Commissione “Principi generali e Diritto allo Studio”

Il 2 novembre 2004 alle opre 14.30 presso l’aula 8 della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Salerno si è tenuta una riunione del gruppo
a) Principi generali e diritto allo studio
del Coordinamento di Ateneo.
Erano presenti:
V, E., M. C., R. F., S. G., L. R., M. R., A. M., C. P..

Dopo ampia e articolata discussione, svoltasi democraticamente e pacatamente in maniera da permettere ad ognuno di intervenire e di esprimere le proprie opinioni, si è convenuto preliminarmente quanto segue:

il gruppo a) Principi generali e diritto allo studio, ritiene di individuare tre “nuclei” fondamentali sui quali deve basarsi ogni proposta di definizione e di fondazione di una possibile Università italiana, nuova, innovativa ed europea. Pilastri fondamentali sui quali si possano definire i suoi compiti, le sue attività e i suoi impegni nei settori della didattica, della ricerca, dell’organizzazione, del reclutamento di tutto il personale nonché del reperimento e della gestione delle risorse economiche, sociali, umane e culturali utili allo svolgimento di tutte quelle attività che storicamente le appartengono e che la definiscono e la individuano innanzitutto come centro di ricerca scientifica e di sviluppo culturale e poi come istituzione dell’alta formazione professionale.
Tali “pilastri” sono:

1) la sua “Costituzionalità”.
Si ritiene infatti, confortati dal parere di numerosi altri studiosi, ricercatori e professori che vivono e lavorano all’interno degli atenei italiani, che l’Università non possa non essere Pubblica, cioè regolamentata dai principi che ispirarono, in maniera trasversale, miscelando elementi di liberalismo, socialismo e dottrina sociale cristiana, l’Assemblea costituente italiana e la Costituzione repubblicana che ne derivò.
L’Università, ma la Scuola tutta, non può essere vista come un servizio sociale reso a questa o a quella porzione della nostra società; a tali o a tali altri interessi economici, politici, religiosi o ideologici presenti nella nostra società. L’Università è un “atto costituzionale” che deve essere pensato e concordato come Istituzione che duri nel tempo, che vada oltre le singole maggioranze politiche e/o parlamentari; che sia basata su pochi punti fermi, irrinunciabili: la sua dimensione pubblica (che sottometta gli interessi privati a quelli della collettività), il diritto di tutti all’istruzione (che deve essere garantito a ciascuno indipendentemente dalle proprie capacità economiche e con le quali, tuttavia, è necessario che proporzionalmente contribuisca), la libertà di insegnamento e di ricerca (che sinergicamente costituiscono il circolo virtuoso della crescita culturale e del progresso scientifico, l’uno il rovescio della medaglia dell’altro), la lotta ad ogni discriminazione di genere, di condizione, di religione, di etnia e il rifiuto della violenza per dirimere le controversie.

2) la reale possibilità di usufruire dei suoi Servizi istituzionali.
Il diritto allo studio universitario e all’istruzione in generale non può non concretizzarsi in una serie di opportunità per chi vive, si forma ed opera - come studente, come tecnico, come amministrativo, come docente o come ricercatore - nelle istituzioni preposte per legge ad assicurare l’accrescimento culturale, lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e l’alta formazione individuale e collettiva. Ciò vuol dire che l’Università deve essere pensata come una vera e propria Società dotata di regole attraverso le quali ognuno possa godere di diritti e sottostare a dei doveri che definiscano una vera e propria comunità di uomini e donne impegnati nei loro difficili compiti didattici, scientifici, tecnici, amministrativi. Ma una comunità ha bisogno di strutture scientifiche, didattiche, logistiche, amministrative, tecniche, ludiche e quant’altro serva a garantire i diritti acquisiti e i doveri da compiere, nel migliore dei modi, nel ruolo che ognuno è chiamato a svolgere in condizioni di pari dignità e opportunità: borse di studio per studenti bisognosi e meritevoli; alloggi adeguati per tutti coloro chiamati a studiare, lavorare o insegnare “fuori sede”; miglioramento dei trasporti e dei servizi di mensa, di ristoro e di svago per chi studia, insegna, ricerca e lavora nell’Università perché ogni minuto dedicato ad una inutile “fila” al bar, quindi ogni pasto risultato indigesto, ogni autobus perso per sovraffollamento, quindi ogni appuntamento annullato per accumulo di ritardi nei trasporti, ogni ora di riposo mal effettuato, quindi ogni possibilità di rigenerazione delle proprie forze fisiche ed intellettuali nello svago e nel tempo libero negata, va a costituire la gran parte di quel tempo che viene sottratto allo studio, alla ricerca, alla didattica, all’amministrazione quindi alla quantità ed alla qualità delle attività istituzionali dell’Università, che per la loro particolare natura, dovrebbero essere svolte in piena autonomia, in tutta tranquillità e con animo sereno.
Ma concreta possibilità di fruire dei servizi istituzionali dell’Università significa anche possibilità, uguale per tutte le componenti, di contare di più negli organi di governo accademico centrali e periferici; possibilità di attingere ai fondi pubblici di ricerca estesa anche al personale docente e ricercatore non confermato; pariteticità delle varie componenti universitarie in tutti gli organi elettivi “comunitari”; estensione e nuova regolamentazione dell’elettorato attivo e passivo di tutte le cariche istituzionali.

