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di Enzo Modugno
Critica della politica
Il problema è quello del nesso che si stabilisce tra gli uomini nel modo
di produzione capitalistico, nel quale si presentano come individui isolati,
in seguito alla dissoluzione delle forme sociali feudali e allo sviluppo
delle nuove forze produttive. Questo individuo isolato (1) è il nocciolo
della questione.
Come si collega, come entra in società?
L'alternarsi di «organizzazione autonoma» e «partito» (2) ha qui le
sue radici: i proletari per lottare hanno bisogno di unirsi e questa unificazione
può avvenire (è avvenuta e avviene) in due modi: 1) alla base direttamente,
con collegamenti immediati che essi determinano e controllano; oppure 2)
indirettamente, con una mediazione esterna.
È necessario sottolineare che sono due forme storiche di volta in volta
effettivamente operanti: la loro analisi critica non consente polemiche
'ingenue' tra sostenitori della spontaneità e sostenitori del partito;
né fa un passo avanti chi tenta di combinare le due cose.
È una ingenuità infatti credere che queste forme dipendano dalla buona o
cattiva volontà degli uomini e che non abbiano, tutte e due, radici profonde
nel modo di produzione.
Il punto di vista dei sostenitori del partito-mediatore esterno poggia interamente
sul presupposto che i proletari siano, per predisposizione naturale, isolati,
incapaci di unificazione; per unificarli, per farli entrare nella storia,
diventa dunque necessario un intervento che venga dal di fuori, portatore
della scienza, della teoria, del progetto politico.
Discendenza giacobina dei profeti del XVIII secolo, pensano come loro che
l'individuo isolato sia un dato naturale, il punto di partenza. Marx
invece ha mostrato che è un risultato storico: «Quanto più risaliamo indietro
nella storia, tanto più [...] l'individuo che produce ci appare non
autonomo, parte di un insieme più grande » (3). Solo nella società borghese
si presenta come individuo isolato, solo in questa società riesce ad isolarsi.
La ragione è nota: i caratteri sociali del lavoro si oggettivano nei prodotti,
appaiono come proprietà sociali delle merci, e il rapporto sociale tra i
produttori appare come rapporto sociale fra le merci, esistente al di fuori
dei produttori. Dunque non è che i produttori isolati non vivano in società:
è solo che questa società, questo nesso che li lega, si presenta come qualcosa
di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione
reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente
da loro.
La relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra
le cose. Insomma è questo tipo di unità, di nesso sodale, che genera l'isolamento.
È importante tener fermo questo nesso sociale reificato creato dalla produzione
di merci, perché il nesso creato dallo Stato moderno e quello creato dal
partito sono la stessa cosa. Ma questo tipo di unità reificata che genera
l'isolamento genera anche il suo contrario: l'unificazione diretta.
Marx descrive anche questa: «Nella società così com'è troviamo già occultate
le condizioni per una società senza classi»: per esempio, la divisione del
lavoro genera l'agglomerazione, la cooperazione, gli interessi di classe;
e i conflitti fra singoli operai e singoli borghesi sempre più assumono
il carattere di conflitti tra due classi.
«È così che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi,
riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino associazioni
permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali. Qua è là
la lotta diventa sommossa. Di quando in quando gli operai vincono, ma solo
in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato,
ma l'unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata dai crescenti
mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano
tra di loro operai di località diverse. Basta questo semplice collegamento
per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto un uguale carattere,
in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe
è lotta politica. E l'unione per raggiungere la quale ai borghigiani
del Medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con
le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni» (4).
Tuttavia questo processo di unificazione diretta non è lineare, procede
per fasi alterne. Infatti questa organizzazione degli operai in classe,
se è vero che risorge sempre di nuovo più forte, più salda, più potente,
è anche vero che «viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza
che gli operai si fanno tra loro stessi» (5) sul mercato come possessori
della forza-lavoro.
Ecco come il modo di produzione, la produzione di merci, genera sempre di
nuovo l'operaio isolato: perché fa valere sempre di nuovo il nesso oggettivo,
il mercato. Si riproduce l'isolamento ma questa volta ad un grado diverso,
con ulteriori determinazioni.
Ora, la nascita del sindacato nazionale, del partito operaio nazionale,
affonda qui le sue radici, trova qui la sua necessità storica, in questo
rinnovarsi dell'isolamento. Ma la loro esistenza sarà contraddittoria
perché l'isolamento operaio, come abbiamo visto, sempre di nuovo genera
il suo contrario, l'unificazione immediata, la fusione, e così via.
Il partito e il sindacato - nel senso di unificazione esterna, indiretta
- poggiano interamente sulla momentanea incapacità di unificazione diretta,
non mediata, degli operai; così che quando questa tornerà a manifestarsi
troverà una situazione mutata, troverà la corposa presenza di queste istituzioni
ormai in posizione antagonistica. Sorte per unificare la classe, finiranno
con l'impedire ogni altra specie di unificazione che non sia la loro.
Soviet, consigli, comitati d'azione e altre forme di autonomia operaia
in questi ultimi anni hanno avuto vita difficile, più che per loro debolezza
interna per il fatto che partiti e sindacati (ai quali bisogna aggiungere
quei gruppi che aspirano a prenderne il posto) hanno sistematicamente, e
con tutte le loro forze, tentato di negarli o di riassorbirli, in una partita
che giustamente consideravano mortale. Le difficoltà dell'autonomia
del movimento dunque non possono essere attribuite all'incapacità, di
cui questo soffrirebbe, di superare il localismo, il corporativismo, il
ribellismo, ecc. Non è così e lo abbiamo visto. Non solo: ormai è necessario
verificare la stessa "necessità storica" del partito e del sindacato,
che appunto corrisponde ad un determinato grado di evoluzione del proletariato.
Dunque anche il loro superamento è una necessità storica che non si può
fare a meno di cogliere se si ripercorre lo sviluppo della lotta di classe.
Le prime associazioni operaie locali, legate ai mestieri, hanno da poco
sostituito le corporazioni medioevali: e tuttavia in esse la parola è ai
protagonisti, l'operaio si presenta in tutta la sua pienezza; ma solo
perché non ha realizzato l'universalità e l'organicità della lotta
di classe, e perché questa universalità - si può dire, parafrasando Marx
- egli non se l'è ancora contrapposta come una forza indipendente da
lui, come una organizzazione nazionale dove non ha più diritto di parola.
Certo il collegamento nazionale è preferibile alla mancanza di collegamento,
o a un collegamento soltanto locale fondato su solidarietà di mestiere,
ecc. D'altra parte non è possibile subordinare questi collegamenti più
ampi prima di averli creati. Ma non è nemmeno possibile pensare che questo
tipo di collegamento, di universalità, sia l'unica possibilità di unificazione.
Infatti, l'estraneità dell'operaio alla sua organizzazione dimostra
che egli sta ancora creando le forme della lotta, e che non sta lottando
a partire da queste forme. L'associazione locale, di mestiere, è un
collegamento che corrisponde a una fase del capitalismo. L'ulteriore
sviluppo produce, insieme al collegamento più ampio, anche l'estraneità
dell'operaio (non ha più la parola); però produce anche l'universalità
e l'organicità dei suoi collegamenti. Guardare indietro alla pienezza
delle prime associazioni operaie è un punto di vista romantico. Ma d'altra
parte è ridicolo credere che quel completo svuotamento che è l'organizzazione
nazionale di oggi sia la forma finalmente scoperta di collegamento.
Gli operai i cui collegamenti, in quanto loro relazioni proprie, comuni,
sono già assoggettati al loro comune controllo, sono operai di una fase
storica più sviluppata. È questa fase che ci sta dinanzi. Ma a questo, cioè
al di là dell'attacco a quel punto di vista romantico, il partito non
è mai pervenuto, perché la sua struttura non gli permette di vedere oltre.
Dunque se il partito presuppone l'interesse di classe, comune a tutti
gli operai, presuppone al tempo stesso l'operaio isolato, e presuppone
non solo la dissoluzione delle prime associazioni locali, ecc., ma lo scacco
delle grandi lotte autonome di oggi, la mancanza o l'interruzione dei
collegamenti diretti ecc..
Per cui il partito si presenta ai singoli operai come un rapporto esterno,
indipendente da loro; che media l'unità dei singoli operai tra loro
scollegati. Ed è una mediazione che «presenta facilmente i conti della sua
operatività storica reale» ha scritto Rossana Rossanda. L'alterno declinare
dell'unificazione diretta, come abbiamo visto, rende possibile questa
unificazione mediata.
I proletari cioè in questa fase ripongono nel partito e nel sindacato quella
fiducia che non sono più disposti a riporre in se stessi, nelle lotte autonome,
autogestite, ecc. (6).
Ma perché i proletari hanno fiducia nel partito?
Evidentemente solo perché il partito è volontà proletaria reificata; solo
perché i proletari hanno alienato la loro volontà, i loro collegamenti,
la direzione delle loro lotte ad una élite che ha avuto la capacità e i
mezzi di rappresentare, di oggettivare, di cristallizzare la volontà proletaria.
Questo trasferimento ad altri però è irto di contraddizioni. È stato scritto
nel 1762, ma era noto anche prima che la volontà non può essere alienata,
non si rappresenta: o è quella stessa, o è un'altra; non c'è via
di mezzo. Eppure, a dispetto di Rousseau, è quello che avviene tutti i giorni
nello Stato moderno e dunque anche nel partito operaio e nel sindacato:
la volontà diventa altra.
