II tabacco, nella sua forma d'uso più comune- la sigaretta-, viene consumato da milioni di europei.
Eppure, la stragrande maggioranza di questi è totalmente ignara della storia di questa pianta e,
in particolare, della contraddittoria diversità nei suoi scopi d'uso e nei suoi effetti,
sperimentati dai consumatori occidentali e dai nativi delle Americhe, luogo d'origine del tabacco.
In altri termini, i fumatori non sanno che cosa fumano. Se ne fossero a conoscenza, sarebbero
maggiormente consapevoli, oltre che degli imbrogli e delle sofisticazioni delle industrie
produttrici di sigarette - imbrogli purtroppo ovvi nella nostra società consumistica -,
anche di un altro più grave "imbroglio", di natura culturale. Un "imbroglio" di cui tutti,
fumatori e non, siamo responsabili e vittime al contempo.
A riprova del fatto che i fumatori non sanno che cosa fumano, è sufficiente notare che la
maggior parte di essi non ha mai visto una pianta di tabacco, e non saprebbe riconoscerla.
La diffusione del tabacco - nelle sue due principali specie Nicotiana tabacum L. e N.rustica L.
(famiglia delle Solanaceae) - e il suo utilizzo come droga voluttuaria fra i Popoli occidentali,
sono storicamente frutto del contatto fra il Nuovo e il Vecchio Mondo, avvenuto alla fine del XV°
secolo, un fatto che si è verificato per diverse specie
vegetali originarie delle Americhe, destinate a diventare cultigeni primari nelle economiche
agricole dì tutto il mondo {mais, patata, pomodoro, ecc.}.
Nelle americhe il consumo del tabacco rientra da tempo immemorabile nella maggior parte
dei riti religiosi delle popolazioni indigene, e viene utilizzato come mezzo di
comunicazione con gli spiriti.
In effetti, nelle sue regioni native, il tabacco è stato e viene
tuttora impiegato come un puro enteogeno (allucinogeno), in grado di indurre visioni e modificazioni
dello stato di coscienza, che frequentemente raggiungono la transe e l'uscita dal corpo".
È una tipica pianta "alleato" degli sciamani, utilizzata, similmente ai più comuni enteogeni
vegetali, come agente "psicodiagnostico" durante le cerimonie di cura, e nelle pratiche
divinatorie.
Inoltre, presso tutte le popolazioni indigene, il tabacco viene utilizzato anche come efficace
medicinale, nella cura delle più disparate malattie, comprese quelle per le quali la sigaretta
occidentale è ritenuta altamente nociva.
Nel 1580, a poco più di 80 anni dall'arrivo di Colombo in America, il medico di Siviglia Monardes
scriveva a proposito di questa "nuova" pianta:
«Una delle più notevoli cose riguardo quest'erba è il modo in cui viene utilizzata dai preti
degli Indiani. Quando c'è un importante affare, per il quale le autorità locali ritengono necessario
consultare i preti, si rivolgono a loro [..] Il prete prende
alcune foglie di tabacco, le brucia, e inala il fumo attraverso il naso e la bocca,
mediante un tubo, e facendo ciò, cade a terra come morto, restandovi per un periodo di tempo
dipendente dalla quantità di fumo inalato; quando l'erba ha esaurito la sua azione, egli risponde,
in base alle fantasie e alle illusioni che ha visto, ch'egli interpreta come crede, o come il
diavolo gli ha suggerito...» (Elferink, 1983:115).
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È quasi inutile dire che le interpretazionì diaboliche fanno parte delle fantasie dì chi scrive -
uomo di cultura occidentale inquisitoriale -, e non dei "preti degli Indiani",
più propriamente identificabili con la figura dello sciamano. Diavolerie a parte, da questa
descrizione risulta evidente il ruolo di pianta divinatoria ricoperta dal tabacco;
un ruolo universalmente assunto dai vegetali enteogeni,.
