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INTERVISTA A SERGIO BOLOGNA - 21 FEBBRAIO 2001 |
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Questa è stata la cosa unica nella formazione di un certo tipo di sapere altro che è avvenuto grosso modo in Italia e poi ha avuto delle sfaccettature a livello internazionale, comunque è stato questo il livello di ricchezza: un movimento che faceva la richiesta di elaborazione e di teoria politica e nello stesso tempo c'era un ritorno dall'alto. Ciò ha fatto sì che si formasse una vasto quadro intellettuale legato soprattutto al costruire una teoria e una prassi per il movimento, laddove era un discorso di costruire la teoria per le lotte. Poi lì c'è stato ovviamente un uso dell'università ma come c'è stato un uso anche di altri ambiti, anche di parte del sindacato. Finiti e soffocati quelli che erano i livelli di conflittualità si è poi di nuovo rotta questa circolarità, per cui se si vuole in quel periodo l'università era una forma di costruzione di un qualcosa d'altro, per cui è vero che Scienze Politiche ha avuto un peso determinante ed è stata poi attaccata, e in generale è stato così anche da altre parti, ad esempio a Torino Scienze Politiche, in una dimensione diversa, ha rappresentato un momento grosso di elaborazione. Questa dimensione si è chiusa con la caduta delle lotte. L'altro nodo molto importante è quello della dimensione politica: tu hai fatto giustamente tutta una serie di critiche alle forme dei gruppi extraparlamentari e ad un certo modo di vedere la politica, che individuerei sempre come politica di gestione. La politica può infatti essere due cose: da una parte la capacità di mettere in piedi degli strumenti che producono trasformazione sociale che effettivamente si realizza, dall'altra parte la politica come forma di gestione, che poi può essere di gestione istituzionale nel senso di come la viviamo adesso, può essere di gestione di qualche istituzione altra, che potrebbe essere il discorso di una forma partito, di una forma organizzativa che comunque sovradetermina un rapporto dialettico tra costruzione di movimento e costruzione di un ambito più alto. Nel discorso che tu facevi mi sembra che venisse fuori questa cosa, nel senso che c'è stata una soggettività che ha saputo costruire, anche se in maniera alternata, in alcuni momenti in modo più forte e in altri con debolezze maggiori, una politica come capacità di dare a uno sviluppo di conflitto sociale spontaneo una direzione politica, e in alcuni momenti intervenendo e ribaltando gli esiti di un conflitto: era come quando tu dicevi che nel '68 siete intervenuti portando una certa posizione, in altri momenti la si trova diverse volte questa cosa. Nefasta è stata poi l'ultima forzatura, quella sulla lotta armata, ma lì c'era già un cortocircuito, nel senso che un certo agire politico non dava più dei risultati perché comunque all'interno di un livello di scontro di classe c'era un'incapacità affinché le lotte avessero ancora quel peso politico che avevano in un periodo precedente: allora c'è stata la "furbizia" di una sovradeterminazione della lotta armata che pareva che nell'immediato portasse dei risultati e poi invece nella realtà destabilizzava più che destrutturare. Dunque, lì è stato il cortocircuito poi risultato nefasto, però in altri momenti un determinato agire politico ha dato dei risultati. E' quindi questo l'elemento di riflessione che si potrebbe fare sulla politica: come un momento di gestione ha un senso in quanto necessità di governare la dimensione o istituzionale o capitalistica o anche la dimensione del partito "staccato" dalla realtà sociale e che la sovradetermina; dall'altra invece la politica come elemento di trasformazione, cioè come capacità di dare una propulsione e una dimensione di indirizzo forte ad un discorso di conflitto. Dipende dunque da quale dimensione si riesce a far prevalere. Da sempre c'è una lettura dei conflitti di classe, poi è venuto fuori il discorso di fare la storia dell'altro movimento operaio, che tante volte è stata fatta più sul conflitto spontaneo che su questa capacità di muovere le due cose.
C'è anche da dire che io, forse contrariamente a voi, vedo invece una debolezza in queste formule organizzative proprio per l'esaltazione del conflitto: cioè, veramente noi dovevamo creare conflitto o dovevamo creare invece coesione? E' quello che dicevo prima, se avessimo continuato a lavorare ovunque come abbiamo lavorato ad esempio a San Donato, creare realtà territoriali, realtà di fabbrica che diventavano sostanzialmente egemoni, avessimo fatto più che mille fuochi mille realtà alternative invece di puntare sempre ai conflitti, non avremmo prodotto qualcosa di diverso, ma avremmo fatto qualcosa che nel momento in cui si decideva davvero di fare un conflitto mettendo insieme tutte queste cose si riusciva a dare una botta più grossa. Io ho vissuto questo provare e riprovare a provocare conflitto, questa ricerca costante del conflitto, come una pratica abbastanza defatigante, una pratica in cui ogni volta dovevi dire se avevi vinto o se avevi perso, una coazione a ripetere. A parte il fatto che il conflitto poi era delegato ad altri. Torniamo un attimo indietro. Negli anni '60 - la conricerca, secondo me, è funzionale a quanto dirò - eravamo convinti che dentro il corpo della classe operaia ci fosse già intera la conoscenza della liberazione, la sapienza della solidarietà, della coesione, della ribellione. Eravamo convinti che nel patrimonio genetico della classe operaia ci fosse il conflitto come forma d'identità sociale, ma ci fosse anche una memoria delle dure sconfitte e quindi una, come dire, "prudenza" che andava rispettata.
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