Proprio come il lavoro umano che non può essere rappresentato in una cosa,
perché appena ciò si verifica l'uomo perde le sue qualità sociali a
favore della cosa che diventa merce, si distacca dal suo produttore, cade
in mano ad altri; e diventa possibile lo sfruttamento; così nel nostro caso
la volontà operaia non può essere rappresentata da una istituzione esterna,
perché appena ciò si verifica l'operaio non conta più come tale ma solo
come membro dell'istituzione la quale soltanto diventa il vero soggetto,
la sede della «iniziativa rivoluzionaria», e l'operaio è ridotto a sua
appendice.
Così la volontà operaia si cristallizza, cade in mano ad altri, finisce
per contrapporsi agli operai. Ma se in tutto questo c'è una «radice
idealistica» (7), bisogna aggiungere che è lo stesso "idealismo"
della merce e dello Stato, non l'"errore" di qualche hegeliano.
Questa necessità di trasformare la loro unità nella forma del partito, se
dimostra da un lato che gli operai per lottare hanno bisogno di unirsi,
dimostra dall'altro che questa unità non si è realizzata immediatamente.
Gli operai si inseriscono in una unificazione realizzata da altri invece
di deciderne e controllarne l'andamento. È una unificazione fuori di
loro, sotto la quale vengono sussunti, che non creano essi stessi ma che
trovano bell'e fatta.
E se è vero che vi si inseriscono con autonoma decisione, è anche vero che
in quel momento non hanno alternativa: insomma decidono ciò che sono socialmente
costretti a decidere. La dissoluzione o l'impossibilità dell'unificazione
diretta li rende liberi di accettare questi rappresentanti.
Hanno torto gli alchimisti, le due unificazioni sono alternative, il mediatore
esterno non potrà che porsi come soggetto e farà della classe un suo predicato,
è una pura ingenuità pensare che i proletari possano tenere il controllo
di una unificazione fatta da altri.
Non c'è collegamento diretto tra un proletario e l'altro, non sono
legati tra loro, ma ciascuno è legato all'istituzione e attraverso questa
si collegano.
Insomma rimangono isolati, ancora una volta. Ecco perché l'operaio isolato
non è soltanto il punto di partenza del partito ma anche il suo risultato
storico. Il partito (8), come lo Stato e come il capitale, riproduce così
di continuo le condizioni della sua esistenza.
In un senso più ampio questo isolamento è il grande risultato storico della
produzione di merci e dello Stato moderno, il «lato magnifico» dice Marx:
questa connessione, questa unificazione reificata, esterna, indipendente
dalla volontà e dalla consapevolezza dei singoli, che tuttavia funziona,
è reale, assicura l'universalità dei collegamenti.
Questa unificazione alienata, esterna, è certo preferibile alla mancanza
di unificazione. Ma è anche insulso pensare questa unificazione esterna
come la sola possibile, inscindibile dalla condizione dell'operaio perché
questo sarebbe capace solo di rivendicazioni economiche, isolate, corporative,
ecc.
Questo punto di vista non tiene conto, da un lato, delle «ferrovie» di cui
parlava Marx. Dall'altro non tiene conto della natura della mediazione
esterna, che è una unificazione che si tramuta di continuo in isolamento,
che è volontà operaia che si cristallizza, si separa, cade in mano ad altri
e finisce col contrapporsi come cosa indipendente e avente esistenza al
di fuori, indipendentemente dall'operaio cui apparteneva. Sono anche
qui, in questo tipo di isolamento, le ragioni della spinta operaia all'autonomia,
dei continui tentativi di una diversa unificazione, diretta, immediata.
Questo punto di vista crede che l'unificazione, la rappresentanza, la
strategia, il progetto politico, la presa del potere praticati da un partito,
siano la realizzazione operaia di queste cose; ma che poi sono state adulterate
dalla degenerazione, dalla burocrazia, dagli errori, dai tradimenti, dal
revisionismo, ecc.. O anche che, certo, i partiti sinora hanno fallito i
tentativi di realizzarle nella loro forma veramente operaia, ma che ora,
con in pugno la vera dottrina, sarà finalmente possibile.
A costoro va risposto che il partito - nel senso di unificazione esterna
- è effettivamente la realizzazione della rappresentanza, della unificazione,
della strategia, della presa del potere, e che quegli elementi di degenerazione
che compaiono a distorcerne la natura «operaia» sono degenerazioni immanenti
al partito, alla mediazione esterna, e appunto la realizzazione della presa
del potere, della rappresentanza e dell'unificazione che si mostrano
come potere di Stato, burocrazia, isolamento.
È desiderio tanto pio quanto sciocco che la rappresentanza non si sviluppi
in burocrazia o che l'unificazione alienata non si risolva in isolamento.
Questo punto di vista, che va alla riscoperta della purezza del partito,
non vede o dimentica la storia, ed è condannato a ripeterla.
2.
Se volessimo identificare dopo il 1850 i cicli di lotta e di apprendimento
descritti da Vester (9) fino a quella data, dovremmo tener conto, da un
lato, dell'affermarsi delle grandi organizzazioni del proletariato -
partiti e sindacati - che hanno dato all'alternarsi di quei cicli una
svolta istituzionale; dall'altro, del continuo riaffermarsi dei grandi
movimenti di massa autonomi, al di fuori o in alternativa a quelle organizzazioni
(10).
La storia del proletariato si mostra così come un intreccio 1) di organizzazione
autonoma e 2) di organizzazione sindacale e di partito.
Queste due forme di unificazione poi, la loro storia, le leggi del loro
alternarsi sono così strettamente legate alle vicende dello Stato politico
e della società civile che non si vede come sia possibile analisi che non
le consideri tutte.
Dunque la storia del proletariato non può essere intesa come storia delle
sue istituzioni (11) e delle relative ideologie e strategie, né come storia
dei soli momenti alti, dei grandi movimenti spontanei.
È necessario risalire all'ambiguità dello Stato moderno, alle sue contraddizioni:
sono queste che puntualmente si riflettono nella storia del proletariato
e delle sue istituzioni. L'intreccio di queste due storie, di quella
delle masse e di quella dei comitati centrali, di queste due forme di unificazione
cioè, lo si può cogliere criticamente solo nel contesto più generale di
una analisi del modo di produzione capitalistico.
Così questi problemi di storia del proletariato ne coinvolgono altri, e
rinviano tutti all'analisi degli istituti fondamentali del mondo moderno
e dunque alla marxiana critica della politica e dell'economia politica,
che dovrà costituire perciò l'asse dell'indagine.
Scrive Marx nel 1875, che in una «società collettivista, fondata sulla proprietà
comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti;
tanto meno il lavoro incorporato nei prodotti appare come valore di questi
prodotti, come una proprietà oggettiva da essi posseduta, perché ora, in
contrapposto alla società capitalistica, non è più indirettamente ma direttamente
che i lavori individuali diventano parte integrante del lavoro della comunità»
(12).
In realtà tutta l'opera di Marx, può essere vista come l'analisi
di questo processo indiretto attraverso il quale, nel modo di produzione
capitalistico, i lavori individuali diventano lavoro sociale. E dunque come
il lavoro individuale, attraverso trasformazioni successive, in un processo
che l'economia politica classica non riusciva a vedere, si trasformi
fino ad emergere alla superficie nelle categorie del prezzo di mercato,
del profitto, ecc.
Che ruolo abbia la politica in questo processo indiretto, che ruolo svolgano
lo Stato e il diritto, Marx lo ha accennato in innumerevoli passi.
La ricostruzione della critica marxiana della politica e del diritto, nodo
centrale sia per quanto riguarda lo studio del capitalismo sia per quanto
riguarda la transizione dal capitalismo ad un'altra società, è ormai
un problema che richiede soluzione e lo dimostra la ripresa degli studi
in questa direzione. Naturalmente l'organizzazione del proletariato,
come vedremo, non sfugge a questa critica della politica, soprattutto dopo
l'affermarsi dei grandi partiti e dei sindacati nazionali: le descrizioni
che ne ha fatto la sociologia, da Roberto Michels (13) in poi, non sono
di grande aiuto. Ci sono buone ragioni dunque per questa ripresa, anche
se finora sono stati troppo trascurati a questo fine gli scritti di critica
dell'economia politica che Marx riprese a partire dal 1857.
Certo alla luce di questi, che culmineranno con la pubblicazione del primo
volume del Capitale e che continueranno, non sappiamo con quale intensità
per via degli inediti (14), fino alla morte, diventa molto discutibile una
separazione, sia pure per comodità di lavoro, della critica dell'economia
da quella della politica e del diritto; in questi scritti quasi ad ogni
pagina ci sono elementi di "politica". Se Marx privilegia la struttura
economica della società, ciò non è dovuto al fatto che Marx sia un «economista»,
né al fatto che il modo di produzione della vita materiale è la condizione
del processo vitale sociale, politico, intellettuale, ecc.: siccome ciò
vale per tutte le epoche, non ci direbbe ancora nulla sul perché di questa
scelta fatta a proposito della società borghese. La ragione sta invece nel
fatto che proprio il modo di produzione della vita materiale spiega perché
nella società borghese la parte principale è rappresentata dall'economia,
così come è sempre il modo di produrre che spiega perché nel mondo antico
la parte principale era rappresentata dalla politica e nel Medioevo era
rappresentata dal cattolicesimo (15).
