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INTERVISTA A ROMANO ALQUATI - DICEMBRE 2000


Il mio Corso di "sociologia industriale" era rivolto soprattutto ai nuovi studenti lavoratori e faceva appello alla loro esperienza lavorativa e riproduttiva per studiare e rappresentare le grandi trasformazioni che stava mostrando il sistema e la società industriale italiana, evidenziandone anche certe dimensioni politiche. Fare incontrare le loro esperienze con la teoria anticapitalistica per farle crescere insieme. Questo fra l'altro attrasse anche ricercatori e docenti da altre sedi e regioni, più o meno militanti dei nuovi partitini, cui prestavo una specie di consulenza esterna di metodo e di merito, cosicché facevo un poco di conricerca diretta e indiretta a Torino, e poi un'inchiesta-continua indiretta e diffusa su vari nodi italiani; ma anche esteri: venivano spesso soprattutto sociologi francesi e tedeschi. Finché quelli dei vari partitini armati non fecero terra-bruciata.
Continuai a lavorare così nell'Università per mio conto, poi pur ritrovandomi in un progressivo isolamento. Finché negli anni '80 mi trovai chiuso in un piccolo ghetto, ed allora provai ad aprirmi un poco ai centri sociali, ecc. Ne ho ricavato solo la pubblicazione fuori da ogni rete commerciale di una mezza dozzina di libretti. Nel 2000 ho scritto una nuova versione del mio Modellone nelle mie nuove "Dispense", intitolate "Nella società industriale d'oggi", che non mi sembra proprio male. Presto andrò in pensione.


Proprio tu continui ad insistere ed anche a recriminare sulla questione della soggettività e della soggettività collettiva e della soggettività-operaia e d'altra parte batti ancora sulla soggettività-politica e parli tuttora di contro-soggettività ecc.; d'altronde vediamo che pure persone riflessive ed autocritiche sono ancora sorprese e nell'intervista prorompono dicendo: "soggettività che cosa? ma cos'è poi?". Puoi ri-prendere qualcosa di questo?

Per me questa è sempre stata una questione centrale. Alla quale ho sempre tenuto molto e per la quale in passato mi sono sentito sempre più frustrato e deluso dei miei "compagni". Non ho mai creduto che fosse un grande nodo facile, ed anche ora per comunicare un poco ho l'impressione di doverne trattare a lungo. E' una delle questioni più complesse, oltre che difficili. Il fatto che fu sempre ignorata negli anni '60 e '70 anche da quasi tutti i miei amici "compagni" operaisti mi rivela già tutto un grande semplicismo, una grande e davvero eccessiva semplificazione, piuttosto nella tradizione oggettivante ed economicistica del socialcomunismo storico, almeno a partire da Marx. Dirò magari dell'altro dopo, a riguardo anche dell'altra grande questione e grande nodo restato sullo sfondo: della questione dell'operaità. Adesso e preliminarmente due parole sulla soggettività, allora.
Per quel che mi ricordo, credo di averne sentita per la prima volta la parola da Paolo Caruso e poi da Renato Rozzi. Forse nel '56-'57. Il contesto immediato era allora quello di Enzo Paci e certi suoi allievi, e meno immediatamente della fenomenologia e dell'esistenzialismo, ed un poco della psicanalisi. Da Heidegger a Freud magari passando per le prime chiacchierate su Lacan, Bataille e Merlau-Ponty (nel '59 ero andato in montagna con "La fenomenologia della percezione" nello zaino), ed il primo Sartre sul quale si è laureato Paolo, e la sua problematizzazione dell'intersoggettività. Si tratta a questo troppo alto livello di questioni ontologiche, in cui non solo la fenomenologia ma anche Freud, in specie l'ultimo Freud, procedono radicalmente in questa prospettiva ontologica, ed in cui si cercava soprattutto di dare senso al primo (rimasto l'unico) volume di "Essere e tempo", che pareva sprofondasse parecchio nel niente. Pure in questa radicalità antimetafisica ed antiscientifica, contro il cogito cartesiano e il rapporto soggetto-oggetto (entrambi però ineliminabili) e l'idealismo\realismo; cogito e contrapposizione soggetto-oggetto che per noi erano (e sono) in giuoco pure come base della scienza galileiana, della tecno-scienza, condivisi assai dallo stesso scientismo marxista. Per me derivava da questi discorsi un senso forte di disagio ed apprensione, ma anche di speranza. Perché d'altronde io non solo volevo capire di più dei limiti e pregi della tecno-scienza come mezzo, e poi pure feticcio, ecc.; ma volevo ad esempio capire di più dell'ambivalenza che malgrado tutto sentivo nel "comunismo scientifico" di Marx e nella sua "rottura epistemologica", e poi anche dei bolscevichi. Però, qui fra i più radicali si volava troppo in alto... Rispetto al nostro voler costruire macchine contro, al medio raggio. Questa filosofia con la sua soggettività astratta, con la sua metafisica che in certe dimensioni pareva inadeguata, ci serviva poco. Magari la più radicale poteva stimolare un certo orientamento critico, ma le vie di mezzo a chi voleva cambiare il mondo offrivano allora quasi solo entità astratte ed irreali.

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