Torquemada, trattando dei costumi degli Aztechi (che chiamavano la pianta picietl),
riporta: «questa pianta è considerata da alcuni come il corpo di una dea, ch'essi chiamano
Cihuacohatl. E quindi, sebbene sia dotata di qualche proprietà medicinale, deve essere
considerata come sospetta e pericolosa, principalmente perché porta via la ragione,
e quelli che la prendono rimangono confusi» (ibid.).
Queste considerazioni, oltre a confermare le forti proprietà psicoattive del picietl,
mostrano come il rapporto negativo e negativizzante dell'uomo europeo con il tabacco si
sia instaurato sin dagli inizi di questo contatto.
Ciò avvenne per opera dell'informazione demonizzante promossa dai cronisti dell'epoca,
rappresentati per lo più da preti cattolici, che non vedevano di buon occhio una pianta
troppo implicata nelle questioni religiose.
Del resto, la classe prelatizia inviata dall'Europa a "curare" e "mettere sulla retta via"
i nuovi "selvaggi", giunse in America con tutto il suo potenziale repressivo nei confronti
dei culti ierobotanici; un potenziale ben collaudato in patria da secoli di spietata attività
inquisitoriale.
Presso gli Aztechi, il picietl era dunque considerato come il corpo di una dea, e
diverse altre civiltà precolombiane avevano divinizzato il tabacco, collocandolo in significativi
momenti mitologici delle loro cosmogonie e antropogonie. I Maya, che chiamavano la pianta
kutz, ci hanno lasciato, nei cosiddetti Codici e nelle loro rappresentazioni artistiche,
diverse effigi di divinità nell'atto di fumare un grosso "sigaro" dì tabacco.
La più nota fra queste, è quella relativa al bassorilievo co locato su un lato dell'entrata
del santuario del Templio della Croce, a Palenque (Chapas, Messico), datato nel Periodo
Classico Maya (300-900 d.C.); in essa è rappresentato il "dio giaguaro del numero sette"
intento a fumare tabacco, mentre lo sta inalando attraverso una grossa "sigaretta" o
una pipa tubolare.
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Ancora oggi, fra le popolazioni Maya dello Yucatan, sopravvive la credenza che i Chac -
le divinità della pioggia - sono accaniti fumatori, e le comete (o le meteore) sono ritenute
le sigarette accese ch'essi gettano via.
Oltre alle ripetute osservazioni dei cronisti del perìodo della Conquista, i rapporti etnografici
relativi alle popolazioni attuali dell'America indigena dimostrano la realtà degli effetti
enteogeni del tabacco. Gunther Stani (1925) e Johannes Wilbert (1987) hanno
radunato e discusso una cospicua documentazione in merito, riferita alle tribù sudamericane,
in particolare a quelle amazzoniche. Da questa, risulta ben evidente il ruolo di enteogeno
assunto dal tabacco durante le cerimonie collettive, i riti iniziatici, e i rituali sciamanici
di cura di quelle popolazioni.
I nativi hanno elaborato un sistema alquanto diversificato di metodi e di procedimenti di
assunzione del tabacco.
Esso viene inalato (fumato), sniffato, masticato, succhiato, ingerito (in decotto),
e persino introdotto (un suo estratto) per via rettale.
Quest'ultimo metodo, ora pressoché abbandonato, provoca profondi stati di transe e di coma,
che a volte si concludono con il decesso dell'individuo.
Il tabacco, assunto nei vari modi orali, viene quasi sempre mescolato con un agente basico,
quale la cenere di una determinata
pianta o la calce, che favorisce l'estrazione e l'assunzione degli alcaloidi nicotinici.
Fra i Tenetehara dei Brasile amazzonico, lo sciamano, nel corso delle cerimonie di cura,
danza, canta, e agita il suo sonaglio «fermandosi di tanto in tanto per tirare profonde boccate
da una lunga sigaretta, fatta di tabacco nativo avvolto in corteccia della pianta
tawarì. Egli presto rimane intossicato dal fumo, combinato con il ritmo del suono
e con la danza. Questo processo è noto come il "chiamare lo spirito".
Lo spirito risponde solo ai suoi suoni distintivi, e lo stesso sciamano è pronto a
ricevere lo spirito solo dopo aver inalato grosse quantità di fumo di tabacco (..)