Nella società borghese insomma, la produzione precede la comunità, vi sono
rapporti sociali tra le cose e rapporti di cose tra gli uomini, e chi vuole
analizzare questa società deve analizzare questi rapporti. Infatti ora non
ci sono più rapporti di dipendenza personale, il lavoratore è libero dagli
antichi vincoli di clientela, di servitù, di prestazione, perché lo scambio
«rende superfluo il gregarismo e lo dissolve» (16). I legami dovevano essere
organizzati su base politica, religiosa, ecc. fin quando il potere del denaro
non era ancora diventato il nexus rerum et hominum.
Ora invece l'unico nexus è il denaro e il lavoratore è libero. Ma è
una libertà duplice, perché il lavoratore libero da quegli antichi rapporti
è anche libero da ogni avere, da ogni forma di esistenza oggettiva, da ogni
proprietà. È libero, privo delle condizioni oggettive, dei mezzi di sussistenza,
dello strumento di lavoro, che una volta, d'une manière ou d'une
autre (17) dice Marx, nel bene e nel male, erano proprietà delle masse.
Con la conseguenza di grande importanza che «la cosa che gli si contrappone
è ora diventata la vera comunità che egli cerca di far sua e dalla quale
invece viene ingoiato» (18).
Dunque sembra questa la ragione per cui Marx, invece di un trattato sullo
Stato, ci ha lasciato la critica dell'economia politica. La critica
di Marx, insomma, scopre la primarietà dei rapporti socio-economici su quelli
politico-giuridici: se si affrontassero solo questi ultimi, saremmo costretti,
per spiegarli, a uscir fuori dalla loro dimensione. Già Rousseau d'altra
parte aveva intuito (19) che un popolo è un popolo prima di darsi a un re.
Marx mostra in modo definitivo che volontà, libertà e uguaglianza, che sono
i pilastri di tutto il pensiero politico moderno, presuppongono rapporti
di produzione borghesi ed hanno come base il valore di scambio.
«Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettati nello scambio basato
sui valori di scambio», scrive Marx nei Grundrisse, ma questo scambio «è
anzi la base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà. Come idee
pure esse ne sono soltanto le espressioni idealizzate; e in quanto si sviluppano
in rapporti giuridici, politici e sociali, esse sono soltanto questa base
ad una diversa potenza» (20). L'uguaglianza si pone materialmente, esiste
espressamente in forma oggettiva, un lavoratore o un re, dice Marx, che
acquistino la stessa merce, sono completamente uguali, qualsiasi differenza
tra loro è cancellata perché tutti e due si presentano come possessori di
denaro. A sua volta il venditore si presenta soltanto come il possessore
di una merce che corrisponde al denaro dei compratori. D'altra parte
si tratta di una transazione volontaria, l'individuo agisce in piena
libertà, non c'è nessuna violenza; o meglio, se violenza c'è, questa
non viene dall'esterno, ma dall'interesse che l'individuo ha
a soddisfare i suoi bisogni. In questo senso volontà è uguale a interesse.
È dunque qui nella circolazione, nei rapporti di denaro, la base dei rapporti
giuridico-politici della società borghese. Ed è qui, nella circolazione,
che «cerca scampo la democrazia borghese» (21), cioè in questo processo
di superficie dove tutte le antitesi immanenti appaiono cancellate, dove
i vincoli di dipendenza personale sono spezzati, dove non ci sono più differenze
di sangue, di educazione, ecc., dove gli individui scambiano come persone
libere e indipendenti.
Questa sfera insomma «seduce la democrazia» (22), ma non solo quella «borghese»;
«viene in luce - scrive Marx - l'inettitudine dei socialisti (soprattutto
dei francesi, che pretendono di additare il socialismo come realizzazione
delle idee della società borghese espresse dalla rivoluzione francese),
i quali dimostrano che lo scambio, il valore di scambio ecc., sono originariamente
(ossia nel tempo) o concettualmente (ossia nella forma adeguata) un sistema
della libertà e uguaglianza di tutti, ma sono stati poi adulterati dal denaro,
dal capitale ecc.» (23).
Questa «inettitudine dei socialisti» accompagnerà la società borghese sino
alla sua fine. Dopo Proudhon si è ripresentata. Da un lato i socialdemocratici
che hanno preteso ricavare dai principi liberali tradizionali una problematica
socialista: Bernstein, Laski, Strachey, che con Locke e Kant in tasca si
sono assunti il compito superfluo, direbbe Marx, di volere realizzare la
libertà e l'uguaglianza, cioè l'espressione ideale della società
borghese, «ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa
realtà» (24). Vede questa «inettitudine» Solari che scrive: «Illogici sono
quelli che in favore del quarto stato invocano i principi individualisti
dello stato di diritto, dando ad essi una estensione e un significato che
certamente non comportano» (25).
D'altra parte questo punto di vista riaffiora, anche se in un altro
contesto, in coloro che ritengono che lo Stato sia uno Stato di classe perché
non realizzerebbe le affermazioni contenute nelle dichiarazioni dei diritti,
che sarebbero dunque nient'altro che un «inganno». Quindi allo «Stato
socialista» spetterebbe il compito di attuare quei diritti che lo Stato
borghese userebbe solo come facciata. Questo punto di vista ricorda ancora
Proudhon quando afferma che «la proprietà è un furto»: in realtà se è vero
che sempre il capitalista cerca di pagare la forza-lavoro al di sotto del
suo valore, è però vero che non è questo il modo di funzionare della società
borghese: Marx mostra che lo sfruttamento non è un furto, ma che si verifica
proprio quando viene rispettata la legge del valore. La stessa cosa si può
dire dello Stato moderno rappresentativo: è uno Stato di classe non perché
non rispetta le dichiarazioni dei diritti, che è certamente una vocazione
della borghesia, come lo è la perenne tendenza a pagare la forza-lavoro
al di sotto del suo valore; ma è uno Stato di classe proprio nel suo normale
funzionamento per il solo fatto che tratta in modo uguale individui disuguali,
che è ad un tempo la caratteristica dello scambio di valori di scambio e
della norma astratta e generale del diritto formale (26).
Dunque la sfera giuridico-politica è espressione dei rapporti economici
più semplici, della circolazione cioè, dello scambio di merci, del mercato,
di questa «sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti
gli sguardi» nella quale «cerca scampo la democrazia», e «il libero-scambista
vulgaris prende a prestito concezioni, concetti e norme per il suo giudizio
sulla società del capitale» (27).
Ma questa sfera della circolazione, dello scambio, presa autonomamente è
una pura astrazione, perché si tratta di un processo superficiale al fondo
del quale si verificano ben altri processi; quindi se non si lascia questa
sfera, se non ci si addentra nel «segreto laboratorio della produzione»
(28) non si può vedere come il valore di scambio si sviluppa in capitale
e come il lavoro che produce valore di scambio si sviluppa in lavoro salariato,
e quindi non si vedrà neanche come il sistema del denaro, che è effettivamente
il sistema della uguaglianza, della libertà, della volontà, del diritto,
si converta poi in disuguaglianza, illibertà, moderno privilegio. È interessante
a questo punto confrontare due passi, uno di Marx ed uno di Hegel, nei quali,
mentre quest'ultimo si limita a constatare come il denaro renda possibile
il diritto e la libertà soggettiva, restando impigliato in questa sfera
della circolazione, Marx, che conosce le più profonde antitesi perché è
entrato, a differenza di Hegel, dove non si entra «except on business» e
si produce il plusvalore, può, dal canto suo, constatare ben altri processi.
I due passi sono paralleli. Scrive Hegel nei Lineamenti di Filosofia del
Diritto (29): «Ciò che si deve prestare [allo Stato], solamente se sia ridotto
a denaro, in quanto valore universale esistente delle cose e delle prestazioni,
può essere determinato in maniera giusta e, nello stesso tempo, in modo
che i lavori e i servigi particolari, che il singolo può prestare, siano
mediati dal suo arbitrio». Può sorprendere, continua Hegel, che «lo Stato
non esiga una prestazione diretta, ma pretenda la sola ricchezza che si
presenta come moneta [...] la moneta non è una ricchezza particolare accanto
alle altre, ma è l'universale di esse, in quanto si producono nella
esteriorità dell'esistenza, nella quale esse possono essere intese in
quanto cosa. Soltanto in questo estremo esteriore, è possibile la determinatezza
quantitativa e, quindi, la giustizia e l'eguaglianza delle prestazioni
- Platone nel suo Stato, fa assegnare dai superiori gli individui alle classi
particolari e imporre loro le prestazioni particolari [...]; nella monarchia
feudale, i vassalli avevano, parimenti, servizi indeterminati ma da prestare
anche nella loro particolarità: p. es., l'ufficio di giudice e simili;
le prestazioni in Oriente, in Egitto per le smisurate architetture etc.,
sono del pari di qualità particolare etc. In questi rapporti, manca il principio
della libertà soggettiva, per cui il fatto sostanziale dell'individuo,
il quale in tali prestazioni è, quanto al suo contenuto, un che di particolare,
è mediato dalla sua volontà particolare; - diritto, il quale è possibile
unicamente per la pretesa delle prestazioni nella forma del valore generale,
e il quale è la ragione che ha prodotto questa trasformazione».
