AUTONOMIA PROLETARIA*

di Enzo Modugno

Critica della politica

Il problema è quello del nesso che si stabilisce tra gli uomini nel modo di produzione capitalistico, nel quale si presentano come individui isolati, in seguito alla dissoluzione delle forme sociali feudali e allo sviluppo delle nuove forze produttive. Questo individuo isolato (1) è il nocciolo della questione.
Come si collega, come entra in società?
L'alternarsi di «organizzazione autonoma» e «partito» (2) ha qui le sue radici: i proletari per lottare hanno bisogno di unirsi e questa unificazione può avvenire (è avvenuta e avviene) in due modi: 1) alla base direttamente, con collegamenti immediati che essi determinano e controllano; oppure 2) indirettamente, con una mediazione esterna.
È necessario sottolineare che sono due forme storiche di volta in volta effettivamente operanti: la loro analisi critica non consente polemiche 'ingenue' tra sostenitori della spontaneità e sostenitori del partito; né fa un passo avanti chi tenta di combinare le due cose.
È una ingenuità infatti credere che queste forme dipendano dalla buona o cattiva volontà degli uomini e che non abbiano, tutte e due, radici profonde nel modo di produzione.
Il punto di vista dei sostenitori del partito-mediatore esterno poggia interamente sul presupposto che i proletari siano, per predisposizione naturale, isolati, incapaci di unificazione; per unificarli, per farli entrare nella storia, diventa dunque necessario un intervento che venga dal di fuori, portatore della scienza, della teoria, del progetto politico.
Discendenza giacobina dei profeti del XVIII secolo, pensano come loro che l'individuo isolato sia un dato naturale, il punto di partenza. Marx invece ha mostrato che è un risultato storico: «Quanto più risaliamo indietro nella storia, tanto più [...] l'individuo che produce ci appare non autonomo, parte di un insieme più grande » (3). Solo nella società borghese si presenta come individuo isolato, solo in questa società riesce ad isolarsi.
La ragione è nota: i caratteri sociali del lavoro si oggettivano nei prodotti, appaiono come proprietà sociali delle merci, e il rapporto sociale tra i produttori appare come rapporto sociale fra le merci, esistente al di fuori dei produttori. Dunque non è che i produttori isolati non vivano in società: è solo che questa società, questo nesso che li lega, si presenta come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro.
La relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra le cose. Insomma è questo tipo di unità, di nesso sodale, che genera l'isolamento.
È importante tener fermo questo nesso sociale reificato creato dalla produzione di merci, perché il nesso creato dallo Stato moderno e quello creato dal partito sono la stessa cosa. Ma questo tipo di unità reificata che genera l'isolamento genera anche il suo contrario: l'unificazione diretta. Marx descrive anche questa: «Nella società così com'è troviamo già occultate le condizioni per una società senza classi»: per esempio, la divisione del lavoro genera l'agglomerazione, la cooperazione, gli interessi di classe; e i conflitti fra singoli operai e singoli borghesi sempre più assumono il carattere di conflitti tra due classi.
«È così che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali. Qua è là la lotta diventa sommossa. Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l'unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse. Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto un uguale carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. E l'unione per raggiungere la quale ai borghigiani del Medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni» (4).
Tuttavia questo processo di unificazione diretta non è lineare, procede per fasi alterne. Infatti questa organizzazione degli operai in classe, se è vero che risorge sempre di nuovo più forte, più salda, più potente, è anche vero che «viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno tra loro stessi» (5) sul mercato come possessori della forza-lavoro.
Ecco come il modo di produzione, la produzione di merci, genera sempre di nuovo l'operaio isolato: perché fa valere sempre di nuovo il nesso oggettivo, il mercato. Si riproduce l'isolamento ma questa volta ad un grado diverso, con ulteriori determinazioni.
Ora, la nascita del sindacato nazionale, del partito operaio nazionale, affonda qui le sue radici, trova qui la sua necessità storica, in questo rinnovarsi dell'isolamento. Ma la loro esistenza sarà contraddittoria perché l'isolamento operaio, come abbiamo visto, sempre di nuovo genera il suo contrario, l'unificazione immediata, la fusione, e così via.
Il partito e il sindacato - nel senso di unificazione esterna, indiretta - poggiano interamente sulla momentanea incapacità di unificazione diretta, non mediata, degli operai; così che quando questa tornerà a manifestarsi troverà una situazione mutata, troverà la corposa presenza di queste istituzioni ormai in posizione antagonistica. Sorte per unificare la classe, finiranno con l'impedire ogni altra specie di unificazione che non sia la loro.
Soviet, consigli, comitati d'azione e altre forme di autonomia operaia in questi ultimi anni hanno avuto vita difficile, più che per loro debolezza interna per il fatto che partiti e sindacati (ai quali bisogna aggiungere quei gruppi che aspirano a prenderne il posto) hanno sistematicamente, e con tutte le loro forze, tentato di negarli o di riassorbirli, in una partita che giustamente consideravano mortale. Le difficoltà dell'autonomia del movimento dunque non possono essere attribuite all'incapacità, di cui questo soffrirebbe, di superare il localismo, il corporativismo, il ribellismo, ecc. Non è così e lo abbiamo visto. Non solo: ormai è necessario verificare la stessa "necessità storica" del partito e del sindacato, che appunto corrisponde ad un determinato grado di evoluzione del proletariato. Dunque anche il loro superamento è una necessità storica che non si può fare a meno di cogliere se si ripercorre lo sviluppo della lotta di classe.
Le prime associazioni operaie locali, legate ai mestieri, hanno da poco sostituito le corporazioni medioevali: e tuttavia in esse la parola è ai protagonisti, l'operaio si presenta in tutta la sua pienezza; ma solo perché non ha realizzato l'universalità e l'organicità della lotta di classe, e perché questa universalità - si può dire, parafrasando Marx - egli non se l'è ancora contrapposta come una forza indipendente da lui, come una organizzazione nazionale dove non ha più diritto di parola. Certo il collegamento nazionale è preferibile alla mancanza di collegamento, o a un collegamento soltanto locale fondato su solidarietà di mestiere, ecc. D'altra parte non è possibile subordinare questi collegamenti più ampi prima di averli creati. Ma non è nemmeno possibile pensare che questo tipo di collegamento, di universalità, sia l'unica possibilità di unificazione. Infatti, l'estraneità dell'operaio alla sua organizzazione dimostra che egli sta ancora creando le forme della lotta, e che non sta lottando a partire da queste forme. L'associazione locale, di mestiere, è un collegamento che corrisponde a una fase del capitalismo. L'ulteriore sviluppo produce, insieme al collegamento più ampio, anche l'estraneità dell'operaio (non ha più la parola); però produce anche l'universalità e l'organicità dei suoi collegamenti. Guardare indietro alla pienezza delle prime associazioni operaie è un punto di vista romantico. Ma d'altra parte è ridicolo credere che quel completo svuotamento che è l'organizzazione nazionale di oggi sia la forma finalmente scoperta di collegamento.
Gli operai i cui collegamenti, in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro comune controllo, sono operai di una fase storica più sviluppata. È questa fase che ci sta dinanzi. Ma a questo, cioè al di là dell'attacco a quel punto di vista romantico, il partito non è mai pervenuto, perché la sua struttura non gli permette di vedere oltre.
Dunque se il partito presuppone l'interesse di classe, comune a tutti gli operai, presuppone al tempo stesso l'operaio isolato, e presuppone non solo la dissoluzione delle prime associazioni locali, ecc., ma lo scacco delle grandi lotte autonome di oggi, la mancanza o l'interruzione dei collegamenti diretti ecc..
Per cui il partito si presenta ai singoli operai come un rapporto esterno, indipendente da loro; che media l'unità dei singoli operai tra loro scollegati. Ed è una mediazione che «presenta facilmente i conti della sua operatività storica reale» ha scritto Rossana Rossanda. L'alterno declinare dell'unificazione diretta, come abbiamo visto, rende possibile questa unificazione mediata.
I proletari cioè in questa fase ripongono nel partito e nel sindacato quella fiducia che non sono più disposti a riporre in se stessi, nelle lotte autonome, autogestite, ecc. (6).
Ma perché i proletari hanno fiducia nel partito?
Evidentemente solo perché il partito è volontà proletaria reificata; solo perché i proletari hanno alienato la loro volontà, i loro collegamenti, la direzione delle loro lotte ad una élite che ha avuto la capacità e i mezzi di rappresentare, di oggettivare, di cristallizzare la volontà proletaria.
Questo trasferimento ad altri però è irto di contraddizioni. È stato scritto nel 1762, ma era noto anche prima che la volontà non può essere alienata, non si rappresenta: o è quella stessa, o è un'altra; non c'è via di mezzo. Eppure, a dispetto di Rousseau, è quello che avviene tutti i giorni nello Stato moderno e dunque anche nel partito operaio e nel sindacato: la volontà diventa altra.
