, l'interlocuzione rimanesse assolutamente viva e sensata. Voglio dire che le analisi dello sviluppo capitalistico, dei rapporti e della composizione di classe che venivano da Potere Operaio mi sembravano le più acute; il rapporto con l'organizzazione e la capacità di rapportarsi al sociale che veniva da certe componenti di Lotta Continua mi pareva accettabile. D'altro canto, però, non ero disposto ad accettare la rigidità ideologica e la crescente rigidità organizzativa di Potere Operaio, così come non ero disposto ad accettare il casino ideologico di Lotta Continua, o quella dose di populismo o di generica accettazione di quasi tutto in modo un po' troppo indiscriminato, che impediva di dare giudizi su tutta una serie di esperienze e che permetteva che stessero insieme, sotto lo stesso ombrello, cose di tipo molto operaio o operaista e altre di tipo molto populista e generico. Mentre invece non mi riconoscevo proprio nel tipo di costruzione politica e organizzativa di realtà come il Movimento Studentesco della Statale di Milano, poi diventato Movimento Lavoratori per il Socialismo, o anche Il Quotidiano dei Lavoratori e Avanguardia Operaia, che mi sembravano anche loro tra i più dottrinari, ma di un tipo di dottrinarismo che apparteneva ad un ambito che avevo del tutto ormai abbandonato: riproducevano in piccolo il Partito Comunista, con una esasperazione dei difetti della ortodossia, della linea, della coerenza politica, senza però quel patrimonio di partecipazione, di militanza, di presenza operaia e di gente comune che avevo conosciuto e che comunque rimaneva per me un dato difficilmente trascurabile.

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