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INTERVISTA A SERGIO BOLOGNA - 21 FEBBRAIO 2001


La cosa che non ho detto e che secondo me non va dimenticata è la dimensione internazionale, questo operaismo italiano ha avuto una dimensione internazionale. Era un sacco di tempo che in questo cavolo di paese non si vedeva un pensiero politico che avesse una forza egemonica, sia in Germania, su una parte dell'autonomia tedesca, ma anche in altri paesi. Tra l'altro è una cosa che dura ancora, vedo che si riproduce anche adesso, in Spagna, o anche negli Stati Uniti, nell'America Latina, ci sono magari dei piccoli gruppi. La diaspora seguita all'ondata di arresti del '79/'80 ha fatto la sua parte nel diffondere questo pensiero. L'operaismo è un boccone pesante da mandare giù, non è una cosa che si liquida così, non è una cosa di moda con cui ci hai passato un periodo e via. Questa dimensione internazionale non va dimenticata (alcuni dei migliori americanisti italiani bene o male sono usciti da questa scuola), perché ci dava un'arma in più, una possibilità in più di dialogare, ci dava uno strumento in più per comprendere le dinamiche del capitale e la soggettività operaia. Tra l'altro questo aspetto dei rapporti internazionali è stato proprio seguito da me dentro Classe Operaia quindi mi sono abituato sin dall'inizio a pensare che "o si riesce minimamente ad avere una conferma a livello mondiale di certe cose, o si è fregati". Per questo il maggio francese lo abbiamo vissuto come una cosa nostra ed abbiamo saputo rappresentarlo con efficacia. Sono sempre stato molto poco italiano, io, forse dipende dalle mie origini triestine. Le regole non scritte di questo paese, di cui sono cittadino mio malgrado, mi sono sempre state ostiche. La dimensione internazionale ha costituito un utensile essenziale della nostra tecnica di lavoro politico. Questa cosa non è mai stata valorizzata, non si è mai fatta una riflessione seria, non si è mai fatto un bilancio, non tanto della penetrazione delle nostre teorie all'estero, quanto del peso che la dimensione internazionale ha avuto nella costruzione dei concetti base. Varrebbe la pena una volta di ricostruire questa vicenda, perché secondo me rispunterà fuori e ci verrà restituita, ne sono convinto. Qua oggi di queste cose e di queste nostre storie ne parliamo solo noi, altrove non è così.


Una delle critiche più grosse che si può fare a Toni Negri è il discorso che lui ha fatto per tutti gli anni '70 sull'irreversibilità dei livelli di forza.

Da questo punto di vista è un esempio classico, lui è rimasto tale anche nelle cose che dice adesso su Seattle, il conflitto come forzatura ma anche come elemento costituivo. Il conflitto come un momento dell'identità, come "il" momento della costituzione, della politica, della costituzione della classe. Il conflitto come atto costitutivo: questa per me è una forzatura. Questa concezione tra l'altro attribuisce sempre grande valore alla visibilità. L'"altro" per essere tale deve essere visibile, manifesto, e il suo conflitto quanto più è clamoroso tanto più gli conferisce un'identità, una divisa inconfondibile. E' da questo pertugio che rientra in gioco la logica tradizionale della politica. Io preferisco l'immagine della trave mangiata dall'interno dal tarlo, preferisco un percorso non visibile, non spettacolare, preferisco l'idea della crescita silenziosa di un corpo estraneo alla visibilità che ti rende ostaggio dell'universo mediatico.


Sul discorso che facevamo prima direi che è un problema di ricomposizione, non di conflitto: dunque, il percorso politico in quanto riesce a ricomporre.


Sì, di coesione. E devo dire che tenere insieme e gestire le due cose quella sì è la politica: su quello non si è riusciti. Sono stati sostanzialmente trent'anni di esperimenti, diciamoci la verità. Siamo riusciti a portare a compimento questa cosa della Fiat nel '69, che ha dato un indirizzo diverso ai destini del paese nel decennio successivo e se uno ci pensa dice "diamine, riesci a portare a compimento una cosa così, però non riesci a governarla". E se ci pensi non avevi nemmeno gli strumenti per governarla (o forse non volevi governarla) perché quello che avevi elaborato erano i lineamenti di una scienza della dinamica della lotta operaia, che ti metteva in grado di fare da detonatore, ma non avevi una teoria o una conoscenza del governo di un movimento di classe. In quel senso lì è stata una scienza dell'esplosione, che rifiutava di esser anche scienza di un governo delle lotte (meno comunista di così si muore).

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