Durante questo tempo, "lo spirito è forte", e lo sciamano perde conoscenza»
(Wilbert, 1972:56).
Presso diverse tribù, il tabacco viene consumato congiuntamente a piante o bevande
enteogene, come la datura o l'ayahuasca, ma sono noti casi in cui il tabacco rappresenta
l'unico agente psicoattivo, impiegato dagli sciamani per trasportare se stessi
Altrove, nei regni del sovrannaturale.
I Warao, stanziati sul delta del fiume Orinoco, in Venezuela, durante le cerimonie iniziatiche,
fanno uso di incredibili quantità di tabacco, e solo di questa pianta, per cadere in transe.
Essi assumono ii tabacco fumandone grosse "sigarette" lunghe 50-75 cm.
Fra i differenti tipi di sciamano presenti nelle comunità Warao, l'habisanuka (lo "sciamano luce")
opera viaggiando nel suo stato di transe, indotto dal tabacco, verso la parte orientale
della volta celeste. Qui, secondo la cosmologia warao,
è presente un ponte celeste costituito di fumo di tabacco, che l'habisanuka è tenuto a
frequentare e a mantenere -, che collega la comunità umana con lo spirito supremo (Bahana)
orientale.
II mantenimento di questo ponte di fumo, il quale garantisce abbondanza di vita sulla terra,
avviene mediante l'incessante azione del fumare tabacco da parte di questi sciamani.
L'associazione "tabacco/contatto con il divino" è qui ben evidente. Nei riti di iniziazione warao
finalizzati all'acquisizione dei poteri sciamanici, i novizi vengono lasciati per diversi giorni
in un luogo appartato delia foresta, a digiuno, e devono fumare tabacco incessantemente,
senza distacchi temporali fra l'ultimo boccone di una "sigaretta" e il primo di
quella successiva (va tenuto conto del fatto che la quantità di tabacco di una "sigaretta"
warao è maggiore di quella di un intero pacchetto di sigarette occidentali).
Dopo alcuni giorni passati in questo modo, il novizio perde conoscenza, cadendo in uno stato
di transe, durante il quale egli incontra le entità sovrannaturali, che "lavorano" su di esso,
per trasformarlo in un nuovo sciamano.
Al risveglio, il nuovo sciamano, allo scopo di rafforzare i poteri così acquisiti, dovrà
continuare a fumare tabacco incessantemente ancora per circa un mese.
La quantità di tabacco utilizzata nei riti warao è enorme, e i potenti "viaggi" sperimentati
dai loro sciamani verrebbero facilmente da attribuire a questi sovradosaggi;
eppure, sono noti numerosi altri casi in cui profondi stati visionari vengono provocati
fumando quantità di tabacco inferiori.
Sarà anche il caso di sottolineare che l'incidenza del cancro ai polmoni sulla mortalità di
queste popolazioni è di gran lunga inferiore a quella corrispondente alle popolazioni europee.
Non intendo soffermarmi oltre nella descrizione del rapporto che queste popolazioni intrattengono
con il tabacco, e non per mancanza di documentazione.
Un fatto appare certo: il tabacco viene utilizzato come un enteogeno, è un enteogeno, e come tale,
può indurre visioni e altri profondi stati modificati della coscienza.
È un dato ben confermato, sebbene ignoto alla maggior parte dei fumatori occidentali.
Tutto questo nelle Americhe, culla originaria del rapporto dell'uomo con il tabacco.
Quanto siamo lontani dalla nostra cancerogena sigaretta! Che cosa è successo?
A cosa è dovuta questa abnorme diversità d'effetti? La questione relativa al fatto che una pianta
possa essere considerata enteogena in quanto tale, o debba essere considerata enteogena quando
utilizzata come tale, trova proprio nel tabacco un esempio-limite interessante e, forse,
chiarificante.
