Da questa situazione esce un altro elemento che, secondo me, è poi caratteristico della seconda metà degli anni '70 e in parte del movimento degli anni '70, del '77 e così via: l'autoreferenzialità, l'incapacità di interloquire con quello che ti sta intorno. Ciò vale per i gruppi prima, poi soprattutto movimenti o spezzoni di esso: il movimento dell'Autonomia smette ancora di più dei gruppi (se è possibile, ma è così) di pensare di rivolgersi ad altri diversi da se stessi. I gruppi nella fase iniziale avevano tutti ipotizzato come destinatario naturale della propria azione la classe operaia, e avevano cercato in ogni modo di interagire con essa, a volte riuscendoci e a volte no, di più o di meno, a volte in modo "giusto" o "sbagliato", però avevano fatto questo; i movimenti della seconda metà degli anni '70, inclusa Autonomia Operaia, sono autoreferenziali, nel senso che pensano di racchiudere in sé tutte le regioni della propria esistenza. Questo, secondo me, è un errore politico e teorico di straordinaria rilevanza, ed è una delle ragioni che porta alla totale separazione e alla fine del senso sociale ampio e diffuso dei movimenti degli anni '70. Diventano movimenti generazionali, soltanto giovanili e che si rivolgono ad ambiti sociali che molto spesso non hanno nessun rapporto con la classe operaia, o, meglio, che anche quando hanno rapporto con la classe operaia non derivano da essa il proprio senso, ma spostando gli aderenti di classe operaia fuori da essa per ricevere il senso dall'appartenenza al gruppo: non è la classe operaia che dà senso al gruppo, ma è il gruppo che dà senso a quei pochi operai che riesce a portare verso di sé. Questo, secondo me, è il limite più grande, e questa è proprio la deriva più importante che tende a privare il movimento in generale, e i movimenti come suoi componenti, di senso e di valore. Dopo di che, questo movimento ha comunque un suo senso: negli anni della repressione, i movimenti che sono il prolungamento del '77 conservano un loro valore, ce l'ha quel filone che passa da lì e diventa poi i centri sociali, in una situazione di atomizzazione, di attacco antipopolare, di distruzione delle forme di aggregazione di sinistra, questi diventano punti di coagulo, e in quanto tali diventano estremamente importanti perché non tutto vada a ramengo. Però, non cessa quel carattere di autoreferenzialità che fa sì che questi siano essenzialmente dei luoghi chiusi, con pochissima capacità di interloquire con l'esterno, con la classe operaia e con i cambiamenti profondi nella società. Diventano cioè fenomeni difensivi, di chiusura e di autodifesa, e come tali rispettabili, però in questa chiusura e autodifesa si definisce anche il limite, cioè l'incapacità di avere un senso ampio e una capacità di interlocuzione con i vasti fenomeni sociali che attraversano la società. Per cui, per esempio, si dà la totale separazione rispetto alla classe operaia, e delle trasformazioni ad essa interne questa gente qui non capisce più niente, salvo pochissime eccezioni, tra queste (si tratta soprattutto di individui) nomino, per esempio, Primo Moroni. Dire Moroni vuole però dire parlare di un individuo, che riesce a coagulare un qualcosa intorno a sé, alla libreria (che ha una storia lunga e complessa) e al centro sociale di via Conchetta; tuttavia, rimane un individuo, i centri sociali in quanto tali credo che raramente riescano a produrre analisi dell'esistente, del sociale, molto raramente riescono a interloquire con la classe operaia o con quello che succede nelle fabbriche, né dal punto di vista dell'analisi né dal punto di vista umano, sociale, concreto, pratico. Questo non vuol dire sminuire l'importanza di quello che fanno, che anzi negli anni '90 sarà estremamente importante; però, secondo me, ciò vuol dire avere la dimensione realistica dei limiti di questo tipo di movimento, e della sua grande diversità rispetto a quello che succedeva in Italia nella seconda metà degli anni '60 e nei primi '70.
Se dovessi citare alcuni libri, autori e figure che hanno avuto una particolare importanza nel tuo percorso politico e culturale, di chi parleresti?
Questa è una domanda che non mi piace, perché il processo di formazione è lungo e complesso. L'unica cosa che posso dire è che non c'è stato un libro che per me è stato il vangelo, non c'è stata una rivelazione, non ho mai avuto questo tipo di esperienza. Mi rendo conto che forse questo può anche essere inteso come una dose di supponenza o di arroganza, ma quando nei primi anni '70 vedevo tutti questi miei coetanei che scoprivano la classe operaia, io posso dire che ci sono nato dentro e non ho mai avuto bisogno di figurarmeli come un qualcosa di diverso da quello che sono, né meglio né peggio, perché ci sono letteralmente vissuto dentro per i primi vent'anni della mia vita, li conoscevo nei loro pregi e nei loro difetti, sapevo quanto sono attendibili o quanto non lo sono, quanto è importante un movimento di classe operaia e anche quali sono i limiti delle capacità di analisi di un gruppo di operai.
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