Proprio come il lavoro umano che non può essere rappresentato in una cosa, perché appena ciò si verifica l'uomo perde le sue qualità sociali a favore della cosa che diventa merce, si distacca dal suo produttore, cade in mano ad altri; e diventa possibile lo sfruttamento; così nel nostro caso la volontà operaia non può essere rappresentata da una istituzione esterna, perché appena ciò si verifica l'operaio non conta più come tale ma solo come membro dell'istituzione la quale soltanto diventa il vero soggetto, la sede della «iniziativa rivoluzionaria», e l'operaio è ridotto a sua appendice.
Così la volontà operaia si cristallizza, cade in mano ad altri, finisce per contrapporsi agli operai. Ma se in tutto questo c'è una «radice idealistica» (7), bisogna aggiungere che è lo stesso "idealismo" della merce e dello Stato, non l'"errore" di qualche hegeliano.
Questa necessità di trasformare la loro unità nella forma del partito, se dimostra da un lato che gli operai per lottare hanno bisogno di unirsi, dimostra dall'altro che questa unità non si è realizzata immediatamente. Gli operai si inseriscono in una unificazione realizzata da altri invece di deciderne e controllarne l'andamento. È una unificazione fuori di loro, sotto la quale vengono sussunti, che non creano essi stessi ma che trovano bell'e fatta.
E se è vero che vi si inseriscono con autonoma decisione, è anche vero che in quel momento non hanno alternativa: insomma decidono ciò che sono socialmente costretti a decidere. La dissoluzione o l'impossibilità dell'unificazione diretta li rende liberi di accettare questi rappresentanti.
Hanno torto gli alchimisti, le due unificazioni sono alternative, il mediatore esterno non potrà che porsi come soggetto e farà della classe un suo predicato, è una pura ingenuità pensare che i proletari possano tenere il controllo di una unificazione fatta da altri.
Non c'è collegamento diretto tra un proletario e l'altro, non sono legati tra loro, ma ciascuno è legato all'istituzione e attraverso questa si collegano.
Insomma rimangono isolati, ancora una volta. Ecco perché l'operaio isolato non è soltanto il punto di partenza del partito ma anche il suo risultato storico. Il partito (8), come lo Stato e come il capitale, riproduce così di continuo le condizioni della sua esistenza.
In un senso più ampio questo isolamento è il grande risultato storico della produzione di merci e dello Stato moderno, il «lato magnifico» dice Marx: questa connessione, questa unificazione reificata, esterna, indipendente dalla volontà e dalla consapevolezza dei singoli, che tuttavia funziona, è reale, assicura l'universalità dei collegamenti.
Questa unificazione alienata, esterna, è certo preferibile alla mancanza di unificazione. Ma è anche insulso pensare questa unificazione esterna come la sola possibile, inscindibile dalla condizione dell'operaio perché questo sarebbe capace solo di rivendicazioni economiche, isolate, corporative, ecc.
Questo punto di vista non tiene conto, da un lato, delle «ferrovie» di cui parlava Marx. Dall'altro non tiene conto della natura della mediazione esterna, che è una unificazione che si tramuta di continuo in isolamento, che è volontà operaia che si cristallizza, si separa, cade in mano ad altri e finisce col contrapporsi come cosa indipendente e avente esistenza al di fuori, indipendentemente dall'operaio cui apparteneva. Sono anche qui, in questo tipo di isolamento, le ragioni della spinta operaia all'autonomia, dei continui tentativi di una diversa unificazione, diretta, immediata.
Questo punto di vista crede che l'unificazione, la rappresentanza, la strategia, il progetto politico, la presa del potere praticati da un partito, siano la realizzazione operaia di queste cose; ma che poi sono state adulterate dalla degenerazione, dalla burocrazia, dagli errori, dai tradimenti, dal revisionismo, ecc.. O anche che, certo, i partiti sinora hanno fallito i tentativi di realizzarle nella loro forma veramente operaia, ma che ora, con in pugno la vera dottrina, sarà finalmente possibile.
A costoro va risposto che il partito - nel senso di unificazione esterna - è effettivamente la realizzazione della rappresentanza, della unificazione, della strategia, della presa del potere, e che quegli elementi di degenerazione che compaiono a distorcerne la natura «operaia» sono degenerazioni immanenti al partito, alla mediazione esterna, e appunto la realizzazione della presa del potere, della rappresentanza e dell'unificazione che si mostrano come potere di Stato, burocrazia, isolamento.
È desiderio tanto pio quanto sciocco che la rappresentanza non si sviluppi in burocrazia o che l'unificazione alienata non si risolva in isolamento.
Questo punto di vista, che va alla riscoperta della purezza del partito, non vede o dimentica la storia, ed è condannato a ripeterla.

2.

Se volessimo identificare dopo il 1850 i cicli di lotta e di apprendimento descritti da Vester (9) fino a quella data, dovremmo tener conto, da un lato, dell'affermarsi delle grandi organizzazioni del proletariato - partiti e sindacati - che hanno dato all'alternarsi di quei cicli una svolta istituzionale; dall'altro, del continuo riaffermarsi dei grandi movimenti di massa autonomi, al di fuori o in alternativa a quelle organizzazioni (10).
La storia del proletariato si mostra così come un intreccio 1) di organizzazione autonoma e 2) di organizzazione sindacale e di partito.
Queste due forme di unificazione poi, la loro storia, le leggi del loro alternarsi sono così strettamente legate alle vicende dello Stato politico e della società civile che non si vede come sia possibile analisi che non le consideri tutte.
Dunque la storia del proletariato non può essere intesa come storia delle sue istituzioni (11) e delle relative ideologie e strategie, né come storia dei soli momenti alti, dei grandi movimenti spontanei.
È necessario risalire all'ambiguità dello Stato moderno, alle sue contraddizioni: sono queste che puntualmente si riflettono nella storia del proletariato e delle sue istituzioni. L'intreccio di queste due storie, di quella delle masse e di quella dei comitati centrali, di queste due forme di unificazione cioè, lo si può cogliere criticamente solo nel contesto più generale di una analisi del modo di produzione capitalistico.
Così questi problemi di storia del proletariato ne coinvolgono altri, e rinviano tutti all'analisi degli istituti fondamentali del mondo moderno e dunque alla marxiana critica della politica e dell'economia politica, che dovrà costituire perciò l'asse dell'indagine.
Scrive Marx nel 1875, che in una «società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro incorporato nei prodotti appare come valore di questi prodotti, come una proprietà oggettiva da essi posseduta, perché ora, in contrapposto alla società capitalistica, non è più indirettamente ma direttamente che i lavori individuali diventano parte integrante del lavoro della comunità» (12).
In realtà tutta l'opera di Marx, può essere vista come l'analisi di questo processo indiretto attraverso il quale, nel modo di produzione capitalistico, i lavori individuali diventano lavoro sociale. E dunque come il lavoro individuale, attraverso trasformazioni successive, in un processo che l'economia politica classica non riusciva a vedere, si trasformi fino ad emergere alla superficie nelle categorie del prezzo di mercato, del profitto, ecc.
Che ruolo abbia la politica in questo processo indiretto, che ruolo svolgano lo Stato e il diritto, Marx lo ha accennato in innumerevoli passi.
La ricostruzione della critica marxiana della politica e del diritto, nodo centrale sia per quanto riguarda lo studio del capitalismo sia per quanto riguarda la transizione dal capitalismo ad un'altra società, è ormai un problema che richiede soluzione e lo dimostra la ripresa degli studi in questa direzione. Naturalmente l'organizzazione del proletariato, come vedremo, non sfugge a questa critica della politica, soprattutto dopo l'affermarsi dei grandi partiti e dei sindacati nazionali: le descrizioni che ne ha fatto la sociologia, da Roberto Michels (13) in poi, non sono di grande aiuto. Ci sono buone ragioni dunque per questa ripresa, anche se finora sono stati troppo trascurati a questo fine gli scritti di critica dell'economia politica che Marx riprese a partire dal 1857.
Certo alla luce di questi, che culmineranno con la pubblicazione del primo volume del Capitale e che continueranno, non sappiamo con quale intensità per via degli inediti (14), fino alla morte, diventa molto discutibile una separazione, sia pure per comodità di lavoro, della critica dell'economia da quella della politica e del diritto; in questi scritti quasi ad ogni pagina ci sono elementi di "politica". Se Marx privilegia la struttura economica della società, ciò non è dovuto al fatto che Marx sia un «economista», né al fatto che il modo di produzione della vita materiale è la condizione del processo vitale sociale, politico, intellettuale, ecc.: siccome ciò vale per tutte le epoche, non ci direbbe ancora nulla sul perché di questa scelta fatta a proposito della società borghese. La ragione sta invece nel fatto che proprio il modo di produzione della vita materiale spiega perché nella società borghese la parte principale è rappresentata dall'economia, così come è sempre il modo di produrre che spiega perché nel mondo antico la parte principale era rappresentata dalla politica e nel Medioevo era rappresentata dal cattolicesimo (15).
