>Home >Interviste
>Home page
>Interviste
>Riviste
>Bibliografia
>Il dibattito oggi
>Ricerca sul femminismo

> Percorso di formazione politica e culturale e figure di riferimento
(pag. 1)

> Limiti e ricchezze, nodi aperti
(pag. 7)

> I "numi tutelari"
(pag. 9)

> Il "poligono" dell'operaismo
(pag. 9)

> Gaspare De Caro
(pag. 9)

> Il nodo della cultura
(pag. 10)

> Formazione di un'intellettualità di massa
(pag. 11)

> La politica e il politico
(pag. 12)

> Irreversibilità dei rapporti di forza?
(pag. 14)

> Dimensione internazionale dell'operaismo
(pag. 15)

> L'attuale situazione politica in Germania
(pag. 15)
INTERVISTA A SERGIO BOLOGNA - 21 FEBBRAIO 2001


Il tema della "passività operaia" per esempio, nessuno l'ha sviluppato come noi. Nella cultura comunista esso è legato all'idea dell'opportunismo servile, dell'acquiescenza, del tradimento. Per noi i periodi di "passività operaia" erano perfettamente integrati nei periodi di conflitto, di cui ne rappresentavano una premessa. Ora, questo apprezzamento, questa comprensione verso la "passività operaia" non si spiega se non dentro una visione del corpo sociale che attribuisce ad esso un'intelligenza collettiva. Questa intelligenza è muta, oppure si manifesta con segni criptici, per capire come porsi al suo stesso livello occorre appunto lo sforzo della "conricerca", la costante dimestichezza coi problemi della fabbrica, la conoscenza dell'ambiente, soprattutto di quello tecnologico, la conoscenza dei sistemi disciplinari, la conoscenza o la comprensione dei linguaggi informali, dei metalinguaggi, la conoscenza della storia. Una volta trovata la lunghezza d'onda giusta, stabilito un livello di comunicazione accettabile, si può partire. Per dove? Per iniziare tutto il lavoro di forecasting delle dinamiche interne, una volta conosciutene le leggi non scritte. Perché? Perché il tuo ruolo deve essere quello dell'anticipatore, ma non nel senso tradizionale della "guida", del "venitemi dietro", quindi dell'avanguardia comunista, ma quello del detonatore e, subito dopo, del comunicatore, di chi socializza la lotta, la traduce in immagine, ne rappresenta il senso. E' il momento dell'autonomia della tua azione e della tua parola dal movimento reale. Quindi sono tre momenti, il primo nel quale si sta "incollati" al soggetto collettivo, se ne sviscerano tutti i segreti, se ne mettono a nudo tutte le risorse, il secondo in cui si studia il momento di piazzare il detonatore, il terzo il momento della rappresentazione del conflitto e della sua socializzazione, in modo che contagi il resto della società, che sedimenti qualcosa prima di essere bruciato o sconfitto, in modo che deponga, si direbbe oggi, un "valore aggiunto" che viene incorporato dalla società, metabolizzato. E' una dinamica di accumulazione, si potrebbe dire. Non si può dire che ci sia una "direzione intellettuale", è una dinamica tutta diversa. Si può dire invece che si sviluppa "una tecnica". Alla figura dell'intellettuale (o dell'agitatore) che per me sa tanto di egocentrismo e di ciarlataneria, ho sempre contrapposto - desiderando esserlo - la figura del tecnico. Forse non è mai stato notato ma l'operaismo, oltre che una teoria, ha sviluppato una tecnica o delle tecniche (la "conricerca" è una di queste). In questo senso a me pare che noi siamo stati degli intellettuali più moderni dell'agitatore ottocentesco, che oggi ancora, tra l'altro, imperversa. Basta guardare lo stile, il tratto di alcuni leader no-global. E la tecnica, se è di alta classe, richiede conoscenze sofisticate, non speranze o entusiasmi, richiede sudore e rimboccarsi di maniche, applicazione, tenacia, precisione. Un facilone, uno dalla parola facile e dal linguaggio difficile, non può essere un operaista.
Altra cosa quando il conflitto si dispiega e si riproduce per inerzia, diventa rituale. E' il caso degli Anni '70. Quando diventa un modo di giustificare la propria esistenza. In quel caso lì l'operaista deve per forza essere selettivo, andare controcorrente, quasi remare contro. Da un lato. Dall'altro deve misurarsi con la complessità e la ricchezza del movimento, quando scopre che non è solo la classe operaia a inventare la politica e la ribellione ma sono mille altri soggetti. Deve a questo punto scegliere: o fossilizzarsi in un'ideologia, cioè indossare una divisa che lo distingua dagli altri, restando vittima della logica gruppuscolare, oppure lasciarsi travolgere e invadere da quel che gli succede attorno, far ricorso solo alla propria tecnica per trovare, elaborare e consegnare agli altri "un senso" di quello che fanno. Anche questo procedimento non può essere chiamato "direzione intellettuale". Ripeto, è la tecnica che rende l'operaismo forte, duro a morire, resistente di fronte al cambio di stagioni politiche, sociali, storiche - non è l'ideologia. E la teoria operaista senza la tecnica non è nulla. Gli Anni '70 quindi vanno sempre valutati per quel che hanno dato di straordinario e di unico nella storia italiana ed europea e per quel che hanno prodotto di ciarpame, di scimmiottatura della politica. Ma poiché le dottrine politiche sono fatte da uomini, non dimentichiamo neppure che gli uomini e le donne "operaisti" non hanno sempre brillato di virtù. Ci sono gli operaisti che hanno messo il vestito in naftalina appena una sezione del PCI ha loro aperto uno spiraglio d'ingresso e gli operaisti che si sono sputtanati scambiando per azione rivoluzionaria tanta spazzatura degli Anni '70.

1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16

Per informazioni scrivere a:
conricerca@hotmail.com

.