Ed ecco come Marx tratta lo stesso argomento, nel Frammento del testo primitivo
(1858) di Per la critica dell'economia politica, dove scrive che la
monarchia assoluta, essa stessa già prodotto della ricchezza borghese ad
un grado ormai non più compatibile con i vecchi rapporti feudali, per essere
in grado di esercitare la sua autorità su tutti i punti - e fino alla periferia
- del territorio, ha bisogno di una leva materiale: il potere dell'equivalente
generale e di una ricchezza del tutto indipendente da particolari rapporti
locali, naturali, individuali. Aveva bisogno della ricchezza nella sua forma
di denaro. «La monarchia assoluta si comporta perciò in modo attivo nel
trasformare il denaro in mezzo di pagamento universale. Il che si può ottenere
soltanto attraverso la circolazione forzata, che fa circolare i prodotti
al di sotto del loro valore. Per essa la trasformazione di tutte le imposte
in denaro è questione vitale. Quindi, ad un primo stadio, la trasformazione
delle prestazioni naturali in pagamenti in denaro appare come la soppressione
di tutti i rapporti di dipendenza personale, come vittoria della società
borghese, che si riscatta in denaro contante dai vincoli che la imprigionano»
(30). Hegel, come abbiamo visto, è fermo a questo «primo stadio».
«Da parte romantica» invece, questo processo viene visto come «sostituzione
di gretti e indifferenti rapporti monetari al posto del vario e variopinto
legame umano», mentre, già sotto Luigi XIV, a Boisguillebert il denaro appare
come maledizione universale che «fa languire le reali fonti di produzione
della ricchezza». «II denaro - scrive invece Marx - è proprietà "impersonale".
In esso io posso portare in giro con me, nella mia tasca, l'universale
potere sociale, l'universale rapporto sociale come una cosa nelle mani
della persona privata, che proprio in quanto tale esercita poi questo potere»
(31). E nei Grundrisse: «Lo scambio generale delle attività e dei prodotti,
che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso
che unisce l'uno all'altro, si presenta ad essi estraneo, indipendente,
come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone
si trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una
capacità delle cose [...]. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete
darlo alle persone sulle persone», perché se manca la forza sociale del
mezzo di scambio diventa necessaria «la forza della comunità che lega insieme
gli individui, il rapporto patriarcale, la comunità antica, il feudalesimo
e la corporazione » (32). Nel 1851 Marx aveva scritto: «Ciò che ogni singolo
individuo possiede nel denaro è una generica possibilità di scambio, mediante
la quale egli può stabilire a suo piacimento e in pieno diritto la sua partecipazione
ai prodotti sociali. Ciascun individuo possiede il potere sociale nella
sua tasca sotto forma di una cosa. Togliete alla cosa questo potere sociale,
e dovrete dare questo potere immediatamente alla persona sulla persona.
Senza il denaro dunque non è possibile sviluppo industriale alcuno. I legami
devono essere organizzati su base politica, religiosa, ecc., fin quando
il potere del denaro non è diventato il nexus rerum et hominum» (33).
Dunque mentre Hegel vede nell'affermarsi del denaro la possibilità del
diritto e della libertà soggettiva, in contrapposizione ai rapporti di dipendenza
personale, per Marx questa dell'indipendenza personale è certo una forma
sociale importante, che segue quella della dipendenza personale, ma è una
forma sociale fondata sulla dipendenza materiale. Indipendenza personale
nella circolazione, ma dipendenza materiale nella produzione. Tenersi alla
circolazione dunque, non solo non permette di vedere la dipendenza materiale,
ma, ed è la conseguenza più grave, non permette di capire che in realtà
questa seconda forma sta creando le condizioni di una terza, della «libera
individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla
subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, eguale loro
patrimonio sociale» (34).
Insomma è di grande importanza la distinzione che Marx fa tra circolazione
e produzione. Da questo punto di vista la critica all'economia classica,
a Smith e a Ricardo, è l'esatto pendant della critica a Rousseau e a
Hegel, e al pensiero politico moderno. La scoperta del plusvalore avrebbe
spiegato a Ricardo il perché della "eccezione" alla teoria del
valore che Ricardo non può spiegarsi perché rimane fermo alla distribuzione;
avrebbe mostrato a Rousseau, che pure l'aveva intuito, che la volontà
non è e non può essere la base del diritto e ad Hegel che la libertà soggettiva
si converte in illibertà.
Ora, tutte le contraddizioni non solo del pensiero politico moderno, ma
delle stesse istituzioni, dello stesso Stato moderno, sono l'esatto
corrispondente delle difficoltà e delle contraddizioni dell'economia
politica classica e del fatto che lo scambio di equivalenti nella circolazione
si converte in uno scambio ineguale nella produzione: per questo, passando
dalla circolazione alla produzione, volontà, libertà e uguaglianza si convertono
nel loro contrario.
Scrive Marx: «questo scambio di equivalenti avviene ma è solo lo strato
superficiale di una produzione che si fonda sulla appropriazione di lavoro
altrui senza scambio; ma sotto la parvenza dello scambio. Questo sistema
di scambio si fonda sul capitale in quanto sua base, e se lo si considera
separatamente da quello, così come esso si mostra alla superficie, come
sistema autonomo, allora è una mera parvenza ma una parvenza necessaria.
E perciò non c'è più da meravigliarsi se il sistema dei valori di scambio
- scambio di equivalenti misurati sulla base del lavoro - si ribalta o piuttosto
mostra come suo fondo nascosto, l'appropriazione di lavoro altrui senza
scambio, la completa separazione tra lavoro e proprietà» (35).
Insomma lo scambio di equivalenti sembra presupporre la proprietà del prodotto
del proprio lavoro. E a questo si ferma l'economia volgare «che vede
soltanto le cose prodotte». Ma l'appropriazione mediante il lavoro e
la proprietà del lavoro oggettivato sono due cose completamente diverse.
Il lavoro oggettivato significa non oggettività dell'operaio. «Nella
società borghese il lavoratore - dice Marx - non ha una esistenza oggettiva,
esiste solo soggettivamente» (36). Il lavoro oggettivato insomma è oggettività
contrapposta all'operaio, è proprietà di una volontà a lui estranea.
È qui che nasce lo Stato moderno: ciò che si presentava prima come un processo
reale, cioè la appropriazione mediante il lavoro, la proprietà del prodotto
del proprio lavoro, diventa ora proprietà di lavoro oggettivato; cioè si
presenta come un rapporto giuridico, come condizione generale della produzione,
e quindi ha bisogno di essere «legalmente riconosciuto» di essere «posto
come espressione della volontà generale» (37).
Lo scambio di equivalenti, cioè, la sfera della circolazione, questo processo
superficiale, identifica la proprietà del prodotto del proprio lavoro con
la proprietà del lavoro oggettivato. Tutto ciò «seduce la democrazia», ha
«sedotto» quei socialisti che pensavano che vi potesse essere capitale senza
capitalisti, che è come dire appunto proprietà del lavoro oggettivato e
nello stesso tempo proprietà del prodotto del proprio lavoro. Ma «il capitale
è necessariamente al tempo stesso capitalista» (38).
Con l'artigianato cittadino, sebbene esso si basi essenzialmente sullo
scambio, la proprietà del prodotto del proprio lavoro si presenta come un
processo reale, e dunque ha bisogno di ben poche leggi; non ha nessun bisogno
di essere riconosciuto come rapporto giuridico perché appunto è un processo
reale. Lo scopo immediato dell'artigiano non è quello di arricchirsi
ma di sussistere in quanto artigiano. Quando invece si incomincia a produrre
per l'arricchimento, quando la produzione si espande, quando lo scambio
di equivalenti si generalizza, allora l'appropriazione mediante il lavoro
si converte nella proprietà di lavoro oggettivato; e come condizione generale
della produzione ha bisogno di essere legalmente riconosciuta, di essere
posta come espressione della volontà generale, perché ormai il processo
reale è un altro, ormai lo scambio di equivalenti, la proprietà del prodotto
del proprio lavoro si rovescia, dice Marx, « si mostra, attraverso una dialettica
necessaria, come separazione assoluta di lavoro e proprietà, e appropriazione
di lavoro altrui senza scambio, senza equivalente. La produzione basata
sul valore di scambio, alla cui superficie si svolge quello scambio libero
ed uguale di equivalenti, è alla base uno scambio di lavoro oggettivato
in quanto valore di uso, o, si può anche dire, un rapporto del lavoro con
le sue condizioni oggettive - e quindi con la oggettività da essa stessa
creata - in quanto proprietà altrui: alienazione del lavoro » (39).
Ecco dunque quali sono i fondamenti della legge, del diritto, della volontà
generale.
Marx così ha dato nuovo spessore a ciò che aveva scritto per esempio oltre
dieci anni prima nell'Ideologia Tedesca, dove mostrava che in realtà
l'esistenza della legge e dello Stato non dipende dalla volontà degli
individui, non dipende dalla volontà della classe dominante, e tanto meno
dalla volontà delle classi dominate, le quali fino a quando lo sviluppo
delle forze produttive non lo permetterà «vorrebbero l'impossibile se
avessero la volontà di abolire la concorrenza e con essa lo Stato e la legge»
(40).