Nella società borghese insomma, la produzione precede la comunità, vi sono rapporti sociali tra le cose e rapporti di cose tra gli uomini, e chi vuole analizzare questa società deve analizzare questi rapporti. Infatti ora non ci sono più rapporti di dipendenza personale, il lavoratore è libero dagli antichi vincoli di clientela, di servitù, di prestazione, perché lo scambio «rende superfluo il gregarismo e lo dissolve» (16). I legami dovevano essere organizzati su base politica, religiosa, ecc. fin quando il potere del denaro non era ancora diventato il nexus rerum et hominum.
Ora invece l'unico nexus è il denaro e il lavoratore è libero. Ma è una libertà duplice, perché il lavoratore libero da quegli antichi rapporti è anche libero da ogni avere, da ogni forma di esistenza oggettiva, da ogni proprietà. È libero, privo delle condizioni oggettive, dei mezzi di sussistenza, dello strumento di lavoro, che una volta, d'une manière ou d'une autre (17) dice Marx, nel bene e nel male, erano proprietà delle masse. Con la conseguenza di grande importanza che «la cosa che gli si contrappone è ora diventata la vera comunità che egli cerca di far sua e dalla quale invece viene ingoiato» (18).
Dunque sembra questa la ragione per cui Marx, invece di un trattato sullo Stato, ci ha lasciato la critica dell'economia politica. La critica di Marx, insomma, scopre la primarietà dei rapporti socio-economici su quelli politico-giuridici: se si affrontassero solo questi ultimi, saremmo costretti, per spiegarli, a uscir fuori dalla loro dimensione. Già Rousseau d'altra parte aveva intuito (19) che un popolo è un popolo prima di darsi a un re.
Marx mostra in modo definitivo che volontà, libertà e uguaglianza, che sono i pilastri di tutto il pensiero politico moderno, presuppongono rapporti di produzione borghesi ed hanno come base il valore di scambio.
«Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettati nello scambio basato sui valori di scambio», scrive Marx nei Grundrisse, ma questo scambio «è anzi la base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà. Come idee pure esse ne sono soltanto le espressioni idealizzate; e in quanto si sviluppano in rapporti giuridici, politici e sociali, esse sono soltanto questa base ad una diversa potenza» (20). L'uguaglianza si pone materialmente, esiste espressamente in forma oggettiva, un lavoratore o un re, dice Marx, che acquistino la stessa merce, sono completamente uguali, qualsiasi differenza tra loro è cancellata perché tutti e due si presentano come possessori di denaro. A sua volta il venditore si presenta soltanto come il possessore di una merce che corrisponde al denaro dei compratori. D'altra parte si tratta di una transazione volontaria, l'individuo agisce in piena libertà, non c'è nessuna violenza; o meglio, se violenza c'è, questa non viene dall'esterno, ma dall'interesse che l'individuo ha a soddisfare i suoi bisogni. In questo senso volontà è uguale a interesse.
È dunque qui nella circolazione, nei rapporti di denaro, la base dei rapporti giuridico-politici della società borghese. Ed è qui, nella circolazione, che «cerca scampo la democrazia borghese» (21), cioè in questo processo di superficie dove tutte le antitesi immanenti appaiono cancellate, dove i vincoli di dipendenza personale sono spezzati, dove non ci sono più differenze di sangue, di educazione, ecc., dove gli individui scambiano come persone libere e indipendenti.
Questa sfera insomma «seduce la democrazia» (22), ma non solo quella «borghese»; «viene in luce - scrive Marx - l'inettitudine dei socialisti (soprattutto dei francesi, che pretendono di additare il socialismo come realizzazione delle idee della società borghese espresse dalla rivoluzione francese), i quali dimostrano che lo scambio, il valore di scambio ecc., sono originariamente (ossia nel tempo) o concettualmente (ossia nella forma adeguata) un sistema della libertà e uguaglianza di tutti, ma sono stati poi adulterati dal denaro, dal capitale ecc.» (23).
Questa «inettitudine dei socialisti» accompagnerà la società borghese sino alla sua fine. Dopo Proudhon si è ripresentata. Da un lato i socialdemocratici che hanno preteso ricavare dai principi liberali tradizionali una problematica socialista: Bernstein, Laski, Strachey, che con Locke e Kant in tasca si sono assunti il compito superfluo, direbbe Marx, di volere realizzare la libertà e l'uguaglianza, cioè l'espressione ideale della società borghese, «ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa realtà» (24). Vede questa «inettitudine» Solari che scrive: «Illogici sono quelli che in favore del quarto stato invocano i principi individualisti dello stato di diritto, dando ad essi una estensione e un significato che certamente non comportano» (25).
D'altra parte questo punto di vista riaffiora, anche se in un altro contesto, in coloro che ritengono che lo Stato sia uno Stato di classe perché non realizzerebbe le affermazioni contenute nelle dichiarazioni dei diritti, che sarebbero dunque nient'altro che un «inganno». Quindi allo «Stato socialista» spetterebbe il compito di attuare quei diritti che lo Stato borghese userebbe solo come facciata. Questo punto di vista ricorda ancora Proudhon quando afferma che «la proprietà è un furto»: in realtà se è vero che sempre il capitalista cerca di pagare la forza-lavoro al di sotto del suo valore, è però vero che non è questo il modo di funzionare della società borghese: Marx mostra che lo sfruttamento non è un furto, ma che si verifica proprio quando viene rispettata la legge del valore. La stessa cosa si può dire dello Stato moderno rappresentativo: è uno Stato di classe non perché non rispetta le dichiarazioni dei diritti, che è certamente una vocazione della borghesia, come lo è la perenne tendenza a pagare la forza-lavoro al di sotto del suo valore; ma è uno Stato di classe proprio nel suo normale funzionamento per il solo fatto che tratta in modo uguale individui disuguali, che è ad un tempo la caratteristica dello scambio di valori di scambio e della norma astratta e generale del diritto formale (26).
Dunque la sfera giuridico-politica è espressione dei rapporti economici più semplici, della circolazione cioè, dello scambio di merci, del mercato, di questa «sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi» nella quale «cerca scampo la democrazia», e «il libero-scambista vulgaris prende a prestito concezioni, concetti e norme per il suo giudizio sulla società del capitale» (27).
Ma questa sfera della circolazione, dello scambio, presa autonomamente è una pura astrazione, perché si tratta di un processo superficiale al fondo del quale si verificano ben altri processi; quindi se non si lascia questa sfera, se non ci si addentra nel «segreto laboratorio della produzione» (28) non si può vedere come il valore di scambio si sviluppa in capitale e come il lavoro che produce valore di scambio si sviluppa in lavoro salariato, e quindi non si vedrà neanche come il sistema del denaro, che è effettivamente il sistema della uguaglianza, della libertà, della volontà, del diritto, si converta poi in disuguaglianza, illibertà, moderno privilegio. È interessante a questo punto confrontare due passi, uno di Marx ed uno di Hegel, nei quali, mentre quest'ultimo si limita a constatare come il denaro renda possibile il diritto e la libertà soggettiva, restando impigliato in questa sfera della circolazione, Marx, che conosce le più profonde antitesi perché è entrato, a differenza di Hegel, dove non si entra «except on business» e si produce il plusvalore, può, dal canto suo, constatare ben altri processi.
I due passi sono paralleli. Scrive Hegel nei Lineamenti di Filosofia del Diritto (29): «Ciò che si deve prestare [allo Stato], solamente se sia ridotto a denaro, in quanto valore universale esistente delle cose e delle prestazioni, può essere determinato in maniera giusta e, nello stesso tempo, in modo che i lavori e i servigi particolari, che il singolo può prestare, siano mediati dal suo arbitrio». Può sorprendere, continua Hegel, che «lo Stato non esiga una prestazione diretta, ma pretenda la sola ricchezza che si presenta come moneta [...] la moneta non è una ricchezza particolare accanto alle altre, ma è l'universale di esse, in quanto si producono nella esteriorità dell'esistenza, nella quale esse possono essere intese in quanto cosa. Soltanto in questo estremo esteriore, è possibile la determinatezza quantitativa e, quindi, la giustizia e l'eguaglianza delle prestazioni - Platone nel suo Stato, fa assegnare dai superiori gli individui alle classi particolari e imporre loro le prestazioni particolari [...]; nella monarchia feudale, i vassalli avevano, parimenti, servizi indeterminati ma da prestare anche nella loro particolarità: p. es., l'ufficio di giudice e simili; le prestazioni in Oriente, in Egitto per le smisurate architetture etc., sono del pari di qualità particolare etc. In questi rapporti, manca il principio della libertà soggettiva, per cui il fatto sostanziale dell'individuo, il quale in tali prestazioni è, quanto al suo contenuto, un che di particolare, è mediato dalla sua volontà particolare; - diritto, il quale è possibile unicamente per la pretesa delle prestazioni nella forma del valore generale, e il quale è la ragione che ha prodotto questa trasformazione».