Nel 1519, dall'America il tabacco approdò alla corte di Spagna, e in breve tempo la sua coltivazione
si diffuse in tutta Europa. Qui venne considerato come una miracolosa pianta medicinale, una
panacea per tutti i mali, e il suo uso come droga voluttuaria si radicò velocemente fra
la popolazione, nonostante le pesanti misure proibizioniste adottate dai diversi governi.
Nei paesi euro-asiatici, il proibizionismo sul tabacco imperversò, del resto inefficacemente,
per un paio di secoli, e fu molto violento.
In diverse nazioni era prevista la pena capitale per gli "spacciatori" di tabacco,
e persino per i semplici consumatori recidivi.
In Turchia, dove, attorno al 1650, si diffuse l'uso del tabacco da fiuto, a chi era giudicato
reo di aver fiutato tabacco, venivano perforate le narici.
In Persia e in Abissinia, al malcapitato andava anche peggio, poiché in questi paesi vigeva
il gentil costume di asportare l'intero naso dello "sniffatore" di tabacco,
a mo' di sequestro del "corpo del reato" (Lewin, 1924:366-7).
Tuttavia, poiché la madre di tutti i proibizionismi è l'ignoranza, e l'ignoranza si adegua
sempre alla convenienza, mano a mano tutte le nazioni, fiutando l'affare,
si misero a corteggiare il tabacco, quale nuovo lucroso introito statale, e ne monopolizzarono
la coltivazione e il commercio. Ciò si verificò ovunque, anche in quelle nazioni dove l'uso
del tabacco era nativo, ad esempio, in Messico, con l'introduzione del Monopolio di Stato,
la cultura del tabacco venne concentrata in pochi punti, per controllarla meglio:
«delle guardie percorrevano il paese in lungo e in largo, e distruggevano ogni
cultura di tabacco "abusiva", mettendo in contravvenzione ogni povero indiano,
che trovassero a fumare un sigaro fatto [da millenni] con tabacco di produzione sua propria»
(ibid. :368).
La convinzione che il tabacco sia dannoso alla salute, è una recente appropriazione della
irrequieta cultura occidentale, così spesso pronta a riversare su ingigantiti capri espiatori
le colpe dell'erudita inconsapevolezza.
Al giorno d'oggi, la parola "tabacco" viene per lo più associata co la parola "cancro"
- in una maniera pressoché automatica, quasi a livello di "riflesso condizionato" -, e
il forte valore negativo di questa
associazione influisce su tutta la sfera d'approccio alla pianta.
Eppure, nonostante l'associazione tabacco/cancro proposta dai medici occidentali contenga
qualcosa di veritiero, si tratta pur sempre di una parte (e forse piccola)
della "verità" e delle possibilità esperenziali vissute dai consumatori.
A quanto pare, alla parte più intima di questa "verità" non spetta a noi occidentali l'accesso.
Viene nuovamente da chiedersi: che cosa è successo? Cosa abbiamo fatto al sacro tabacco,
a questo "cibo degli dèi"?
Un esiguo numero di studiosi occidentali - fra quelli non al soldo di Philip Morris,
Dunhill, e altre case "producici" di tabacco si sono interessati seriamente alla questione,
formulando spiegazioni che restano tuttavia viziose, contraddittorìe, o insufficienti.
V'è chi ha cercato di porre un rimedio a questa stridente contraddizione, chiamando
in causa fattori quali le differenze dei modi di assunzioneo dei processi di lavorazione
della pianta, o le differenze biochimiche fra i cultivar.
I diversi modi di assunzione del tabacco possono contribuire a una differenza dei suoi effetti
sull'uomo. È credibile il fatto che bere, sniffare, o introdurre per via rettale
grosse quantità di estratto di tabacco, provochino effetti più profondi
e di più lunga durata di quelli indotti dal fumo di qualche sigaretta; ma è pur vero che,
presso numerose tribù native delle Americhe, gli effetti enteogenici del tabacco si
manifestano fumandolo, ovvero utilizzando il medesimo modo d'assunzione degli occidentali.