3) il suo Progetto culturale, scientifico e didattico.
L’Università, ma la Scuola tutta, non può essere vista come un’impresa economica o commerciale che nella soddisfazione dei suoi “clienti - studenti” e nel suo profitto veda il principio del suo funzionamento. Gli studenti delle Università pubbliche non sono i “clienti” bensì gli “utenti” di un servizio, garantito dallo Stato, di alto profilo sociale e culturale il quale, attraverso il sofisticato meccanismo dell’apprendimento, basato sul rapporto di fiducia che si stabilisce fra docente e discente, contribuisca alla formazione superiore, quindi all’identità culturale prima ancora che professionale dei giovani della nazione. Attraverso un meccanismo che non può basarsi solo numericamente sull’attribuzione di crediti formativi - cui corrispondono tante ore di lezioni frontali, ingabbiate in moduli cui corrisponde un ben definito numero di pagine di testo, associate a tante altre ore di studio individuale - bensì sulla discussione critica dei principi e delle regole su cui si basa lo stesso meccanismo della conoscenza e della produzione dei saperi umanistici, scientifici e tecnologici. Un meccanismo complesso attraverso il quale si manifesta la “forma” della cultura che è sempre stata, allo stesso tempo, locale, nazionale, europea e universale così come l’identità di ogni uomo vivente in qualsivoglia contesto etnico, storico, geografico, sociale, economico che poi non è altro che la concretizzazione umana di quella forma culturale astratta che definiamo di volta in volta, le nostre “radici”, la nostra “storia”, i nostri “modelli” o “stili” di vita.

Ciò premesso, il gruppo a) Principi generali e diritto allo studio, ha ritenuto di suddividersi in tre sottogruppi di approfondimento dei punti 1), 2) e 3) preliminarmente individuati e sopra riassunti che discuteranno separatamente ed autonomamente prima di riconvocarsi venerdì 5 novembre in seduta congiunta.
I sottogruppi sono così costituiti:
1) M. C., V.E., L.R..
2)S.G., L.R., M.R..
3) V. E., A. M., C. P., R. F..


La Scuola Pubblica e la Costituzione

Nel Settembre 2003 la conferenza di Berlino dei Ministri europei dell’Istruzione, guidata dal nostro Ministro Moratti, concludeva i propri lavori sancendo che l’istruzione superiore “is a public good and a public responsability”.
Questa poteva rappresentare a nostro avviso un valido pilastro su cui fondare le velleità riformatrici del nostro Ministro, visto che una tale impostazione rispettava i principi costituzionali su cui si basa il nostro Sistema Paese (art. 9 e art. 34).

Un tale favorevole approccio però si è visto frantumare nei mesi successivi, quando il governo Berlusconi con la Finanziaria 2003 nelle persone del Ministro Tremonti e con l’avallo di una smemorata Moratti, nell’ottica di una radicale riduzione della spesa pubblica poneva in essere da un lato una drastica riduzione dei finanziamenti alle Università (insensibile ad un aumento delle spese a causa dell’inflazione e dell’adeguamento contrattuale dei docenti e del personale tecnico amministrativo stimato intorno ai 500 milioni d’euro) e dall’altro si avallava l’idea di trasformare le Istituzioni Universitarie Pubbliche in Fondazioni di Diritto privato.