Ed ecco come Marx tratta lo stesso argomento, nel Frammento del testo primitivo (1858) di Per la critica dell'economia politica, dove scrive che la monarchia assoluta, essa stessa già prodotto della ricchezza borghese ad un grado ormai non più compatibile con i vecchi rapporti feudali, per essere in grado di esercitare la sua autorità su tutti i punti - e fino alla periferia - del territorio, ha bisogno di una leva materiale: il potere dell'equivalente generale e di una ricchezza del tutto indipendente da particolari rapporti locali, naturali, individuali. Aveva bisogno della ricchezza nella sua forma di denaro. «La monarchia assoluta si comporta perciò in modo attivo nel trasformare il denaro in mezzo di pagamento universale. Il che si può ottenere soltanto attraverso la circolazione forzata, che fa circolare i prodotti al di sotto del loro valore. Per essa la trasformazione di tutte le imposte in denaro è questione vitale. Quindi, ad un primo stadio, la trasformazione delle prestazioni naturali in pagamenti in denaro appare come la soppressione di tutti i rapporti di dipendenza personale, come vittoria della società borghese, che si riscatta in denaro contante dai vincoli che la imprigionano» (30). Hegel, come abbiamo visto, è fermo a questo «primo stadio».
«Da parte romantica» invece, questo processo viene visto come «sostituzione di gretti e indifferenti rapporti monetari al posto del vario e variopinto legame umano», mentre, già sotto Luigi XIV, a Boisguillebert il denaro appare come maledizione universale che «fa languire le reali fonti di produzione della ricchezza». «II denaro - scrive invece Marx - è proprietà "impersonale". In esso io posso portare in giro con me, nella mia tasca, l'universale potere sociale, l'universale rapporto sociale come una cosa nelle mani della persona privata, che proprio in quanto tale esercita poi questo potere» (31). E nei Grundrisse: «Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l'uno all'altro, si presenta ad essi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una capacità delle cose [...]. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone», perché se manca la forza sociale del mezzo di scambio diventa necessaria «la forza della comunità che lega insieme gli individui, il rapporto patriarcale, la comunità antica, il feudalesimo e la corporazione » (32). Nel 1851 Marx aveva scritto: «Ciò che ogni singolo individuo possiede nel denaro è una generica possibilità di scambio, mediante la quale egli può stabilire a suo piacimento e in pieno diritto la sua partecipazione ai prodotti sociali. Ciascun individuo possiede il potere sociale nella sua tasca sotto forma di una cosa. Togliete alla cosa questo potere sociale, e dovrete dare questo potere immediatamente alla persona sulla persona. Senza il denaro dunque non è possibile sviluppo industriale alcuno. I legami devono essere organizzati su base politica, religiosa, ecc., fin quando il potere del denaro non è diventato il nexus rerum et hominum» (33).
Dunque mentre Hegel vede nell'affermarsi del denaro la possibilità del diritto e della libertà soggettiva, in contrapposizione ai rapporti di dipendenza personale, per Marx questa dell'indipendenza personale è certo una forma sociale importante, che segue quella della dipendenza personale, ma è una forma sociale fondata sulla dipendenza materiale. Indipendenza personale nella circolazione, ma dipendenza materiale nella produzione. Tenersi alla circolazione dunque, non solo non permette di vedere la dipendenza materiale, ma, ed è la conseguenza più grave, non permette di capire che in realtà questa seconda forma sta creando le condizioni di una terza, della «libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, eguale loro patrimonio sociale» (34).
Insomma è di grande importanza la distinzione che Marx fa tra circolazione e produzione. Da questo punto di vista la critica all'economia classica, a Smith e a Ricardo, è l'esatto pendant della critica a Rousseau e a Hegel, e al pensiero politico moderno. La scoperta del plusvalore avrebbe spiegato a Ricardo il perché della "eccezione" alla teoria del valore che Ricardo non può spiegarsi perché rimane fermo alla distribuzione; avrebbe mostrato a Rousseau, che pure l'aveva intuito, che la volontà non è e non può essere la base del diritto e ad Hegel che la libertà soggettiva si converte in illibertà.
Ora, tutte le contraddizioni non solo del pensiero politico moderno, ma delle stesse istituzioni, dello stesso Stato moderno, sono l'esatto corrispondente delle difficoltà e delle contraddizioni dell'economia politica classica e del fatto che lo scambio di equivalenti nella circolazione si converte in uno scambio ineguale nella produzione: per questo, passando dalla circolazione alla produzione, volontà, libertà e uguaglianza si convertono nel loro contrario.
Scrive Marx: «questo scambio di equivalenti avviene ma è solo lo strato superficiale di una produzione che si fonda sulla appropriazione di lavoro altrui senza scambio; ma sotto la parvenza dello scambio. Questo sistema di scambio si fonda sul capitale in quanto sua base, e se lo si considera separatamente da quello, così come esso si mostra alla superficie, come sistema autonomo, allora è una mera parvenza ma una parvenza necessaria. E perciò non c'è più da meravigliarsi se il sistema dei valori di scambio - scambio di equivalenti misurati sulla base del lavoro - si ribalta o piuttosto mostra come suo fondo nascosto, l'appropriazione di lavoro altrui senza scambio, la completa separazione tra lavoro e proprietà» (35).
Insomma lo scambio di equivalenti sembra presupporre la proprietà del prodotto del proprio lavoro. E a questo si ferma l'economia volgare «che vede soltanto le cose prodotte». Ma l'appropriazione mediante il lavoro e la proprietà del lavoro oggettivato sono due cose completamente diverse. Il lavoro oggettivato significa non oggettività dell'operaio. «Nella società borghese il lavoratore - dice Marx - non ha una esistenza oggettiva, esiste solo soggettivamente» (36). Il lavoro oggettivato insomma è oggettività contrapposta all'operaio, è proprietà di una volontà a lui estranea. È qui che nasce lo Stato moderno: ciò che si presentava prima come un processo reale, cioè la appropriazione mediante il lavoro, la proprietà del prodotto del proprio lavoro, diventa ora proprietà di lavoro oggettivato; cioè si presenta come un rapporto giuridico, come condizione generale della produzione, e quindi ha bisogno di essere «legalmente riconosciuto» di essere «posto come espressione della volontà generale» (37).
Lo scambio di equivalenti, cioè, la sfera della circolazione, questo processo superficiale, identifica la proprietà del prodotto del proprio lavoro con la proprietà del lavoro oggettivato. Tutto ciò «seduce la democrazia», ha «sedotto» quei socialisti che pensavano che vi potesse essere capitale senza capitalisti, che è come dire appunto proprietà del lavoro oggettivato e nello stesso tempo proprietà del prodotto del proprio lavoro. Ma «il capitale è necessariamente al tempo stesso capitalista» (38).
Con l'artigianato cittadino, sebbene esso si basi essenzialmente sullo scambio, la proprietà del prodotto del proprio lavoro si presenta come un processo reale, e dunque ha bisogno di ben poche leggi; non ha nessun bisogno di essere riconosciuto come rapporto giuridico perché appunto è un processo reale. Lo scopo immediato dell'artigiano non è quello di arricchirsi ma di sussistere in quanto artigiano. Quando invece si incomincia a produrre per l'arricchimento, quando la produzione si espande, quando lo scambio di equivalenti si generalizza, allora l'appropriazione mediante il lavoro si converte nella proprietà di lavoro oggettivato; e come condizione generale della produzione ha bisogno di essere legalmente riconosciuta, di essere posta come espressione della volontà generale, perché ormai il processo reale è un altro, ormai lo scambio di equivalenti, la proprietà del prodotto del proprio lavoro si rovescia, dice Marx, « si mostra, attraverso una dialettica necessaria, come separazione assoluta di lavoro e proprietà, e appropriazione di lavoro altrui senza scambio, senza equivalente. La produzione basata sul valore di scambio, alla cui superficie si svolge quello scambio libero ed uguale di equivalenti, è alla base uno scambio di lavoro oggettivato in quanto valore di uso, o, si può anche dire, un rapporto del lavoro con le sue condizioni oggettive - e quindi con la oggettività da essa stessa creata - in quanto proprietà altrui: alienazione del lavoro » (39).
Ecco dunque quali sono i fondamenti della legge, del diritto, della volontà generale.
Marx così ha dato nuovo spessore a ciò che aveva scritto per esempio oltre dieci anni prima nell'Ideologia Tedesca, dove mostrava che in realtà l'esistenza della legge e dello Stato non dipende dalla volontà degli individui, non dipende dalla volontà della classe dominante, e tanto meno dalla volontà delle classi dominate, le quali fino a quando lo sviluppo delle forze produttive non lo permetterà «vorrebbero l'impossibile se avessero la volontà di abolire la concorrenza e con essa lo Stato e la legge» (40).
Tema ripreso da Marx quasi trent'anni dopo in polemica con Bakunin: «La volontà e non la situazione economica, è la base della sua rivoluzione sociale». (Appunti sul libro di Bakunin « Stato e anarchia »).