Tema ripreso da Marx quasi trent'anni dopo in polemica con Bakunin:
«La volontà e non la situazione economica, è la base della sua rivoluzione
sociale». (Appunti sul libro di Bakunin « Stato e anarchia »).
Tra i numerosi passi sulla volontà, si vedano per esempio questi: a pag.
60 dell'Ideologia tedesca, cit. « Poiché lo Stato è la forma in cui
gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni
e in cui si riassume l'intera società civile di un'epoca, ne segue
che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l'intermediario dello
Stato e ricevono una forma politica. Di qui l'illusione che la legge
riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale,
sulla volontà libera. Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto
alla legge. Il diritto privato si sviluppa contemporaneamente alla proprietà
privata dalla dissoluzione della comunità naturale ».
A pagina 61: «Nel diritto privato i rapporti di proprietà esistenti sono
espressi come risultato della volontà generale. Lo stesso ius utendi et
abutendi esprime da una parte il fatto che la proprietà privata è diventata
del tutto indipendente dalla comunità, dall'altra l'illusione che
la proprietà privata stessa sia fondata sulla pura volontà privata, sul
disporre ad arbitrio della cosa. Nella pratica l'abuti ha limiti assai
determinati per il proprietario privato, se non vuole veder passare la sua
proprietà e quindi il suo ius abutendi in mani altrui, poiché in realtà
la cosa, considerata unicamente in rapporto alla sua volontà, non è affatto
una cosa, ma soltanto nello scambio e indipendentemente dal diritto diventa
una cosa, diventa proprietà reale (un rapporto che i filosofi chiamano un'idea).
Questa illusione giuridica che riduce il diritto alla pura volontà conduce
necessariamente a questo, nello sviluppo ulteriore dei rapporti di proprietà,
che ciascuno può avere un titolo giuridico a una cosa senza avere realmente
la cosa. [...] Questa stessa illusione dei giuristi spiega come per essi
e per ogni codice in genere sia casuale che degli individui entrino in rapporti
fra loro (per esempio: contratti), e come secondo loro questi rapporti siano
di quelli che si possono stringere o non stringere, a piacere, e il cui
contenuto dipende dall'arbitrio individuale dei contraenti ». E a pag.
189: «Tanto Kant quanto i borghesi tedeschi, dei quali egli era l'encomiastico
portavoce, non si accorsero che alla base di quei pensieri teorici dei borghesi
erano interessi materiali e una volontà condizionata e determinata dai rapporti
materiali di produzione; egli quindi separò quella espressione teorica dagli
interessi che essa esprime, fece delle determinazioni della volontà, materialmente
motivate, della borghesia francese, autodeterminazioni pure della 'libera
volontà ', della volontà in sé e per sé, della volontà umana, e le trasformò
così in determinazioni ideologiche puramente concettuali e in postulati
morali».
Del resto, prima che le condizioni siano sviluppate al punto di poterla
produrre, «questa volontà, nasce soltanto nell'immaginazione degli ideologi.
Una volta che le condizioni sono abbastanza sviluppate per produrla, l'ideologo
può immaginarsi questa volontà come puramente arbitraria, e tale quindi
da poter essere concepita in ogni tempo e in qualsiasi circostanza» (41).
Insomma non è la volontà a fare le leggi, come credono i «visionari, che
nel diritto e nella legge vedono la dominazione di una volontà generale,
per sé indipendente» (42).
Eppure, a guardare bene, tutto questo c'è anche in Rousseau; anche se
certo in forma fantastica, a causa dell'assenza di una analisi dei rapporti
economici.
In realtà la volontà generale - nel Contrat Social - non è che poi voglia
molto: si limita a rendere obbligatorie le leggi, che in fondo trova belle
e fatte.
Insomma Rousseau - che pure nel Discorso sull'ineguaglianza aveva intuito
la base del diritto e della legge - nel Contratto immagina, seguendo la
tradizione, un mitico legislatore «intelligenza superiore», «uomo straordinario»,
«ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini» (43). L'unica funzione
della Volontà generale sembra essere quella di obbligare i singoli (44).
Marx ha riportato con forza questo legislatore dal mito alla realtà. Il
legislatore di Rousseau fa la fine che fa Giove con la scoperta del parafulmine.
Tuttavia queste difficoltà in Rousseau e in Hegel, come d'altra parte
le difficoltà della teoria del valore in Smith e in Ricardo, sono difficoltà
reali, passate dalla realtà nei libri. Marx riuscirà a scandagliarle entrambe
con la critica dell'economia politica.
Le leggi, come le merci, ci sono sempre state, ma solo nel modo di produzione
capitalistico, e nello Stato moderno che gli corrisponde, esse si generalizzano.
Entrambe poggiano sulla stessa base, sono necessarie per lo stesso motivo:
«l'imporsi degli individui indipendenti gli uni dagli altri, e l'imporsi
delle loro proprie volontà» (45).
Tra i proprietari privati c'è un rapporto di reciproca estraneità, essi
si affrontano come persone indipendenti l'una dall'altra, «il contegno
degli uomini, puramente atomistico nel loro processo sociale di produzione,
e quindi la forma di cosa dei loro propri rapporti di produzione, indipendente
dal loro controllo e dal loro consapevole agire individuale, si mostrano
in primo luogo nel fatto che i prodotti del loro lavoro assumono generalmente
la forma di merce» (46).
Sono queste le condizioni nelle quali si produce la volontà.
Dunque si tratta di una volontà che non può essere concepita «in ogni tempo
e in qualsiasi circostanza», che non è puramente arbitraria, ma è condizionata
dal modo di produzione, dai rapporti reali, dalla vita materiale degli individui.
Questa volontà è l'interesse privato e «il suo contenuto, come la forma
e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti
da tutti» (47).
La cristallizzazione di questa volontà nella legge, dunque, è un prodotto
necessario dello stesso processo che ha portato all'affermarsi delle
persone indipendenti e dunque all'affermarsi della stessa volontà. Infatti,
le persone indipendenti, i proprietari privati, hanno bisogno di dare alla
loro volontà - che è niente altro che il loro interesse - una espressione
universale. E si badi che questa forma di legge che essi impongono alla
loro volontà, non dipende da una scelta arbitraria. Essi insomma sono costretti
ad assicurare le condizioni entro le quali i rapporti di produzione esistenti
possano continuare ad affermarsi. E proprio per questo si rende necessario
che questi rapporti siano validi per tutti.
La legge dunque è l'espressione della volontà dei proprietari privati
e indipendenti, condizionata dai loro interessi comuni (48).
È così che lo Stato moderno si sviluppa insieme allo svilupparsi della produzione
capitalistica. Nella misura in cui, affermandosi le persone indipendenti,
si afferma la loro volontà, questa deve necessariamente trasformarsi in
legge. È un processo molto simile, e non è pura analogia ma dipende dall'oggetto
stesso di cui si tratta, a quello della necessaria trasformazione dei prodotti
del lavoro in merci (49).
La volontà dell'individuo, poiché ora egli è libero da ogni legame con
altri uomini, può affermarsi non immediatamente bensì solo assumendo questa
forma generale, dopo un processo complesso il cui modello più compiuto è
il moderno Stato rappresentativo. Ma in che modo la volontà della classe
dominante riesce a porsi come espressione universale, come legge dello Stato,
attraverso quale processo riesce a far apparire «come valide per tutti»
le condizioni della propria esistenza, assicurandone così la continuità
contro altre classi?
E dopo l'affermarsi del suffragio universale il problema diventa: attraverso
quale processo la volontà dei dominati prende la forma di legge dello Stato?
Cioè attraverso quale processo la volontà si distacca dal lavoratore isolato
fino a diventare una volontà che gli si contrappone, proprio come il prodotto
del suo lavoro che si stacca da lui e gli si contrappone come capitale?
Come Smith intuisce la difficoltà di dedurre lo scambio tra capitale e lavoro
dalla legge dello scambio di equivalenti e non può chiarirsi questa contraddizione
perché contrappone direttamente il capitale al lavoro, invece che alla forza
lavoro, così la concezione idealistica dello Stato (50), che crede che si
tratti soltanto della volontà, e che sia la volontà generale espressa sotto
forma di legge a legare gli individui - concezione che coincide con la quasi
totalità del pensiero politico moderno (51) - intuisce la difficoltà di
dedurre la legge dalla volontà popolare perché constata che il principio
democratico dell'autodeterminazione del popolo, con l'avvento dei
"grandi Stati" - cioè con l'affermarsi della borghesia, se
da un lato raggiunge una estensione senza precedenti, dall'altro deve
cedere alla necessità dei rappresentanti, alla necessaria mediazione dei
partiti, ecc., modificandosi sostanzialmente: proprio nel momento della
sua massima estensione sembra non valere più.
E quindi o rimanda quel principio ai «piccoli stati» al «popolo di dei»
(52) proprio come Smith rimandava la legge del valore agli stadi « primitivi
e rozzi ».
Oppure, come nella repubblica di Kant, fa coesistere il primato della legge
e la non sovranità del popolo, mentre Hegel (al paragrafo 301 dei Lineamenti
di filosofia del diritto) scrive, con reminiscenza roussoiana, il popolo
è «la parte che non sa quel che vuole» e, con reminiscenza kantiana: «sapere
che cosa si vuole e, ancor più, che cosa vuole la volontà che è in sé la
ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione più profonda
che, appunto, non è affare del popolo».
