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INTERVISTA A BRUNO CARTOSIO - 15 MAGGIO 2000


In quegli anni ho insegnato sempre alla Statale di Milano e lì c'era il Movimento Studentesco, poi diventato Movimento Lavoratori per il Socialismo: vedevo il tipo di dottrinarismo che questa gente metteva nel loro lavoro e nel tentativo di capire che cosa succedeva. Ciò era legittimo, era anche meritevole, in quegli anni la gente studiava e loro erano persone che studiavano; ma quando partivano dai libri e si fermavano ad essi, perché usavano quello che vi imparavano per proiettare addosso alla realtà un'etichetta, un'immagine, una struttura, io li mandavo a quel paese. Alcuni di loro erano miei studenti e io dicevo loro quanto era sterile questo tipo di discorso: "Tu con la realtà ti ci rapporti in un modo diverso, ti costruisci una teoria e poi però la metti a confronto con la realtà, e dal confronto della teoria con la realtà riorganizzi un'altra teoria, ed è questo il tipo di procedimento".
Per quanto riguarda me, il rapporto è questo, poi posso dire del rapporto con esperienze: il rapporto con l'esperienza della vita di classe operaia in mezzo alla classe operaia, il rapporto con gli Stati Uniti, anche nel senso proprio di vedere quello che succedeva dentro le città, come si muovevano queste persone, cosa facevano, in che modo mettevano in gioco la propria vita. Perché poi la militanza è anche questo, cioè mettere in gioco la propria vita, i propri valori, le proprie appartenenze, le proprie convinzioni: lì ho visto gente fare questo in modo molto deciso, comportarsi in modo coerente con quello in cui credevano e trasformare le proprie vite sulla base di quello in cui erano arrivati a credere. Poi, una volta tornato qui, in sostanza il tentativo è stato di non ripudiare nulla, cioè di riuscire a dare a quella che credo sia stata l'importanza della mia formazione precedente il valore che ha e all'importanza delle mie esperienze successive il valore che hanno. Dopo di che ci sono altri che hanno fatto forme di militanza diverse dalle mie, più militanti, combattive, d'avanguardia, alla testa di movimenti, altri che lo hanno fatto meno di me: io ho fatto quello di cui sono stato capace e quello che ho avuto il coraggio e la forza per fare, né più né meno. In questo c'è anche la consapevolezza dei limiti, per esempio non sono mai andato dentro: il fatto di non essere stato una vittima non lo vedo come una macchia sul mio onore, credo che abbia a che fare con la posizione che io e altri abbiamo preso in quegli anni, cioè di essere dentro e in rapporto con il movimento ma senza identificarcisi totalmente, cercando di mantenere un rapporto critico, quindi un minimo di distacco critico, altrimenti non si riesce ad esserlo. Questo è quello che è successo.


Prima parlavi del movimento femminista: secondo te, all'interno dei movimenti antagonisti, qual è stato il suo ruolo e la sua importanza, le sue ricchezze e i suoi limiti?

L'importanza è stata straordinaria; anche questo è un discorso che andrebbe fatto più estesamente e più in profondità. L'importanza è stata straordinaria perché ha fatto emergere una separazione di genere che fino a quel momento era stata rimossa, sommersa, non dichiarata e, per quanto riguarda le donne, subita e imposta; ha fatto emergere l'esistenza di questo come problema. Dal '69-'70 in avanti nulla più ha potuto essere come se il femminismo non ci fosse stato, qualsiasi pezzo di elaborazione teorica non poteva più parlare soltanto al maschile: questo è un contributo secondo me di straordinaria importanza. Un'altra cosa è la messa in discussione dei principi della gerarchia all'interno delle organizzazioni, e questo secondo me è un contributo che non è passato in generale; è passato nel caso mio, io sono convinto che questo tipo di esperienza per me sia diventata fondamentale. Credo che potrebbe essere assunto come uno dei significati o una delle indicazioni profonde: l'organizzazione sì, la burocratizzazione no. Se i movimenti avessero avuto la duttilità sufficiente per appropriarsi di questo tipo di indicazione, avrebbero avuto storie diverse, secondo me molto più aperte. Il limite però, da un certo punto in avanti, anche da parte delle femministe, è stato quello del prolungamento della chiusura: a un certo punto, secondo me, avrebbero dovuto ributtare al di fuori, intorno a sé, una proposta forte proveniente da questo tipo di assunti che erano diventati ormai tipici del femminismo, e quindi costringere gli altri a fare i conti con questo, in un certo senso chiamare tutti a fare i conti con questo. Mentre invece c'è stata una chiusura, quella tendenza all'autoriproduzione dei meccanismi e all'autoreferenzialità che, nel caso del femminismo, è durata e ha avuto un minimo di legittimità in più rispetto agli altri movimenti, derivante dal fatto che il femminismo ha continuato ad allargarsi, a diventare un movimento sempre più ampio, travalicando completamente i confini organizzativi del movimento.

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