Tra i numerosi passi sulla volontà, si vedano per esempio questi: a pag. 60 dell'Ideologia tedesca, cit. « Poiché lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l'intera società civile di un'epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l'intermediario dello Stato e ricevono una forma politica. Di qui l'illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge. Il diritto privato si sviluppa contemporaneamente alla proprietà privata dalla dissoluzione della comunità naturale ».
A pagina 61: «Nel diritto privato i rapporti di proprietà esistenti sono espressi come risultato della volontà generale. Lo stesso ius utendi et abutendi esprime da una parte il fatto che la proprietà privata è diventata del tutto indipendente dalla comunità, dall'altra l'illusione che la proprietà privata stessa sia fondata sulla pura volontà privata, sul disporre ad arbitrio della cosa. Nella pratica l'abuti ha limiti assai determinati per il proprietario privato, se non vuole veder passare la sua proprietà e quindi il suo ius abutendi in mani altrui, poiché in realtà la cosa, considerata unicamente in rapporto alla sua volontà, non è affatto una cosa, ma soltanto nello scambio e indipendentemente dal diritto diventa una cosa, diventa proprietà reale (un rapporto che i filosofi chiamano un'idea). Questa illusione giuridica che riduce il diritto alla pura volontà conduce necessariamente a questo, nello sviluppo ulteriore dei rapporti di proprietà, che ciascuno può avere un titolo giuridico a una cosa senza avere realmente la cosa. [...] Questa stessa illusione dei giuristi spiega come per essi e per ogni codice in genere sia casuale che degli individui entrino in rapporti fra loro (per esempio: contratti), e come secondo loro questi rapporti siano di quelli che si possono stringere o non stringere, a piacere, e il cui contenuto dipende dall'arbitrio individuale dei contraenti ». E a pag. 189: «Tanto Kant quanto i borghesi tedeschi, dei quali egli era l'encomiastico portavoce, non si accorsero che alla base di quei pensieri teorici dei borghesi erano interessi materiali e una volontà condizionata e determinata dai rapporti materiali di produzione; egli quindi separò quella espressione teorica dagli interessi che essa esprime, fece delle determinazioni della volontà, materialmente motivate, della borghesia francese, autodeterminazioni pure della 'libera volontà ', della volontà in sé e per sé, della volontà umana, e le trasformò così in determinazioni ideologiche puramente concettuali e in postulati morali».
Del resto, prima che le condizioni siano sviluppate al punto di poterla produrre, «questa volontà, nasce soltanto nell'immaginazione degli ideologi. Una volta che le condizioni sono abbastanza sviluppate per produrla, l'ideologo può immaginarsi questa volontà come puramente arbitraria, e tale quindi da poter essere concepita in ogni tempo e in qualsiasi circostanza» (41).
Insomma non è la volontà a fare le leggi, come credono i «visionari, che nel diritto e nella legge vedono la dominazione di una volontà generale, per sé indipendente» (42).
Eppure, a guardare bene, tutto questo c'è anche in Rousseau; anche se certo in forma fantastica, a causa dell'assenza di una analisi dei rapporti economici.
In realtà la volontà generale - nel Contrat Social - non è che poi voglia molto: si limita a rendere obbligatorie le leggi, che in fondo trova belle e fatte.
Insomma Rousseau - che pure nel Discorso sull'ineguaglianza aveva intuito la base del diritto e della legge - nel Contratto immagina, seguendo la tradizione, un mitico legislatore «intelligenza superiore», «uomo straordinario», «ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini» (43). L'unica funzione della Volontà generale sembra essere quella di obbligare i singoli (44).
Marx ha riportato con forza questo legislatore dal mito alla realtà. Il legislatore di Rousseau fa la fine che fa Giove con la scoperta del parafulmine. Tuttavia queste difficoltà in Rousseau e in Hegel, come d'altra parte le difficoltà della teoria del valore in Smith e in Ricardo, sono difficoltà reali, passate dalla realtà nei libri. Marx riuscirà a scandagliarle entrambe con la critica dell'economia politica.
Le leggi, come le merci, ci sono sempre state, ma solo nel modo di produzione capitalistico, e nello Stato moderno che gli corrisponde, esse si generalizzano. Entrambe poggiano sulla stessa base, sono necessarie per lo stesso motivo: «l'imporsi degli individui indipendenti gli uni dagli altri, e l'imporsi delle loro proprie volontà» (45).
Tra i proprietari privati c'è un rapporto di reciproca estraneità, essi si affrontano come persone indipendenti l'una dall'altra, «il contegno degli uomini, puramente atomistico nel loro processo sociale di produzione, e quindi la forma di cosa dei loro propri rapporti di produzione, indipendente dal loro controllo e dal loro consapevole agire individuale, si mostrano in primo luogo nel fatto che i prodotti del loro lavoro assumono generalmente la forma di merce» (46).
Sono queste le condizioni nelle quali si produce la volontà.
Dunque si tratta di una volontà che non può essere concepita «in ogni tempo e in qualsiasi circostanza», che non è puramente arbitraria, ma è condizionata dal modo di produzione, dai rapporti reali, dalla vita materiale degli individui. Questa volontà è l'interesse privato e «il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti» (47).
La cristallizzazione di questa volontà nella legge, dunque, è un prodotto necessario dello stesso processo che ha portato all'affermarsi delle persone indipendenti e dunque all'affermarsi della stessa volontà. Infatti, le persone indipendenti, i proprietari privati, hanno bisogno di dare alla loro volontà - che è niente altro che il loro interesse - una espressione universale. E si badi che questa forma di legge che essi impongono alla loro volontà, non dipende da una scelta arbitraria. Essi insomma sono costretti ad assicurare le condizioni entro le quali i rapporti di produzione esistenti possano continuare ad affermarsi. E proprio per questo si rende necessario che questi rapporti siano validi per tutti.
La legge dunque è l'espressione della volontà dei proprietari privati e indipendenti, condizionata dai loro interessi comuni (48).
È così che lo Stato moderno si sviluppa insieme allo svilupparsi della produzione capitalistica. Nella misura in cui, affermandosi le persone indipendenti, si afferma la loro volontà, questa deve necessariamente trasformarsi in legge. È un processo molto simile, e non è pura analogia ma dipende dall'oggetto stesso di cui si tratta, a quello della necessaria trasformazione dei prodotti del lavoro in merci (49).
La volontà dell'individuo, poiché ora egli è libero da ogni legame con altri uomini, può affermarsi non immediatamente bensì solo assumendo questa forma generale, dopo un processo complesso il cui modello più compiuto è il moderno Stato rappresentativo. Ma in che modo la volontà della classe dominante riesce a porsi come espressione universale, come legge dello Stato, attraverso quale processo riesce a far apparire «come valide per tutti» le condizioni della propria esistenza, assicurandone così la continuità contro altre classi?
E dopo l'affermarsi del suffragio universale il problema diventa: attraverso quale processo la volontà dei dominati prende la forma di legge dello Stato? Cioè attraverso quale processo la volontà si distacca dal lavoratore isolato fino a diventare una volontà che gli si contrappone, proprio come il prodotto del suo lavoro che si stacca da lui e gli si contrappone come capitale?
Come Smith intuisce la difficoltà di dedurre lo scambio tra capitale e lavoro dalla legge dello scambio di equivalenti e non può chiarirsi questa contraddizione perché contrappone direttamente il capitale al lavoro, invece che alla forza lavoro, così la concezione idealistica dello Stato (50), che crede che si tratti soltanto della volontà, e che sia la volontà generale espressa sotto forma di legge a legare gli individui - concezione che coincide con la quasi totalità del pensiero politico moderno (51) - intuisce la difficoltà di dedurre la legge dalla volontà popolare perché constata che il principio democratico dell'autodeterminazione del popolo, con l'avvento dei "grandi Stati" - cioè con l'affermarsi della borghesia, se da un lato raggiunge una estensione senza precedenti, dall'altro deve cedere alla necessità dei rappresentanti, alla necessaria mediazione dei partiti, ecc., modificandosi sostanzialmente: proprio nel momento della sua massima estensione sembra non valere più.
E quindi o rimanda quel principio ai «piccoli stati» al «popolo di dei» (52) proprio come Smith rimandava la legge del valore agli stadi « primitivi e rozzi ».
Oppure, come nella repubblica di Kant, fa coesistere il primato della legge e la non sovranità del popolo, mentre Hegel (al paragrafo 301 dei Lineamenti di filosofia del diritto) scrive, con reminiscenza roussoiana, il popolo è «la parte che non sa quel che vuole» e, con reminiscenza kantiana: «sapere che cosa si vuole e, ancor più, che cosa vuole la volontà che è in sé la ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione più profonda che, appunto, non è affare del popolo».