Volendo dare a questi atteggiamenti una prospettiva politica di ridefinizione del sistema paese, perché altrimenti dovremmo pensare di essere governati da incompetenti, ci troviamo di fronte al tentativo da un lato di svendere l’Università ad un interesse privato e dall’altro a de-responsabilizzare il settore pubblico rispetto alle politiche di sviluppo circa la formazione secondaria superiore.

A tal proposito ci sorge spontaneo chiederci: Ma la conferenza di Berlino? E soprattutto cosa ne è della nostra Costituzione? Cosa ne è del nostro Stato di Diritto?

Da questo parte la protesta di noi cittadini universitari da questo ha linfa un sentir comune che vuole una Repubblica responsabile dell’effettivo accesso dei suoi cittadini a tutti i livelli di formazione e soprattutto funga da unica possibile garante per una scienza libera ed un libero insegnamento.

Avvertiamo quindi l’esigenza di mantenere ferma la funzionalità pubblica dell’Università e di conseguenza chiediamo un incremento delle risorse alla stessa, sicuri che solo così si potrà sperare in un futuro più ricco ed illuminante…..

Il Diritto allo Studio

Questo documento è stato concepito innanzitutto per rivendicare il concetto costituzionale del Diritto allo Studio, il quale mai come oggi è attaccato da un nuovo modo di concepire la scuola e l’Università Pubblica considerate più come luogo di formazione nozionistica che come luogo di cultura, socializzazione e ricerca.
Anche qui, infatti, i processi di selezione e, soprattutto, esclusione sono fortissimi.
L’Università e la Scuola sono state e continuano ad essere oggetto dell’azione ristrutturatrice di diverse finanziare e decreti che hanno introdotto ampia autonomia, anche finanziaria, e meccanismi più forti per una maggiore convergenza tra il sapere impartito e le richieste di manodopera.
Risale al 1990 la 1° legge che varava la riforma dell’autonomia dell’Università italiana. Da allora s’inaugurava un processo che trasformava i singoli atenei in aziende autonome incapaci di sviluppo e sostenute da fondi privati interessati solo alle loro attività.
Proprio sul solco della legge Ruberti che si sono inserite le riforme Berlinguer, per quel che riguarda le scuole superiori, e Zecchino, per l’Università. In particolare quest’ ultima ha segnato la fine dell’università di massa attraverso l’introduzione di un accesso limitato al primo livello triennale di laurea mediante l’introduzione del “numero programmato”, la somministrazione di test selettivi agli studenti all’inizio dell’anno accademico, l’allungamento del corso di studi con la relativa erogazione fiscale, un primo livello triennale di laurea, il cui titolo risulta essere dequalificante sia da un punto di vista formativo (i singoli programmi non sono più finalizzati all’approfondimento cognitivo e critico ma al nozionismo tecnicista e accademico introdotto dal sistema dei crediti formativi) sia dal punto di vista contrattuale.
Per ciò che riguarda il secondo livello di laurea, vi è un’ulteriore selezione dovuta all’aumento progressivo delle tasse universitarie (circa il 30% in più del primo livello)e ad un ulteriore ridimensionamento del numero previsto.
Alla fine di questo secondo corso di laurea sono previste scuole di specializzazione e master i cui costi sono altamente proibitivi per il maggior numero di studenti/esse ma che risultano essere indispensabili ai fini dell’inserimento nel mercato del lavoro.
A questo modello si adegua perfettamente la Riforma Moratti sul riordino dei cicli scolastici, che termina il processo di ristrutturazione della Scuola (ormai non più Pubblica). Essa prevede una rigida separazione (cosiddetto “doppio binario”) tra un sistema “alto” dell’istruzione, quello dei licei, ed un altro “basso”, residuale, dell’istruzione e della formazione professionale; la scelta tra i due canali è molto precoce, a tredici anni, e addirittura a 15 anni vi è la possibilità di scegliere un canale di serie C, la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, “grazie” alla quale gli studenti potranno espletare la loro formazione fino a 18 anni in azienda. Un’azienda che in pratica sostituisce la scuola.
È evidente come tutto ciò rappresenta il perpetuarsi e l’acuirsi del principio di selezione classista basato su motivi economici e meritocratici: le famiglie a reddito medio-alto potranno consentire ai propri figli il proseguimento e la specializzazione degli studi, quelli con reddito medio e basso dovranno vedersi negare l’accesso ad un grado d’istruzione superiore per i propri figli.
Questo sistema non farà altro che riprodurre la formazione di un ristretto gruppo dirigente del mercato del lavoro, selezionato nell’elite della società, e di una larga maggioranza di giovani precari, succubi delle esigenze e delle condizioni lavorative imposte dalla classe dirigenziale.