Fra i numerosi composti individuati nel tabacco e nel suo fumo, accanto ai noti
alcaloidi nicotinici, che non sembrano essere enteogeni, sono stati ritrovati
armano e norarmano, due alcaloidi B-carbolinici psicoattivi, già noti poiché presenti
nell'ayahuasca, la bevanda allucinogena dell'Amazzonia.
Le B-carboline sono molecole dotate di effetti psicoattivi, e sono state recentemente ritrovate,
come molecole endogene, anche nella ghiandola pineale dell'uomo,
dove parrebbero ricoprire un importante ruolo nell'attività onirica.
Alcuni studiosi (es. Janiger, 1976) hanno voluto vedere, nelle B-carboline scoperte
nel tabacco, la spiegazione degli effetti enteogenici della pianta; ma la concentrazione
di questi composti è risultata troppo bassa, tale da non poter giustificare significativi effetti
sull'uomo. Inoltre, queste B-carboline sono state ritrovate anche nelle sigarette di
fabbricazione occidentale, un fatto che non spiega la differenza degli effetti fra i
consumatori occidentali e quelli amerindi.
Anche le manipolazioni genetiche a cui sono sottoposte le piante coltivate in Occidente,
possono incidere sulla differente qualità del prodotto finale, parimenti alle tecniche
impiegate nella loro coltivazione. Anzi, è probabile che, dietro agli ormai secolari
"segreti industriali" delle case produttrici di tabacco occidentali
- monopolìzzatrici, oltre che del suo commercio, di buona parte della ricerca e della
conoscenza scientifica che lo riguarda -, si celi un tassello fondamentale per la soluzione
dell'enigma qui sollevato.
Ancora, sono state avanzate ipotesi che attribuiscono la differenza d'effetti alla differente
genetica delle popolazioni, o che chiamano in causa una "suscettibilità" verso il tabacco,
che sarebbe peculiare delle popolazioni indigene americane (Elferìnk, 1983:120).
A tale proposito, è interessante notare che, quando il tabacco, nel XVI o XVII secolo,
attraverso i contatti e la "mediazione" europea, raggiunse la Siberia, nell'Asia settentrionale
(sede del più arcaico sciamanesìmo), esso venne velocemente adottato dagli
sciamani nelle loro pratiche, recuperando in tal modo il significato religioso
e la funzione enteogena che questa pianta ha sempre avuto fra gli sciamani amerindi
(Wìlbert, 1972:56).
Nonostante gli sforzi interpretativi scientifici - del resto esigui -, preferisco mantenere
un'osservazione "culturale" di questo enigma, non ritenendo che la biochimica e la genetica
possano assumersi da sole questa responsabilità: l'uomo occidentale ha desacralizzato il tabacco,
lo ha privato delle sue potenzialità enteogeniche, e ciò si è probabilmente verificato attraverso
l'opera di decontestualizzazione e di ripetuta profanazione della pianta e dei suoi effetti.
Tra i diversi fattori di profanazione occidentale delia sfera sacrale del tabacco, ricopre un ruolo
decisivo quella falsa forma di "liberalizzazione" sotto cui ci viene concesso l'uso di una droga,
chiamata Monopolio di Stato.
Da una prima fase di uso libero di una pianta, a quella successiva di un suo uso clandestino
(ma, in un certo senso, ancora "semi-libero") a causa del conseguente proibizionismo,
sino alla fase della sua legalizzazione e monopolizzazione statale, si trattadi
un processo che sembra essersi verificato nell'approccio occidentale a diverse piante
sacramentali, ora banali droghe quotidiane, quali il caffè, il té, e, appunto, il
tabacco [riguardo il rapporto originario dell'uomo con il caffè e con il té, i
dati evidenziano un loro ruolo come piante sacramentali presso le popolazioni originarie.
Nei miti d'origine di entrambe le piante, queste appaiono diretta emanazione della divinità;
attualmente, sono per lo più vissute come banali droghe dì "distrazione" quotidiana].
La monopolizzazione statale di una droga comporta la definitiva interruzione del rapporto diretto
fra il consumatore e la fonte naturale della droga, la pianta, e ciò provoca in un qualche modo
la "disattivazione" del rapporto preferenziale - quello esistenziale - del consumatore con la
droga.