Oppure afferma che si tratta di una finzione (si ricordi il «furto» di Proudhon),
come nel caso di Kelsen: «una finzione, anche quando esiste un legame più
o meno stretto tra la volontà dei rappresentanti e la volontà dei rappresentati,
come nel caso della rappresentanza in una costituzione fondata sugli Stati,
secondo le cui disposizioni i rappresentanti degli Stati sono vincolati
alle istruzioni dei loro elettori, e possono essere rimossi in qualsiasi
momento. Anche in questi casi, infatti, la volontà del rappresentante è
diversa da quella del rappresentato. La finzione dell'identità di volontà
è ancora più chiara se la volontà del rappresentante non è in alcun modo
legata alla volontà del rappresentato, come nel caso della rappresentanza
[...] del popolo in un parlamento moderno, i cui membri sono giuridicamente
indipendenti nell'esercizio delle loro funzioni: situazione che si vuol
definire dicendo che hanno "mandato non vincolante"» (53).
Insomma, democratici o no, al pensiero politico l'equazione «legge-volontà
popolare» non riesce, proprio come non riesce a Smith l'equazione valore-lavoro:
questi ne conclude che la legge del valore-lavoro contenuto non regola il
modo di produzione di merci; quelli che il principio dell'autodeterminazione
non si realizza nello Stato moderno rappresentativo.
Il che è certamente vero se si considera la classe operaia e il suo interesse
ad abolire gli attuali rapporti di produzione.
Ma non è vero se si considerano operai e capitalisti come agenti dello scambio,
il cui interesse consiste nel far rispettare la libertà e l'uguaglianza,
ecc. È in questi rapporti che «cerca scampo» lo Stato moderno rappresentativo,
che in questo senso è veramente lo Stato dell'autodeterminazione del
popolo: solo che le difficoltà che contrastano l'autodeterminazione
sono le difficoltà stesse della volontà; è l'esistenza stessa di questa
«volontà» - che porta segnata in fronte la sua appartenenza ad individui
isolati che scambiano le loro merci - ad indicare che la sua autodeterminazione
non potrà realizzarsi che come volontà di garantire i rapporti di scambio.
Cioè come volontà di tenere in piedi uno Stato a garanzia delle leggi della
circolazione. Il lavoratore può davvero esprimere la sua volontà: ma può
essere solo la volontà di un individuo che scambia la sua merce sul mercato,
e come tale il suo interesse è che venga venduta al suo valore, che venga
rispettata l'uguaglianza e la libertà, ecc., ecc. Ciò che tiene unito
lo Stato, scrive Hegel, non è la forza, ma «unicamente il sentimento fondamentale
dell'ordine, che tutti hanno». Questa e solo questa è la volontà che
può essere espressa: la volontà della persona isolata (abbiamo visto che
il partito non modifica questo isolamento), dell'agente dello scambio.
Cioè una volontà uguagliata, astratta; quando comprano la stessa merce,
operaio e capitalista sono uguali. Ed è questa volontà che può/deve diventare
generale. E se è come agenti del mercato che possono essere uguali, è dunque
solo in questa sfera che si possono equiparare le volontà. Se si presentassero
come agenti dell'altra sfera, della produzione, l'uguaglianza verrebbe
cancellata, non sarebbero più comparabili, non si arriverebbe mai a una
legge. Dunque non la volontà di agente della produzione, ma solo quella
di agente dello scambio può essere uguagliata.
La possibilità di questo uguagliamento è la possibilità stessa dello Stato
moderno.
Insomma bisogna dénaturer operai salariati e capitalisti spostandoli nella
circolazione dove ricompaiono tutti come proprietari di merci, liberi, eguali
e indipendenti. «Proprio l'imporsi degli individui indipendenti gli
uni dagli altri e l'imporsi delle loro proprie volontà» scrive Marx,
«rende necessario il rinnegamento di se stessi nella legge e nel diritto»
(54). Ecco perché per Marx il contrat social di Rousseau, che «mette in
rapporto e in collegamento, mediante un patto, soggetti per natura indipendenti»,
altro non è che «l'anticipazione della "società borghese"
che si preparava dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante
verso la sua maturità» (55).
Di diverso avviso è l'interpretazione secondo la quale la legge e la
volontà generale di Rousseau non avrebbero niente a che fare con la società
borghese. Rousseau si sarebbe fermato alla socializzazione solo politica
non perché «sta anticipando la società borghese», ma soltanto per un limite
storico-oggettivo invalicabile.
Tanto che basterebbe aggiungervi la socializzazione della proprietà per
fare del Contrat social il modello del comunismo. Questa interpretazione
ha certo avuto grandi meriti nel contrastare lo stalinismo, e ne ha tuttora
per ciò che riguarda le libertà civili. Ma non si può tacere che rischia
di finire nell'«utopismo di non capire la necessaria differenza tra
configurazione reale e ideale della società borghese, e di volersi perciò
assumere il compito superfluo di volerne realizzare di nuovo l'espressione
ideale, ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa realtà»
(56).
Quanto alla disputa sulla democrazia rappresentativa, se la volontà possa
essere rappresentata (Rousseau), se la rappresentanza sia una finzione (Kelsen)
ecc., va osservato che se il cittadino potesse dare alla sua volontà una
esistenza autonoma, se cioè possedesse i mezzi per esprimerla, farebbe le
leggi e non andrebbe a votare. Ma una coincidenza diretta tra volontà e
legge abolirebbe o il principio del diritto di voto che si generalizza proprio
con la democrazia moderna, oppure la stessa democrazia moderna che si basa
appunto sulla volontà delegata. La volontà può diventare generale solo se
rompe i localismi, i particolarismi, in coincidenza con l'estendersi
del mercato: quindi, se una condizione della volontà generale è l'esistenza
di cittadini liberi, cioè capaci di volere, altra condizione è che siano
liberi anche dai mezzi per esprimere questa volontà, che altrimenti si esprimerebbe
in altro modo che nella legge dello Stato.
Infatti mentre prima, nel bene e nel nude, mezzi di espressione e volontà
aderivano - si pensi alle autonomie nel Medioevo e persino nella monarchia
assoluta - (57) con lo Stato moderno rappresentativo anche la decisione
di costruire un ponte nel più sperduto villaggio, dice Marx nel Diciotto
Brumaio, diventa un problema di Stato. La dipendenza materiale permette
ora una centralizzazione - grazie al denaro, come abbiamo visto - che la
dipendenza personale non permetteva: viene tutto accentrato e i cittadini
sono privati dei mezzi di espressione della loro volontà. È questa una azione
sistematica dello Stato moderno, che fa i suoi primi passi con la monarchia
assoluta.
I rappresentanti, cioè il parlamento, sono ora il mezzo per esprimere la
volontà. Alla superficie della democrazia borghese le leggi appaiono come
volontà dei cittadini. In realtà per diventare legge la volontà deve essere
dapprima rappresentata. Il cittadino non può dare alla sua volontà una esistenza
autonoma; al contrario, subisce un processo di astrazione, di eguagliamento,
al termine del quale non può realmente decidere, ma solo decidere che altri
decida, e solo a questa condizione può esprimere la sua volontà.
Identificando leggi e volontà dei cittadini si pongono come coincidenti
cose che non lo sono: si saltano termini medi che invece vanno sviluppati.
Per diventare legge le volontà dei singoli debbono trasformarsi nella volontà
di un terzo che le equipari, le equivalga.
La volontà del rappresentante dunque è una volontà accanto alle altre, accanto
a quella dei rappresentati; ma ne è l'equivalente generale.
Ciò che viene delegata non è la volontà che «o è quella stessa o è un'altra:
non c'è via di mezzo» (58). Infatti si presenta direttamente al rappresentante
non la volontà ma il cittadino. Ciò che questi delega non è la volontà ma
la capacità di volere («Si può trasmettere il potere non la volontà») (59).
Appena la sua volontà viene esercitata («durante l'elezione dei membri
del parlamento») (60) essa ha già cessato di appartenergli («appena questi
sono eletti, esso diventa schiavo, non è più niente») (61); da quel momento
non è più capace di volere e quindi non può più delegare alcunché. La volontà
è la sostanza della delega, ma essa stessa non viene delegata.
Rousseau e Kelsen invece pretendono, come abbiamo visto, identità immediata
tra volontà e legge; questo induce il primo a rimandare la democrazia al
«popolo di dei», il secondo a far derivare la norma dalla norma. Tutti e
due contro la rappresentanza, perdono l'occasione di analizzarla e tengono
nei confronti di questa mediazione lo stesso atteggiamento degli «abolizionisti
della moneta» nei confronti dell'altro mediatore, il denaro.
Rousseau arriverà ad ammettere, nelle Considerazioni sul Governo di Polonia,
la necessità dei rappresentanti nei grandi Stati, anche se con tutte le
cautele possibili, mandato imperativo, rotazione ecc.; precauzioni che,
abbiamo visto, lo stesso Kelsen non trova molto efficaci e con ragione:
pretendere che la rappresentanza vincolata non si sviluppi in rappresentanza
non vincolata è come pretendere che la produzione di merci non si sviluppi
in produzione capitalistica di merci (62)
In realtà, insomma, la rappresentanza si sviluppa necessariamente insieme
allo svilupparsi delle persone indipendenti, come il denaro con le merci.