Oppure afferma che si tratta di una finzione (si ricordi il «furto» di Proudhon), come nel caso di Kelsen: «una finzione, anche quando esiste un legame più o meno stretto tra la volontà dei rappresentanti e la volontà dei rappresentati, come nel caso della rappresentanza in una costituzione fondata sugli Stati, secondo le cui disposizioni i rappresentanti degli Stati sono vincolati alle istruzioni dei loro elettori, e possono essere rimossi in qualsiasi momento. Anche in questi casi, infatti, la volontà del rappresentante è diversa da quella del rappresentato. La finzione dell'identità di volontà è ancora più chiara se la volontà del rappresentante non è in alcun modo legata alla volontà del rappresentato, come nel caso della rappresentanza [...] del popolo in un parlamento moderno, i cui membri sono giuridicamente indipendenti nell'esercizio delle loro funzioni: situazione che si vuol definire dicendo che hanno "mandato non vincolante"» (53).
Insomma, democratici o no, al pensiero politico l'equazione «legge-volontà popolare» non riesce, proprio come non riesce a Smith l'equazione valore-lavoro: questi ne conclude che la legge del valore-lavoro contenuto non regola il modo di produzione di merci; quelli che il principio dell'autodeterminazione non si realizza nello Stato moderno rappresentativo.
Il che è certamente vero se si considera la classe operaia e il suo interesse ad abolire gli attuali rapporti di produzione.
Ma non è vero se si considerano operai e capitalisti come agenti dello scambio, il cui interesse consiste nel far rispettare la libertà e l'uguaglianza, ecc. È in questi rapporti che «cerca scampo» lo Stato moderno rappresentativo, che in questo senso è veramente lo Stato dell'autodeterminazione del popolo: solo che le difficoltà che contrastano l'autodeterminazione sono le difficoltà stesse della volontà; è l'esistenza stessa di questa «volontà» - che porta segnata in fronte la sua appartenenza ad individui isolati che scambiano le loro merci - ad indicare che la sua autodeterminazione non potrà realizzarsi che come volontà di garantire i rapporti di scambio.
Cioè come volontà di tenere in piedi uno Stato a garanzia delle leggi della circolazione. Il lavoratore può davvero esprimere la sua volontà: ma può essere solo la volontà di un individuo che scambia la sua merce sul mercato, e come tale il suo interesse è che venga venduta al suo valore, che venga rispettata l'uguaglianza e la libertà, ecc., ecc. Ciò che tiene unito lo Stato, scrive Hegel, non è la forza, ma «unicamente il sentimento fondamentale dell'ordine, che tutti hanno». Questa e solo questa è la volontà che può essere espressa: la volontà della persona isolata (abbiamo visto che il partito non modifica questo isolamento), dell'agente dello scambio.
Cioè una volontà uguagliata, astratta; quando comprano la stessa merce, operaio e capitalista sono uguali. Ed è questa volontà che può/deve diventare generale. E se è come agenti del mercato che possono essere uguali, è dunque solo in questa sfera che si possono equiparare le volontà. Se si presentassero come agenti dell'altra sfera, della produzione, l'uguaglianza verrebbe cancellata, non sarebbero più comparabili, non si arriverebbe mai a una legge. Dunque non la volontà di agente della produzione, ma solo quella di agente dello scambio può essere uguagliata.
La possibilità di questo uguagliamento è la possibilità stessa dello Stato moderno.
Insomma bisogna dénaturer operai salariati e capitalisti spostandoli nella circolazione dove ricompaiono tutti come proprietari di merci, liberi, eguali e indipendenti. «Proprio l'imporsi degli individui indipendenti gli uni dagli altri e l'imporsi delle loro proprie volontà» scrive Marx, «rende necessario il rinnegamento di se stessi nella legge e nel diritto» (54). Ecco perché per Marx il contrat social di Rousseau, che «mette in rapporto e in collegamento, mediante un patto, soggetti per natura indipendenti», altro non è che «l'anticipazione della "società borghese" che si preparava dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante verso la sua maturità» (55).
Di diverso avviso è l'interpretazione secondo la quale la legge e la volontà generale di Rousseau non avrebbero niente a che fare con la società borghese. Rousseau si sarebbe fermato alla socializzazione solo politica non perché «sta anticipando la società borghese», ma soltanto per un limite storico-oggettivo invalicabile.
Tanto che basterebbe aggiungervi la socializzazione della proprietà per fare del Contrat social il modello del comunismo. Questa interpretazione ha certo avuto grandi meriti nel contrastare lo stalinismo, e ne ha tuttora per ciò che riguarda le libertà civili. Ma non si può tacere che rischia di finire nell'«utopismo di non capire la necessaria differenza tra configurazione reale e ideale della società borghese, e di volersi perciò assumere il compito superfluo di volerne realizzare di nuovo l'espressione ideale, ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa realtà» (56).
Quanto alla disputa sulla democrazia rappresentativa, se la volontà possa essere rappresentata (Rousseau), se la rappresentanza sia una finzione (Kelsen) ecc., va osservato che se il cittadino potesse dare alla sua volontà una esistenza autonoma, se cioè possedesse i mezzi per esprimerla, farebbe le leggi e non andrebbe a votare. Ma una coincidenza diretta tra volontà e legge abolirebbe o il principio del diritto di voto che si generalizza proprio con la democrazia moderna, oppure la stessa democrazia moderna che si basa appunto sulla volontà delegata. La volontà può diventare generale solo se rompe i localismi, i particolarismi, in coincidenza con l'estendersi del mercato: quindi, se una condizione della volontà generale è l'esistenza di cittadini liberi, cioè capaci di volere, altra condizione è che siano liberi anche dai mezzi per esprimere questa volontà, che altrimenti si esprimerebbe in altro modo che nella legge dello Stato.
Infatti mentre prima, nel bene e nel nude, mezzi di espressione e volontà aderivano - si pensi alle autonomie nel Medioevo e persino nella monarchia assoluta - (57) con lo Stato moderno rappresentativo anche la decisione di costruire un ponte nel più sperduto villaggio, dice Marx nel Diciotto Brumaio, diventa un problema di Stato. La dipendenza materiale permette ora una centralizzazione - grazie al denaro, come abbiamo visto - che la dipendenza personale non permetteva: viene tutto accentrato e i cittadini sono privati dei mezzi di espressione della loro volontà. È questa una azione sistematica dello Stato moderno, che fa i suoi primi passi con la monarchia assoluta.
I rappresentanti, cioè il parlamento, sono ora il mezzo per esprimere la volontà. Alla superficie della democrazia borghese le leggi appaiono come volontà dei cittadini. In realtà per diventare legge la volontà deve essere dapprima rappresentata. Il cittadino non può dare alla sua volontà una esistenza autonoma; al contrario, subisce un processo di astrazione, di eguagliamento, al termine del quale non può realmente decidere, ma solo decidere che altri decida, e solo a questa condizione può esprimere la sua volontà.
Identificando leggi e volontà dei cittadini si pongono come coincidenti cose che non lo sono: si saltano termini medi che invece vanno sviluppati. Per diventare legge le volontà dei singoli debbono trasformarsi nella volontà di un terzo che le equipari, le equivalga.
La volontà del rappresentante dunque è una volontà accanto alle altre, accanto a quella dei rappresentati; ma ne è l'equivalente generale.
Ciò che viene delegata non è la volontà che «o è quella stessa o è un'altra: non c'è via di mezzo» (58). Infatti si presenta direttamente al rappresentante non la volontà ma il cittadino. Ciò che questi delega non è la volontà ma la capacità di volere («Si può trasmettere il potere non la volontà») (59). Appena la sua volontà viene esercitata («durante l'elezione dei membri del parlamento») (60) essa ha già cessato di appartenergli («appena questi sono eletti, esso diventa schiavo, non è più niente») (61); da quel momento non è più capace di volere e quindi non può più delegare alcunché. La volontà è la sostanza della delega, ma essa stessa non viene delegata.
Rousseau e Kelsen invece pretendono, come abbiamo visto, identità immediata tra volontà e legge; questo induce il primo a rimandare la democrazia al «popolo di dei», il secondo a far derivare la norma dalla norma. Tutti e due contro la rappresentanza, perdono l'occasione di analizzarla e tengono nei confronti di questa mediazione lo stesso atteggiamento degli «abolizionisti della moneta» nei confronti dell'altro mediatore, il denaro.
Rousseau arriverà ad ammettere, nelle Considerazioni sul Governo di Polonia, la necessità dei rappresentanti nei grandi Stati, anche se con tutte le cautele possibili, mandato imperativo, rotazione ecc.; precauzioni che, abbiamo visto, lo stesso Kelsen non trova molto efficaci e con ragione: pretendere che la rappresentanza vincolata non si sviluppi in rappresentanza non vincolata è come pretendere che la produzione di merci non si sviluppi in produzione capitalistica di merci (62)


In realtà, insomma, la rappresentanza si sviluppa necessariamente insieme allo svilupparsi delle persone indipendenti, come il denaro con le merci.