Più precisamente: LA MONOPOLIZZAZIONE STATALE DI UNA PIANTA SACRAMENTALE PROVOCA
(O COMPLETA) LA DISATTIVAZIONE DEI SUOI EFFETTI ENTEOGENICI, CON CONSEGUENTE SUA TRASFORMAZIONE
IN DROGA SOCIALE.
E - tornando al tabacco -, come si suol dire, oltre alla beffa, il danno, poiché, non solo
ci siamo privati delle sue proprietà visionarie e rivelatrici, ma l'abbiamo pure trasformato
in uno dei più diffusi veleni di cui, con quel masochismo peculiare della nostra società,
ci nutriamo.
Ecco, dunque, fin dove può giungere il processo di disumanizzazione della macchina culturale
in cui viviamo, tale da disattivare, in pochi secoli, umani e plurimillenari sacramenti,
chiavi esistenziali fondanti il nostro divenire!
Di quale vizioso processo di "addomesticamento della molecola selvaggia" ci stiamo
(reichianamente) corazzando!
Queste considerazioni appaiono ancora più allarmanti se applicate su un'altra pianta enteogena:
la Cannabis, o marijuana, la pianta di Shiva. Dalla fase del suo
libero uso (ai tempi di Baudelaire, Gautier, e degli altri "poeti maledetti"),
passando per quella proibizionista, siamo forse giunti ora all'esaurimento di quest'ultima, e
si stanno preparando i presupposti per l'inìzio di una nuova fase, quella della sua
legalizzazione; un processo che, come ho detto, si è già verificato per altre
piante, e che si è ripetutamente concluso con la loro definitiva accettazione da parte
dei governi occidentali, attraverso la monopolizzazione statale, da alcuni anni, in varie nazioni
occidentali si presentano segnali di fumo, che fanno ritenere che qualche cosa si stia
modificando nel rapporto istituzionale con la cannabis, e ciò ha indotto molti a ritenere che
il momento della sua legalizzazione sia imminente, sono in tanti ad attendere questo momento,
quale importante evento di liberazione sociale, pensando - a buona ragione - che
è ora di finirla di rischiare il carcere per una "droga" la cui nocività (personale e sociale)
è di gran lunga inferiore a quella di una delle più comuni droghe di stato: l'alcool,
Eppure, se tanto mi da tanto, ovvero, se i meccanismi che inducono un governo occidentale
a "liberalizzare" una droga sono sempre gli stessi (e non mi illudo del contrario},
e considerato quanto è accaduto al tabacco, valuto con timore il sopraggiungere della
monopolizzazione statale della cannabis.
La legalizzazione di una "droga" viene sempre intesa, e purtroppo realizzata, come monopolio
statale, e non ci si illuda che i nostri governi si comporterebbero diversamente nei confronti
della cannabis. Confesso, tuttavia, che ho incontrato, sorprendentemente, molti illusi su
tale questione, così come, numerosi sono coloro che non si sono neppure accorti di questo
"piccolo particolare".
Il sopraggiungere, nel nostro paese, di governi con programmi d'azione di tipo imprenditoriale,
e l'infiltrazione, in questi, di compromesse personalità farsamente autoproclamatesi bandiere
di un "antiproibizionismo" d'elite e puritano, che ben poco ha avuto a che fare con il puro
amante e consumatore della cannabis e con i suoi diritti, anche questi fattori non
favorirebbero di certo la smonopolizzazione dell'idea di legare (legalizzare) la marijuana.
Vale forse la pena ricordare che il monopolio sulla cannabis comporterebbe, fra l'altro,
l'impossibilità di coltivare la pianta, allo stesso modo in cui - come è noto -nessun europeo
è attualmente libero di coltivare piante di tabacco.
Un luogo comune dell'imagerie dei consumatori di cannabis - forse il più comune -
è quello dì vedere finalmente la marijuana venduta in tabaccheria: entrare nella tabaccherìa,
proprio quella che sta sotto casa, acquistare a basso costo la marca di sigarette di marijuana
preferita, e accendersene una appena usciti dal negozio, di fronte a tutti.