Il perché della democrazia moderna, indiretta, non sta nei «grandi numeri»,
nel fatto che non è possibile nei «grandi Stati» stare tutti in una piazza.
Se fosse così l'elettronica (63) potrebbe risolvere il problema. Il
perché sta invece negli individui isolati produttori di merci, privati e
indipendenti. Se ce ne fossero anche solo due in una piazza, si sbranerebbero
perché i loro interessi, accostati direttamente, sarebbero inconciliabili,
bellum omnium contro omnes.
Ecco perché nessuno scambio sarebbe possibile senza il valore di scambio,
«mediatore universale» (64). I rapporti tra gli uomini debbono essere mediati
dalle cose finché sono produttori privati e indipendenti ecc. La sfera della
circolazione, il mercato, assicura questa mediazione. È qui che ciascuno,
perseguendo il suo interesse privato, persegue l'interesse generale
(65). È questo il regno della «Provvidenza onniscaltra», della «mano invisibile».
Ora, la volontà del rappresentante, della élite politica, si pone come mediazione
universale solo incarnando questo interesse generale che, abbiamo visto,
non può essere che «l'Eden dei diritti» (66), le leggi della circolazione.
Dunque dire rappresentante significa dire libertà, uguaglianza, proprietà,
legge, diritto, ecc..
La socialdemocrazia tedesca era fatta di «rappresentanti»: sta qui la radice
dell'involuzione, non negli «errori» e nei «tradimenti».
I partiti politici e i sindacati rappresentano (67) sì interessi contrastanti,
ma nella sfera della circolazione, lottano per stabilire le condizioni della
distribuzione (questo va detto agli sraffìani che, come Ricardo, si fermano
a questa sfera): un partito - o un sindacato - che agisse per modificare
le condizioni della produzione, sarebbe «anticostituzionale»; ma questo,
lo vedremo, non è e non può essere l'affare dei rappresentanti.
È necessario dunque esaminare il processo attraverso il quale le organizzazioni
del proletariato si sono trasformate fino a prendere la forma dei grandi
partiti politici costituzionali e dei sindacati nazionali, in corrispondenza
della necessità della lotta politica e della lotta economica del proletariato.
Si tratta di capire attraverso quale processo le lotte contro le condizioni
stesse del modo di produzione capitalistico, cioè a livello della sfera
della produzione, decadono continuamente a livello della circolazione (68),
prendendo la forma del partito politico e del sindacato, rappresentanti
del proletariato per la difesa - politica ed economica - del livello storico
del valore della forza-lavoro, per la difesa cioè delle condizioni generali
della società borghese, della legge del valore, contro una borghesia in
preda alla vertigine di far soldi violando le sue stesse leggi.
E non si tratta della mancanza di una linea rivoluzionaria. «Il potere sopprime
la libertà degli operai così come il capitale» afferma Marx nel 1871; a)
movimento economico e b) azione politica, sono «indissolubilmente uniti
» (IX risoluzione della Conferenza di Londra del 1871).
a) Finché il lavoro si cristallizza nelle merci, è in questa forma che i
proletari possono riappropriarsene; ma nello stesso tempo essi comprendono
che fin quando il prodotto del lavoro si presenterà in forma di merce sarà
impossibile una effettiva riappropriazione. Dunque lotta salariale ma nello
stesso tempo lotta contro il lavoro salariato, contro il rapporto di produzione
capitalistico, contro la produzione di merci.
b) finché la società esprimerà un potere politico, i proletari dovranno
lottare per riappropriarsene, ma nello stesso tempo essi comprendono che
fin quando «la forza sociale si separa nella figura della forza politica,
non sarà possibile nessuna emancipazione umana (Marx, Questione ebraica).
Queste cose erano già chiare cento anni fa. Il problema che si pone dunque
non è quello della linea rivoluzionaria, bensì quello di capire perché per
esempio la socialdemocrazia tedesca, che al tempo della sua fondazione queste
cose le sapeva benissimo, ha seguito poi un'altra strada. La sua storia
non può essere spiegata con i «tradimenti» e gli «errori» (Questo modo di
procedere somiglia alla pretesa di spiegare la storia dei rapporti di produzione
come «una falsificazione malignamente organizzata dai governi»). Né la si
può spiegare mettendola sul conto della «burocrazia»: bisognerebbe spiegare
il perché della burocrazia.
D'altra parte ad impedirne il destino non basta la buona volontà dei
dirigenti, per quanto essi soggettivamente possano elevarsi al di sopra
dei rapporti che li determinano.
È a questi rapporti che bisogna guardare, alla «struttura istituzionale»
di questi partiti.
da «MARXIANA», n. 1, Roma 1976
Note
* Queste note sono già apparse, con qualche modifica, presso l'editore
Fischer di Francoforte, col titolo Arbeiterautonomie und Partei nello
Jahrbuch Arbeiterbewegung, n. 3, 1975.
1 KARL MARX, Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, Dietz
Verlag 1953, trad. it. di Enzo Grillo: Lineamenti fondamentali della
critica dell'economia politica, Firenze 1970, volume II, p. 123,
d'ora in poi citato come Lineamenti.
2 Tra gli scritti più recenti di un lungo dibattito si veda J.P. SARTRE,
Il rischio della spontaneità, la logica dell'istituzione, introdotto
da un articolo di ROSSANA ROSSANDA, Da Marx a Marx. Classe e partito,
«il manifesto», settembre 1969. Di Sartre si veda Critique de la raison
dialectique, trad. it. di PAOLO CARUSO, Milano 1963; questo libro interessa
qui per un aspetto che la sinistra italiana ha completamente trascurato;
la descrizione della storia del gruppo che insorge, dal proletariato in
serie al proletariato in fusione, al giuramento, alla fraternità-terrore,
fino allo STUPRO istituzionale (partito, sindacato). L'importanza del
testo è tale che non si vede come si possa fare politica, o critica della
politica, senza comunque tenerne conto.
3 KARL MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica,
trad. it. L. Colletti, nel volume Per la critica dell'economia politica.
Roma 1957, p. 172.
4 Manifesto del partito comunista, I, Borghesi e proletari.
5 Ibid.
6 Sono queste le ragioni che stanno dietro al Che fare? di Lenin.
Va notato che il libro fu scritto solo qualche anno dopo gli Elementi
di scienza politica, di Gaetano Mosca (1896), e sembra essere la risposta
di sinistra alla teoria della classe politica.
7 ROSSANA ROSSANDA, art. cit.
8 Non è di questo partito che parla Marx: «Io ti ricordo prima di tutto
- scrive a Freiligrath nel 1860 - che, dopo che la Lega (dei Comunisti)
fu sciolta, dietro mia proposta, nel novembre '52, io non ho mai appartenuto,
né appartengo a nessuna associazione, segreta o pubblica; che dunque il
partito in questo senso assolutamente transitorio, per me ha cessato di
esistere da 8 anni. [...] Dunque del «partito» nel senso della tua lettera
io non so niente dal '52. Se tu sei poeta io sono critico, e ne ho avuto
sinceramente abbastanza delle esperienze fatte nel '49-52. La Lega,
come la 'Società delle stagioni', come cento altre società, sono
soltanto un episodio nella storia del partito, che si costruisce naturalmente
(naturwuchsig) sul terreno della società moderna... Ho dunque in questa
lettera cercato di eliminare l'equivoco che io sotto partito intendessi
una 'Lega' morta da 8 anni, o una redazione di giornale sciolta
da 12 anni. Sotto partito io intendevo il partito nel grosso senso storico
del termine».
9 MICHAEL VESTER, Die Entstehung des Proletariats als Lernprozess,
Europaische Verlagsanstalt, Frarkfurt am Main 1970. Si veda per lo stesso
periodo l'ormai classico E.P. THOMPSON, The Making of the English
Working Class, trad. it. di Bruno Maffi, Milano 1969.
10 Cfr. VITTORIO FOA, Sindacati e lotte sociali in Storia d'Italia,
volume quinto, tomo secondo, Torino 1973, pp. 1718-1828, che rileva la non
coincidenza tra riscossa operaia e progressi elettorali dei partiti operai.
11 Cfr. STEFANI MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale,
Firenze 1972, p. 25.
12 Critica al programma di Gotha.
13 ROBERTO MICHELS, La sociologia del partito politico, Bologna
1966.
14 Com'è noto, circa ventimila pagine manoscritte di Marx giacciono
ancora indecifrate negli archivi di Mosca. Ne è stata annunciata la pubblicazione
per l'anno 2000. Il Pcus, se tutto va bene, ci avrà messo ottant'anni
per pubblicare tutto Marx.
15 KARL MARX, II Capitale, Roma 1970, volume I, tomo I, p. 96
16 Cfr. KARL MAKX, Lineamenti, cit., II, p. 123.
17 Ivi, II, p. 135.
18 Ivi, II, p. 124.
19 J.J. ROUSSEAU, Le contrat social, III, 15. E si veda UMBERTO
CERRONI, Società civile e Stato politico in Hegel, Bari 1974, p.
76.