Il perché della democrazia moderna, indiretta, non sta nei «grandi numeri», nel fatto che non è possibile nei «grandi Stati» stare tutti in una piazza. Se fosse così l'elettronica (63) potrebbe risolvere il problema. Il perché sta invece negli individui isolati produttori di merci, privati e indipendenti. Se ce ne fossero anche solo due in una piazza, si sbranerebbero perché i loro interessi, accostati direttamente, sarebbero inconciliabili, bellum omnium contro omnes.
Ecco perché nessuno scambio sarebbe possibile senza il valore di scambio, «mediatore universale» (64). I rapporti tra gli uomini debbono essere mediati dalle cose finché sono produttori privati e indipendenti ecc. La sfera della circolazione, il mercato, assicura questa mediazione. È qui che ciascuno, perseguendo il suo interesse privato, persegue l'interesse generale (65). È questo il regno della «Provvidenza onniscaltra», della «mano invisibile».
Ora, la volontà del rappresentante, della élite politica, si pone come mediazione universale solo incarnando questo interesse generale che, abbiamo visto, non può essere che «l'Eden dei diritti» (66), le leggi della circolazione.
Dunque dire rappresentante significa dire libertà, uguaglianza, proprietà, legge, diritto, ecc..
La socialdemocrazia tedesca era fatta di «rappresentanti»: sta qui la radice dell'involuzione, non negli «errori» e nei «tradimenti».
I partiti politici e i sindacati rappresentano (67) sì interessi contrastanti, ma nella sfera della circolazione, lottano per stabilire le condizioni della distribuzione (questo va detto agli sraffìani che, come Ricardo, si fermano a questa sfera): un partito - o un sindacato - che agisse per modificare le condizioni della produzione, sarebbe «anticostituzionale»; ma questo, lo vedremo, non è e non può essere l'affare dei rappresentanti.
È necessario dunque esaminare il processo attraverso il quale le organizzazioni del proletariato si sono trasformate fino a prendere la forma dei grandi partiti politici costituzionali e dei sindacati nazionali, in corrispondenza della necessità della lotta politica e della lotta economica del proletariato.
Si tratta di capire attraverso quale processo le lotte contro le condizioni stesse del modo di produzione capitalistico, cioè a livello della sfera della produzione, decadono continuamente a livello della circolazione (68), prendendo la forma del partito politico e del sindacato, rappresentanti del proletariato per la difesa - politica ed economica - del livello storico del valore della forza-lavoro, per la difesa cioè delle condizioni generali della società borghese, della legge del valore, contro una borghesia in preda alla vertigine di far soldi violando le sue stesse leggi.
E non si tratta della mancanza di una linea rivoluzionaria. «Il potere sopprime la libertà degli operai così come il capitale» afferma Marx nel 1871; a) movimento economico e b) azione politica, sono «indissolubilmente uniti » (IX risoluzione della Conferenza di Londra del 1871).
a) Finché il lavoro si cristallizza nelle merci, è in questa forma che i proletari possono riappropriarsene; ma nello stesso tempo essi comprendono che fin quando il prodotto del lavoro si presenterà in forma di merce sarà impossibile una effettiva riappropriazione. Dunque lotta salariale ma nello stesso tempo lotta contro il lavoro salariato, contro il rapporto di produzione capitalistico, contro la produzione di merci.
b) finché la società esprimerà un potere politico, i proletari dovranno lottare per riappropriarsene, ma nello stesso tempo essi comprendono che fin quando «la forza sociale si separa nella figura della forza politica, non sarà possibile nessuna emancipazione umana (Marx, Questione ebraica).
Queste cose erano già chiare cento anni fa. Il problema che si pone dunque non è quello della linea rivoluzionaria, bensì quello di capire perché per esempio la socialdemocrazia tedesca, che al tempo della sua fondazione queste cose le sapeva benissimo, ha seguito poi un'altra strada. La sua storia non può essere spiegata con i «tradimenti» e gli «errori» (Questo modo di procedere somiglia alla pretesa di spiegare la storia dei rapporti di produzione come «una falsificazione malignamente organizzata dai governi»). Né la si può spiegare mettendola sul conto della «burocrazia»: bisognerebbe spiegare il perché della burocrazia.
D'altra parte ad impedirne il destino non basta la buona volontà dei dirigenti, per quanto essi soggettivamente possano elevarsi al di sopra dei rapporti che li determinano.
È a questi rapporti che bisogna guardare, alla «struttura istituzionale» di questi partiti.

da «MARXIANA», n. 1, Roma 1976
Note

* Queste note sono già apparse, con qualche modifica, presso l'editore Fischer di Francoforte, col titolo Arbeiterautonomie und Partei nello Jahrbuch Arbeiterbewegung, n. 3, 1975.
1 KARL MARX, Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, Dietz Verlag 1953, trad. it. di Enzo Grillo: Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze 1970, volume II, p. 123, d'ora in poi citato come Lineamenti.
2 Tra gli scritti più recenti di un lungo dibattito si veda J.P. SARTRE, Il rischio della spontaneità, la logica dell'istituzione, introdotto da un articolo di ROSSANA ROSSANDA, Da Marx a Marx. Classe e partito, «il manifesto», settembre 1969. Di Sartre si veda Critique de la raison dialectique, trad. it. di PAOLO CARUSO, Milano 1963; questo libro interessa qui per un aspetto che la sinistra italiana ha completamente trascurato; la descrizione della storia del gruppo che insorge, dal proletariato in serie al proletariato in fusione, al giuramento, alla fraternità-terrore, fino allo STUPRO istituzionale (partito, sindacato). L'importanza del testo è tale che non si vede come si possa fare politica, o critica della politica, senza comunque tenerne conto.
3 KARL MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica, trad. it. L. Colletti, nel volume Per la critica dell'economia politica. Roma 1957, p. 172.
4 Manifesto del partito comunista, I, Borghesi e proletari.
5 Ibid.
6 Sono queste le ragioni che stanno dietro al Che fare? di Lenin. Va notato che il libro fu scritto solo qualche anno dopo gli Elementi di scienza politica, di Gaetano Mosca (1896), e sembra essere la risposta di sinistra alla teoria della classe politica.
7 ROSSANA ROSSANDA, art. cit.
8 Non è di questo partito che parla Marx: «Io ti ricordo prima di tutto - scrive a Freiligrath nel 1860 - che, dopo che la Lega (dei Comunisti) fu sciolta, dietro mia proposta, nel novembre '52, io non ho mai appartenuto, né appartengo a nessuna associazione, segreta o pubblica; che dunque il partito in questo senso assolutamente transitorio, per me ha cessato di esistere da 8 anni. [...] Dunque del «partito» nel senso della tua lettera io non so niente dal '52. Se tu sei poeta io sono critico, e ne ho avuto sinceramente abbastanza delle esperienze fatte nel '49-52. La Lega, come la 'Società delle stagioni', come cento altre società, sono soltanto un episodio nella storia del partito, che si costruisce naturalmente (naturwuchsig) sul terreno della società moderna... Ho dunque in questa lettera cercato di eliminare l'equivoco che io sotto partito intendessi una 'Lega' morta da 8 anni, o una redazione di giornale sciolta da 12 anni. Sotto partito io intendevo il partito nel grosso senso storico del termine».
9 MICHAEL VESTER, Die Entstehung des Proletariats als Lernprozess, Europaische Verlagsanstalt, Frarkfurt am Main 1970. Si veda per lo stesso periodo l'ormai classico E.P. THOMPSON, The Making of the English Working Class, trad. it. di Bruno Maffi, Milano 1969.
10 Cfr. VITTORIO FOA, Sindacati e lotte sociali in Storia d'Italia, volume quinto, tomo secondo, Torino 1973, pp. 1718-1828, che rileva la non coincidenza tra riscossa operaia e progressi elettorali dei partiti operai.
11 Cfr. STEFANI MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, Firenze 1972, p. 25.
12 Critica al programma di Gotha.
13 ROBERTO MICHELS, La sociologia del partito politico, Bologna 1966.
14 Com'è noto, circa ventimila pagine manoscritte di Marx giacciono ancora indecifrate negli archivi di Mosca. Ne è stata annunciata la pubblicazione per l'anno 2000. Il Pcus, se tutto va bene, ci avrà messo ottant'anni per pubblicare tutto Marx.
15 KARL MARX, II Capitale, Roma 1970, volume I, tomo I, p. 96
16 Cfr. KARL MAKX, Lineamenti, cit., II, p. 123.
17 Ivi, II, p. 135.
18 Ivi, II, p. 124.
19 J.J. ROUSSEAU, Le contrat social, III, 15. E si veda UMBERTO CERRONI, Società civile e Stato politico in Hegel, Bari 1974, p. 76.
