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INTERVISTA A BRUNO CARTOSIO - 15 MAGGIO 2000


Torniamo al filone dell'operaismo italiano (che non è l'unico, ma è uno dei più alti a livello internazionale). Per esempio, sia il sindacato sia il partito non avevano mai guardato dentro la fabbrica: una delle cose che viene direttamente dall'operaismo e da questa ricerca sulla soggettività, da questo contatto con essa, è quello di guardare a come e dove si esprime la soggettività operaia in questi anni, quindi diventa necessario guardare alla fabbrica, perché essa diventa sempre di più luogo di movimento. Ovviamente al fondo di questo movimento teorico c'è il presupposto che questa massa operaia un po' indistinta (quella della fabbrica taylorista) sia significativa, ma questa è una delle cose che abbiamo imparato dagli IWW, che vengono dall'analisi del fordismo, dall'analisi degli anni '30 negli Stati Uniti, ci viene cioè da quelle esperienze che per prime si sono rapportate con la fabbrica fordista. Quindi, la figura dell'operaio-massa, che oggi viene largamente disprezzata come figura teorica, è in realtà uno strumento fondamentale per capire che bisogna guardare dentro la fabbrica, che bisogna guardare i processi produttivi e a chi vi sta dentro. Infatti, secondo me, con alcuni svarioni, superficialità o volontarismi, per questa via negli anni '70-'80 noi arriviamo a capire, con sufficiente adesione al reale, quello che sta succedendo. Credo che dalla lezione dell'operaismo venga questa capacità di capire quello che accade, perché il luogo principale della trasformazione, dell'attacco antioperaio, antisindacale e antipopolare, è la fabbrica; quindi, guardare a quella realtà è quello che permette di capire prima di tutti gli altri che cosa sta succedendo e anche di rapportarsi con questi fenomeni. Ciò ci permette anche di essere in anticipo sui tempi, perché adesso tutto il parlare che si fa di modello americano, di flessibilità, di adozione del part-time, delle reti e così via, ha per oggetto diretto e immediato il mondo del lavoro, della fabbrica e la sua trasformazione: noi siamo tra quelli che a queste cose abbiamo guardato per primi. Qui, ripeto, c'entra sia quello che è più autoctono (cioè dai Quaderni Rossi a Montaldi a Alquati a Classe Operaia e quella componente lì), sia quello che veniva dalla gente di Socialisme ou Barbarie, dagli operaisti americani di Detroit (con i quali siamo entrati in contatto nella seconda metà degli anni '60 o, per quanto riguarda me, alla fine di quel decennio). Questo secondo me è uno dei contributi principali, che ovviamente in sé non esaurisce le necessità di rinnovamento teorico, però è un contributo importante in quella direzione. Ripeto, il partito e il sindacato erano stati fuori dalla fabbrica, non avevano mai analizzato veramente quello che vi avveniva dentro, quindi è importante quello che succede su questo terreno.


Quali sono invece stati i limiti?


I limiti stanno nel fatto che anche i movimenti e i gruppi che ne sono espressione, come tutte le altre strutture sociali, tendono ad autoriprodursi, a prolungare la propria esistenza e legittimità al di là del dovuto, anche quando ormai hanno smesso di avere senso. Ovviamente io non posso immaginare che il mio punto di vista sia condiviso, largamente oppure no, però è il punto di vista che ha retto il mio rapporto con la realtà politica di questi anni: secondo me è questo irrigidimento in gruppi che ha portato ad un indebolimento del movimento nel suo complesso. In parte questo tipo di evoluzione è ovvia, ma in parte non lo è, perché non c'è niente che sia sempre e soltanto ovvio al mondo: per cui, per esempio, le controtendenze sono state troppo deboli. Noi, Primo Maggio, che abbiamo cercato di dar voce ad una controtendenza, forse avremmo potuto farlo meglio, di più, forse avremmo potuto a nostra volta essere meno chiusi, non lo so, questo starà ad altri dirlo; però, quello che abbiamo cercato di fare, con le forze e capacità che avevamo, era in parte questo, cioè di lavorare al di là delle linee di frattura che separavano i movimenti.

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