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INTERVISTA A BRUNO CARTOSIO - 15 MAGGIO 2000


All'interno della mobilitazione di Seattle qual è stato il ruolo dei sindacati e delle altre componenti? Già a Washington, per quanto riguarda i sindacati ad esempio, le posizioni erano un po' differenti.


I sindacati a Seattle hanno portato delle loro parole d'ordine principali, a cui se ne sono aggiunte poi delle altre strada facendo o nel rapporto con le altre forze che erano lì presenti, e in parte lo stesso è successo a Washington. Però, dentro il sindacato americano sono venute fuori delle cose che fino a due anni fa o a un anno e mezzo fa non c'erano: per esempio, c'è il discorso nei confronti degli immigrati, anche di quelli clandestini, che è del tutto inedito all'interno del sindacato americano. Senza un'esperienza di contatto, confronto e discussione sulla questione della globalizzazione del capitale, io non so se ci sarebbe stata questa trasformazione dentro il sindacato. Se a capo del sindacato le forze riformatrici non avessero messo una leadership riformatrice, non so se sarebbe andato a Seattle: lì i sindacati americani erano la componente numericamente più forte. Non so se il sindacato avrebbe avuto la forza per portare un'ipotesi come quella che ha portato a Seattle, facendola addirittura passare attraverso Clinton, il che non è un grande obiettivo, però è un obiettivo concreto, cioè quello di dire: "Mettiamo in discussione la difesa dei diritti dei lavoratori in tutti gli stati toccati dalla globalizzazione; questa non deve vivere sull'assenza di diritti, ma deve vivere sul rispetto dei diritti". Da parte del sindacato americano questa è un'apertura in direzione internazionale che il sindacato burocratico e autoritario di cui parlavamo e che è entrato in crisi non avrebbe fatto e portato avanti. Quindi, ci sono segnali di spostamenti reciproci. D'altra parte, gli ambientalisti non hanno mai interagito con il sindacato americano; i giovani dell'anticapitalismo un po' sciolto e avventuroso, non avrebbero mai accettato di partecipare ad un'azione insieme con il sindacato americano. Le trasformazioni in atto ci sono, alcune di queste riguardano i modi. Per esempio, mi è capitato di sottolineare (non solo io, naturalmente) che una manifestazione come quella di Seattle richiede una lunga preparazione (l'ho scritto su Carta), e le lunghe preparazioni le fanno non gli individui, ma i gruppi. Questi gruppi hanno discusso tra di loro e hanno concordato delle parole d'ordine e dei modi di comportamento: ci hanno messo un anno a farlo, e questo è un modo. Un altro modo di funzionare è che quasi tutto quello che si sono detti e scambiati è passato attraverso Internet, e questo è uno strumento che i movimenti non hanno mai usato, o l'hanno fatto senza uscire dalla propria stretta autoreferenzialità. In questo caso, invece, la rete viene usata, esattamente come fa il capitale, per comunicare qualcosa di vitale, di decisivo. Quindi, questo è un cambiamento di un modo di funzionare che però è anche sostanziale. E' esattamente come quando il movimento operaio aveva adottato, come strumento organizzativo, il giornale, cioè la stampa, che era una cosa dei padroni; ora questi movimenti antagonistici usano, o cominciano a usare, un altro strumento del padrone, cioè la rete, contro di lui. Di per sé questi sono tutti fatti molto positivi e importanti, bisogna vedere poi quali sono i contenuti che ci vanno dentro, la capacità di durare, di elaborare prospettive, quanto da questa antiglobalizzazione viene fuori un discorso chiaramente anticapitalistico. La globalizzazione non è la globalizzazione, la globalizzazione è la globalizzazione capitalistica: allora, quanto viene fuori di questo, quanto riesce a passare? Questa è una cosa che a me interessa molto. La globalizzazione è nelle cose, a partire dalle autostrade ad arrivare agli aerei e alle reti di comunicazione, è un processo che va avanti da 500 anni: è la globalizzazione del capitale, ed è l'estensione del comando capitalistico sulle società il problema.


Come pensi che si possa iniziare ad affrontare un discorso sulla soggettività politica?

Rispetto a questo, l'unica cosa che so è che chiunque oggi si ponga dal punto di vista del che cosa fare, non può farlo al di fuori di questo ambito complessivo, questa è l'unica cosa di cui sono certo. Dopo di che noi dobbiamo continuare ad affrontare problemi spiccioli, lo sciopero qui, la protesta là, la centrale nucleare lì, il padrone criminale oppure le morti sul lavoro. Però (in un certo senso questo è un vizio di origine) siccome noi siamo cresciuti nel periodo in cui abbiamo studiato per formarci, continuo a credere che non sia possibile ragionare sul che cosa fare, come fare, quando e dove, senza studiare. Il mondo era già complicato negli anni '60, lo è ancora di più nel duemila, questa è l'unica cosa che so.

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