Il riordino dei cicli scolastici, la riforma della scuola media inferiore e superiore e del sistema universitario vanno tutte interpretate nel senso di de-qualificazione della trasmissione dei saperi e dell’acquisizione delle conoscenze e la diminuzione progressiva della capacità critica a livello di massa è comunque genericamente adeguato all’intento di acquiescenza culturale della maggioranza dei giovani verso la precarietà.
Il sottogruppo

Il progetto culturale, scientifico e didattico

ritiene sbagliato e utopistico l’obiettivo di voler prevedere a tutti i costi, nei corsi universitari di base, una caratterizzazione “professionalizzante” che dopo alcuni anni di studi si trasformi in reali opportunità di inserimento nel mondo del lavoro. Ciò avverrebbe a scapito di una concreta formazione metodologico culturale di base, l’unica in grado di garantire ai cittadini, agli studiosi ed ai tecnici del futuro capacità critiche, capacità applicative, atteggiamenti riflessivi ed ampiezza di vedute tali da permettere la corretta applicazione dei principi scientifici e dei bagagli tecnologici disponibili – da apprendersi negli anni di formazione successivi a quelli di base – o da elaborare e costituire – anche essi nel lavoro didattico tipico dei corsi successivi a quelli di base - per la soluzione di qualsivoglia problema umano o professionale.
Una siffatta Università deve essere allora il luogo in cui si impari innanzitutto l’esercizio della critica attraverso l’interpretazione e l’analisi dei meccanismi di produzione del sapere, esercizio che contribuisce alla formazione di uomini, studiosi e cittadini, liberi si da pregiudizi ed aperti all’innovazione ed al cambiamento ma anche capaci di discuterli, di criticarli, di emendarli, di migliorarli e di riconvertirli; capaci soprattutto di esercitare il proprio sguardo analitico e la propria creatività costantemente, anche in epoche di perdurante innovazione tecnologica e di rapidissima trasmissione delle informazioni e delle conoscenze.
Una Università così concepita non può che aumentare il livello qualitativo dell’offerta formativa che a maggior ragione non può essere garantita da inutili sbarramenti nella immatricolazione di tutti quei giovani che decidano di impegnarsi nel raggiungimento dei traguardi individuati dai Corsi di studio, dimostrando poi, concretamente, la loro determinazione.
Tutto ciò nella consapevolezza che il “circolo virtuoso” ricerca - apprendimento sia l’unica possibilità didattica capace di instaurare il corretto rapporto docente – discente nel quale, le posizioni relativamente asimmetriche esistenti tra le due parti - dovute semplicemente alle diverse autorità di competenza e non ad autoritarismi di altra natura, che dovrebbero essere esclusi da tale rapporto – convergano verso una maggiore crescita professionale e conducano ad una piena soddisfazione morale.
Si ravvisa perciò nell’indissolubile legame tra studio, didattica e ricerca - e nella fondamentale libertà che da sempre, nell’Università, contraddistingue tali attività - il principio ispiratore di una proposta formativa che su corsi, seminari, discussioni, attività di laboratorio scientifico e “sul campo”, quindi sul rapporto umano oltre che didattico, veda il suo momento qualificante che oggi ci pare mortificato dalla obbligatorietà di capitalizzare un determinato numero di crediti formativi, previsto per legge, attraverso l’annoiata frequenza alle più disparate, stravaganti e demoltiplicate attività para - accademiche.

18/11/2004.

 
     

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