20 Lineamenti, cit.. I, p. 214.
21 Ivi, I, p. 209.
22 Ivi, I, p. 106.
23 Ivi, I, p. 209.
24 Ibid.
25 G. SOLARI, Individualismo e Diritto Privato, Torino 1939, p. 287, citato da Cerroni.
26 Cfr. Cerroni, cit..
27 KARL MARX, Il Capitale, cit., I, 1, p. 193.
28 Ibid.
29 Trad. it. F. Messineo, Bari 1954, § 299, pp. 255, 256, 257.
30 Cfr. KARL MARX, Scritti inediti di economia politica, Roma 1963, p. 34. La traduzione è stata in parte modificata.
31 Ivi, pp. 35, 36.
32 Lineamenti, cit., p. 98.
33 Ibid.
34 Ivi, p. 99.
34 Ivi, II, pp. 141, 142.
35 Ivi, II, p. 124.
36 Ivi, II, p. 148.
38 Ivi, II, p. 146.
39 Ivi, II, p. 148.
40 L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 325.
41 Ibid.
42 Ibid.
43 J.J. ROUSSEAU, Le Contract social, II, 7.
44 Ivi II, 7.
45 L'ideologia tedesca, cit., p. 325.
46 II Capitale, I, I, p. 107.
47 Lineamenti, cit., I, p. 97.
48 Cfr. L'ideologia tedesca, cit., pp. 324-325.
49 Che la merce e lo Stato abbiano la stessa struttura è stato sottolineato tra gli altri da E.B. PASUKANIS, La teoria del diritto e il marxismo in Teorie sovietiche del diritto, Milano 1964, che, nota Umberto Cerroni, «ha cercato di estendere, per così dire, al campo delle categorie giuridiche il procedimento generale che Marx ha applicato al campo delle categorie economiche». Per parte sua UMBERTO CERRONI, La libertà dei moderni, Bari 1968, p. 112, ritiene che si debba «verificare se e in che modo dalla metodologia elaborata da Marx sia possibile estrarre una linea di ricerca e ricostruzione storico-teorica attorno al diritto che sia in qualche misura avvicinabile, per rilevanza critica, a quella che Marx stesso ha seguito per l'economia politica nel Capitale». Si veda ancora di UMBERTO CERRONI, Teoria della crisi sociale in Marx, Bari, 1971, dove a p. 177 si osserva che il diritto è «regolatore formale, di una equivalenza che non è equivalenza (equivalenza solo per la forma), esattamente come l'equivalenza dello scambio produttivo moderno (salario contro uso della forza lavoro) è non-equivalenza: appropriazione di plusvalore senza contropartita (Something for nothing). Critica dello Stato (rappresentativo) e critica del diritto (formale) si innestano alla critica della inequivalenza dello scambio che produce. Ne nasce una critica sociale, che si radica ad un livello naturalistico rispetto alla sfera della volontà, proprio come la ripresa delle categorie naturalistiche in economia consente la critica del meccanismo capitalistico nel suo insieme». Per un paragone tra valore e Stato si veda BERTELL OLLMAN, Alienation:Marx's conception of man in capitalist society, Cambridge, 1971. E ancora LAURA AMMANNATI in un saggio su Stato e merce, convegno Issoco, Firenze 1975; ALAN WOLFE, New directions in the marxist theory of politics, «Politics and Society», IV, n. 2, 1974; FRANCESCO FISTETTI, Critica dell'economia e critica della politica, De Donato, Bari, 1976.
50 Cfr. L'ideologia tedesca, cit., p. 329.
51 THOMAS HOBBES: «I legami sociali si stringono di libera volontà », Elementi filosofici del cittadino, Torino 1948, p. 76.
52 J.J. ROUSSEAU, Contrat social, III, 4.
53 HANS KELSEN, Reine Rechtslehre, trad. it. di Mario G. Losano La dottrina pura del diritto, Torino 1966, pp. 332
54 L'ideologia tedesca, cit., p. 325.
55 KARL MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica, cit., p. 171. Si veda anche L'ideologia tedesca, cit., p. 73.
56 KARL MARX, Lineamenti, cit. I, p. 219. L'interpretazione alla quale si è accennato non trova concorde VALENTINO GERRATANA che, per esempio, scrive, nella citata introduzione al Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, p. 60: «In effetti l'idea centrale del Contratto sociale, il trasferimento della sovranità politica dagli uomini alla legge, come espressione della volontà generale, mediazione e garanzia della libertà di tutti, ha qualcosa di mistico e di religioso: presuppone in ogni caso un mondo dissociato, in cui l'universale è separabile dal particolare, gli interessi comuni dagli interessi privati, e che non può vivere senza mediazione religiosa. Ma si tratta di un misticismo che, indipendentemente da ogni teoria, è prodotto direttamente da un processo reale di mistificazione della moderna società borghese». E ancora: «La legge al di sopra degli uomini: è questa la soluzione di Rousseau, ed è la soluzione, il grande mito, della democrazia borghese». A proposito di Gerratana, scrive EUGENIO GARIN nella Introduzione agli Scritti politici, di J.J. Rousseau, Bari 1971, p. LXI: «Giustamente insiste sulla 'forte carica morale' V. Gerratana, nel suo saggio su L'eresia di J.J. Rousseau... in cui il rapporto con Marx (e Engels) è posto con grande misura ». E si veda UMBERTO CERRONI, Teoria politica e socialismo, Roma, 1973, p. 135: «il radicalismo politico di Rousseau getta essenziali presupposti politici per la nuova rivoluzione sociale. Li getta, ovviamente, alla maniera stessa in cui la teoria valore-lavoro di Smith e Ricardo getta i presupposti della teoria marxiana del plusvalore. Si tratta di un collegamento critico». Ed in effetti ci sembra che i neo-roussoiani in 'politica' ripetano le stesse incomprensioni dei neo-ricardiani in 'economia'.
57 Ambiti d'autonomia, come per esempio i ceti provinciali, le associazioni regionali, le forze locali, le signorie fondiarie e cittadine, i poteri intermedi, persistono certamente, come elemento antico, ancora durante l'assolutismo. Scrive Oestreich: «L'amministrazione assolutista non conosceva nessun 'inquadramento' totale di una società di massa livellata, fino nelle famiglie, non si ingeriva nel complesso della vita privata del singolo, non possedeva la brutale volontà e le conseguenti possibilità di dirigere l'opinione e le tendenze pubbliche nel senso di una ideologia di Stato e di partito unitaria e ufficiale ». «Non si può assolutamente parlare di un controllo totale della sfera pubblica e personale da parte dello Stato assoluto». E cita KARL MANNHEIM: «L'assolutismo era solo apparentemente totalitario. Per lo più esso non possedeva i mezzi per esplicare il predominio sulla totalità della vita degli abitanti del territorio in questione». Vedi GERHARD OESTREICH, Problemi di struttura dell'assolutismo europeo, trad. it. di Sergio Zeni, nel volume Lo Stato moderno, Bologna 1971, I, p. 175.
58 J.J. ROUSSEAU, Contrat social, III, 15.
59 Ivi, II, 1.
60 Ivi, III, 15.
61 Ibid.
62 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Considerazioni sul governo di Polonia, in Scritti politici, Bari 1971, a cura di Maria Garin, volume terzo, p. 204: «Uno dei maggiori inconvenienti dei grandi Stati, quello fra tutti che fa della libertà la cosa più difficile da conservare, è che il potere legislativo non può presentarvisi direttamente, e può agire solo per deputazione. La cosa include aspetti buoni e cattivi, ma il male supera il bene. È impossibile corrompere il legislatore in corpo, ma ingannarlo è facile. I suoi rappresentanti, invece, sono difficili da ingannare, ma facili da corrompere, e raramente accade che corrotti non siano». «Vedo due mezzi atti a prevenire il terribile male della corruzione... mutare spesso i rappresentanti... impegnare i rappresentanti a seguire scrupolosamente le istruzioni ricevute». Invece per Lenin mandato imperativo, revocabilità permanente, organismi esecutivi e legislativi al tempo stesso, costituirebbero la soppressione del parlamento. Per una lettura di Stato e rivoluzione di Lenin si vedano, tra gli altri CABLO CICERCHIA, Leninismo e rivoluzione socialista, Bari, 1970, e UMBERTO CERRONI, Teoria politica e socialismo, Roma, 1973, pp. 123-150. E ancora OSKAR ANWEILER, Storia dei soviet, Bari, 1972, e GIULIANO PROCACCI, II partito nel sistema sovietico. 1917-1945, in «Critica marxista», gennaio-febbraio, marzo-aprile 1974.
63 Cfr. UMBERTO CERRONI, Tecnica e libertà, Bari 1970 e Teoria politica e socialismo, cit., p. 95.
64 KARL MARX, Lineamenti, cit. I, p. 96.
65 Ibid.
66 KARL MARX, II capitale, cit., I, I, p. 193.
67 «Fra l'individuo e lo Stato si inseriscono quelle formazioni collettive che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui». HANS KELSEN, Essenza e valore della democrazia, nel volume I fondamenti della democrazia, Bologna, 1966, p. 24.
68 Cfr. Riforma sociale o rivoluzione, di ROSA LUXEMBURG.




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