È stato e continua a essere il sogno di tanti. Ma siamo proprio sicuri che la drastica
rottura che in tal modo si verificherebbe nel rapporto personale con la pianta, già
fortemente precarizzato dal proibizionismo, non ne comprometterebbe gli effetti, come sembra
si sia verificato per il tabacco?
Nella nostra società, l'opera di desacralizzazione della cannabis è in atto da tempo.
Ciascun consumatore di marijuana ne è a suo modo responsabile, per lo più inconsapevole.
Gli effetti psicoattivi della pianta sono ancora ben percepiti e vìssuti dai consumatori,
ma il processo di "disattivazione" delle sue potenzialità enteogeniche appare iniziato,
o per lo meno, nulla fa ritenere il contrario.
Quanti fumatori di marijuana o di hashish ricordano i loro primi " joint' accompagnati da
esperienze di tipo "psichedelico", e che solo di rado - fra i consumatori abituali - si sono
in seguito ripresentate. E quanti, sempre fra i consumatori abituali, riconoscono gli effetti
"più psichedelici" dei joint fumati dopo un lungo periodo dì astinenza; sono anche in molti a
ricordare come i joint più "rivelatori", nella loro esperienza con la cannabis, quelli costruiti
con potenti marijuane tropicali, fumati sul luogo di produzione, lontani dalla propria routine
quotidiana di approccio alla pianta. Ancora, i consumatori quotidiani di cannabis e dei suoi
derivati sono ben consapevoli, a proprie spese, che nel rapporto personale con questa pianta
non è tutto "rosa e fiori".
È probabile che nell'individuale opera quotidiana di profanazione della cannabis,
attraverso il suo utilizzo nei più disparati contesti ariflessivi, si celi il primo germe
di quel processo culturale-fisiologico che trasforma una pianta sacramentale in una droga sociale.
Non c'è uomo al mondo più profanatore di se stesso dell'uomo di cultura occidentale,
e il suo rapporto con i suoi sacramenti è da secoli disastroso. Estrapolando la visione pessimista
qui maturata, la fantasia porterebbe - in analogia con quanto è accaduto per il tabacco
- a vedere in futuro applicato alla cannabis {sempreche, appunto, non sia già iniziato)
quel processo di "addomesticamento della molecola selvaggia", mediante il quale siamo soliti
trasformare, nel giro di poche generazioni, piante sacramentali in droghe sociali, socialmente
(massivamente) "accettabili", con gli
effetti origìnari in un qualche modo "disattivati". Andando ancora più in là con la fantasiosa
analogia con il tabacco, con la definitiva accettazione (monopolizzazione) della cannabis da parte
dei governi occidentali, correremmo il rischio - e se non noi, le future generazioni - di vedere
un giorno la marijuana venduta in tabaccheria come una inefficace droga cancerogena.
È una visione indubbiamente pessimista quella qui presentata, e, fortunatamente, non è la migliore
di cui disponiamo. Tuttavia, ritengo opportuno sottolineare, la nocività di qualunque tipo di
monopolio governativo sulla cannabis e che una vera liberalizzazione dovrebbe permettere la
libertà individuale di coltivare la pianta per uso personale. Solo con questa libertà,
sarebbe forse possibile svincolare dal vizioso meccanismo dell'accettazione governativa di
una pianta sacramentale, mediante la sua monopolizzazione e trasformazione in droga sociale.
Piuttosto che sognare Manifatture Statali per la cannabis, in sostituzione delle attuali vie
del narcotraffico, sarebbe meglio pensare questa pianta libera di crescere nei luoghi dove verrebbe
amata, presso le aree socio-culturali della consapevolezza e del godimento dei suoi benefici,
dove ben meriterebbe di esistere e di donarsi in santa pace. Libera di scegliere e
di venire liberamente scelta.
La "marijuana in tabaccheria" significherebbe una sconfitta del nostro rapporto con la pianta di
Shiva, e, in ultima analisi, con lo stesso Shiva. |
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