20 Lineamenti, cit.. I, p. 214.
21 Ivi, I, p. 209.
22 Ivi, I, p. 106.
23 Ivi, I, p. 209.
24 Ibid.
25 G. SOLARI, Individualismo e Diritto Privato, Torino 1939, p.
287, citato da Cerroni.
26 Cfr. Cerroni, cit..
27 KARL MARX, Il Capitale, cit., I, 1, p. 193.
28 Ibid.
29 Trad. it. F. Messineo, Bari 1954, § 299, pp. 255, 256, 257.
30 Cfr. KARL MARX, Scritti inediti di economia politica, Roma 1963,
p. 34. La traduzione è stata in parte modificata.
31 Ivi, pp. 35, 36.
32 Lineamenti, cit., p. 98.
33 Ibid.
34 Ivi, p. 99.
34 Ivi, II, pp. 141, 142.
35 Ivi, II, p. 124.
36 Ivi, II, p. 148.
38 Ivi, II, p. 146.
39 Ivi, II, p. 148.
40 L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 325.
41 Ibid.
42 Ibid.
43 J.J. ROUSSEAU, Le Contract social, II, 7.
44 Ivi II, 7.
45 L'ideologia tedesca, cit., p. 325.
46 II Capitale, I, I, p. 107.
47 Lineamenti, cit., I, p. 97.
48 Cfr. L'ideologia tedesca, cit., pp. 324-325.
49 Che la merce e lo Stato abbiano la stessa struttura è stato sottolineato
tra gli altri da E.B. PASUKANIS, La teoria del diritto e il marxismo
in Teorie sovietiche del diritto, Milano 1964, che, nota Umberto
Cerroni, «ha cercato di estendere, per così dire, al campo delle categorie
giuridiche il procedimento generale che Marx ha applicato al campo delle
categorie economiche». Per parte sua UMBERTO CERRONI, La libertà dei
moderni, Bari 1968, p. 112, ritiene che si debba «verificare se e in
che modo dalla metodologia elaborata da Marx sia possibile estrarre una
linea di ricerca e ricostruzione storico-teorica attorno al diritto che
sia in qualche misura avvicinabile, per rilevanza critica, a quella che
Marx stesso ha seguito per l'economia politica nel Capitale». Si veda
ancora di UMBERTO CERRONI, Teoria della crisi sociale in Marx,
Bari, 1971, dove a p. 177 si osserva che il diritto è «regolatore formale,
di una equivalenza che non è equivalenza (equivalenza solo per la forma),
esattamente come l'equivalenza dello scambio produttivo moderno (salario
contro uso della forza lavoro) è non-equivalenza: appropriazione di plusvalore
senza contropartita (Something for nothing). Critica dello Stato (rappresentativo)
e critica del diritto (formale) si innestano alla critica della inequivalenza
dello scambio che produce. Ne nasce una critica sociale, che si radica ad
un livello naturalistico rispetto alla sfera della volontà, proprio come
la ripresa delle categorie naturalistiche in economia consente la critica
del meccanismo capitalistico nel suo insieme». Per un paragone tra valore
e Stato si veda BERTELL OLLMAN, Alienation:Marx's conception of
man in capitalist society, Cambridge, 1971. E ancora LAURA AMMANNATI
in un saggio su Stato e merce, convegno Issoco, Firenze 1975; ALAN
WOLFE, New directions in the marxist theory of politics, «Politics
and Society», IV, n. 2, 1974; FRANCESCO FISTETTI, Critica dell'economia
e critica della politica, De Donato, Bari, 1976.
50 Cfr. L'ideologia tedesca, cit., p. 329.
51 THOMAS HOBBES: «I legami sociali si stringono di libera volontà », Elementi
filosofici del cittadino, Torino 1948, p. 76.
52 J.J. ROUSSEAU, Contrat social, III, 4.
53 HANS KELSEN, Reine Rechtslehre, trad. it. di Mario G. Losano
La dottrina pura del diritto, Torino 1966, pp. 332
54 L'ideologia tedesca, cit., p. 325.
55 KARL MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica,
cit., p. 171. Si veda anche L'ideologia tedesca, cit., p. 73.
56 KARL MARX, Lineamenti, cit. I, p. 219. L'interpretazione
alla quale si è accennato non trova concorde VALENTINO GERRATANA che, per
esempio, scrive, nella citata introduzione al Discorso sull'origine
e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, p. 60: «In effetti
l'idea centrale del Contratto sociale, il trasferimento della sovranità
politica dagli uomini alla legge, come espressione della volontà generale,
mediazione e garanzia della libertà di tutti, ha qualcosa di mistico e di
religioso: presuppone in ogni caso un mondo dissociato, in cui l'universale
è separabile dal particolare, gli interessi comuni dagli interessi privati,
e che non può vivere senza mediazione religiosa. Ma si tratta di un misticismo
che, indipendentemente da ogni teoria, è prodotto direttamente da un processo
reale di mistificazione della moderna società borghese». E ancora: «La legge
al di sopra degli uomini: è questa la soluzione di Rousseau, ed è la soluzione,
il grande mito, della democrazia borghese». A proposito di Gerratana, scrive
EUGENIO GARIN nella Introduzione agli Scritti politici, di J.J.
Rousseau, Bari 1971, p. LXI: «Giustamente insiste sulla 'forte carica
morale' V. Gerratana, nel suo saggio su L'eresia di J.J. Rousseau...
in cui il rapporto con Marx (e Engels) è posto con grande misura ». E si
veda UMBERTO CERRONI, Teoria politica e socialismo, Roma, 1973,
p. 135: «il radicalismo politico di Rousseau getta essenziali presupposti
politici per la nuova rivoluzione sociale. Li getta, ovviamente, alla maniera
stessa in cui la teoria valore-lavoro di Smith e Ricardo getta i presupposti
della teoria marxiana del plusvalore. Si tratta di un collegamento critico».
Ed in effetti ci sembra che i neo-roussoiani in 'politica' ripetano
le stesse incomprensioni dei neo-ricardiani in 'economia'.
57 Ambiti d'autonomia, come per esempio i ceti provinciali, le associazioni
regionali, le forze locali, le signorie fondiarie e cittadine, i poteri
intermedi, persistono certamente, come elemento antico, ancora durante l'assolutismo.
Scrive Oestreich: «L'amministrazione assolutista non conosceva nessun
'inquadramento' totale di una società di massa livellata, fino nelle
famiglie, non si ingeriva nel complesso della vita privata del singolo,
non possedeva la brutale volontà e le conseguenti possibilità di dirigere
l'opinione e le tendenze pubbliche nel senso di una ideologia di Stato
e di partito unitaria e ufficiale ». «Non si può assolutamente parlare di
un controllo totale della sfera pubblica e personale da parte dello Stato
assoluto». E cita KARL MANNHEIM: «L'assolutismo era solo apparentemente
totalitario. Per lo più esso non possedeva i mezzi per esplicare il predominio
sulla totalità della vita degli abitanti del territorio in questione». Vedi
GERHARD OESTREICH, Problemi di struttura dell'assolutismo europeo,
trad. it. di Sergio Zeni, nel volume Lo Stato moderno, Bologna
1971, I, p. 175.
58 J.J. ROUSSEAU, Contrat social, III, 15.
59 Ivi, II, 1.
60 Ivi, III, 15.
61 Ibid.
62 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Considerazioni sul governo di Polonia, in
Scritti politici, Bari 1971, a cura di Maria Garin, volume terzo,
p. 204: «Uno dei maggiori inconvenienti dei grandi Stati, quello fra tutti
che fa della libertà la cosa più difficile da conservare, è che il potere
legislativo non può presentarvisi direttamente, e può agire solo per deputazione.
La cosa include aspetti buoni e cattivi, ma il male supera il bene. È impossibile
corrompere il legislatore in corpo, ma ingannarlo è facile. I suoi rappresentanti,
invece, sono difficili da ingannare, ma facili da corrompere, e raramente
accade che corrotti non siano». «Vedo due mezzi atti a prevenire il terribile
male della corruzione... mutare spesso i rappresentanti... impegnare i rappresentanti
a seguire scrupolosamente le istruzioni ricevute». Invece per Lenin mandato
imperativo, revocabilità permanente, organismi esecutivi e legislativi al
tempo stesso, costituirebbero la soppressione del parlamento. Per una lettura
di Stato e rivoluzione di Lenin si vedano, tra gli altri CABLO CICERCHIA,
Leninismo e rivoluzione socialista, Bari, 1970, e UMBERTO CERRONI,
Teoria politica e socialismo, Roma, 1973, pp. 123-150. E ancora
OSKAR ANWEILER, Storia dei soviet, Bari, 1972, e GIULIANO PROCACCI,
II partito nel sistema sovietico. 1917-1945, in «Critica marxista»,
gennaio-febbraio, marzo-aprile 1974.
63 Cfr. UMBERTO CERRONI, Tecnica e libertà, Bari 1970 e Teoria
politica e socialismo, cit., p. 95.
64 KARL MARX, Lineamenti, cit. I, p. 96.
65 Ibid.
66 KARL MARX, II capitale, cit., I, I, p. 193.
67 «Fra l'individuo e lo Stato si inseriscono quelle formazioni collettive
che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui».
HANS KELSEN, Essenza e valore della democrazia, nel volume I
fondamenti della democrazia, Bologna, 1966, p. 24.
68 Cfr. Riforma sociale o rivoluzione, di ROSA LUXEMBURG.
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