Capitolo Secondo

TEORIE A CONFRONTO CON IL DIY

2.1 Il Virus e la sociologia

Iniziamo questo secondo capitolo con un’osservazione necessaria: i termini sottocultura e controcultura non sono sinonimi e non vanno posti sullo stesso piano semantico; se si parla di una controcultura essa sarà certamente integrata in una determinata sottocultura, ma non per questo tutte le sottoculture devono basarsi su norme differenti da quelle socialmente condivise. Una sottocultura è semplicemente una cultura minoritaria che agisce per vie alternative al tracciato delle convenzioni sociali: non per questo deve necessariamente trattarsi di una controcultura che tende a destabilizzare tali convenzioni. All’interno di determinate sottoculture, la forte identità sociale ed il senso di unità si pongono spesso come scudi nel tentativo di resistere all’assalto di pressioni esterne, come quella dei media, che cercano di semplificare determinati stili di vita, nel tentativo di renderli visibili all’opinione pubblica: questa forma più o meno concreta di resistenza ad una massificazione delle credenze, sommata al rifiuto di veder ridotto ai minimi termini il significato di uno stile sottoculturale difficilmente codificabile, ha spesso portato i membri appartenenti ad un sottogruppo nella condizione di sentirsi minacciati e attaccati nei propri spazi, scatenando una conseguente reazione. Questo meccanismo di autodifesa scatta con discreta facilità sia nel caso di indagini svolte dai media che nel caso di ricerche sul campo, pur condotte con rigore scientifico, in ambito sociologico o antropologico, sulle subculture sociali. I risultati con difficoltà vengono considerati attendibili e rappresentativi da parte degli stessi soggetti studiati, che rifiutano, spesso sprezzantemente, osservazioni e critiche riservate alle consuetudini del gruppo di appartenenza: il DIY, per esempio, poiché è un movimento che usa vie diverse dai canali di promozione mediatici e commerciali, difficilmente accetta di entrare in contatto con questi, ritenendo, così, di perdere il proprio significato originario e di mutarsi in prodotto di standard commerciale. Sin dalla comparsa dei primi punk in Italia, i giornali nazionali spesero fiumi di inchiostro riguardo al loro look e alle loro abitudini , spesso tracciando descrizioni ben lontane dalla realtà dei personaggi.

Con diverso approccio e metodologia di analisi, anche la sociologia è da sempre stata interessata ai fenomeni della devianza e delle minoranze sociali, con particolare riferimento all’universo giovanile.

Un caso clamoroso, entrato nella storia, si riferisce ad uno studio che ha riguardato una comunità appartenente alla prima ondata del fenomeno DIY. Faccio riferimento all’analisi condotta, nel 1984, da un gruppo di sociologi su incarico del CSERDE (Centro Studi e Ricerche sulla Devianza e sull’Emarginazione) sulle bande spettacolari di Milano. Dopo un anno di lavoro il risultato della ricerca vedeva, oltre a considerazioni sui gruppi mod e skinhead, un primo studio riguardante la comunità punk, nello specifico rappresentata dai ragazzi occupanti del Virus. Nel momento in cui una copia dei risultati della ricerca giunse in possesso dei componenti dei gruppi, questi mal tollerarono che tra le pagine dedicate al punk, che i sociologi avevano analizzato come fenomeno in generale, ben poco era lo spazio riservato alla realtà locale. Il lavoro appariva decisamente sbilanciato su pratiche e resoconti esteri, per lo più inglesi o americani, dedicando solo le ultime otto pagine allo studio della realtà milanese, attraverso un’analisi piuttosto approssimativa che, senza aver nemmeno interpellato i ragazzi di Virus, parlava di loro utilizzando frasi recuperate da volantini di band e di altri gruppi secondari operanti nell’edificio di via Correggio. Inoltre i sociologi, pur comprendendo le ragioni dell’intransigenza dei punk nel non volere occhi puntati addosso e la facile attitudine dei media ad enfatizzare la portata di scontri e risse, toccavano con poca cognizione di causa tematiche che venivano quindi mal interpretate e trasfigurate, con la conseguenza di spettacolarizzare, alla stessa maniera di quanto facevano i media, solo i lati più marginali del fenomeno punk. Oltretutto l’esperienza Virus aveva mostrato, nel corso dei suoi due anni di esistenza, che il tempo delle risse, cui i ricercatori facevano riferimento nel lavoro, era ormai passato da tempo e che la situazione attuale era ben differente da quella che lo studio prendeva in considerazione. I punk avevano un proprio punto di riferimento dove ritrovarsi, il che li esponeva sempre meno al pericoloso contatto (e probabile scontro) con altre sottoculture di strada, rafforzando contemporaneamente lo spirito di unità ed identità interno al gruppo. I ragazzi di Virus durante la lettura comune dei risultati dello studio, avvenuta all’interno dello stabile occupato, si chiesero con grande rabbia e risentimento a chi potesse essere utile un lavoro, a loro avviso, così poco attendibile e lesivo nei loro confronti; trovarono solidarietà ed appoggio nei ragazzi di Creature Simili, un altro gruppo di punk e dark in cui militavano esponenti delle riviste DIY underground milanesi “Fame” e “Amen”, divenendo, così, un gruppo di contestatori piuttosto consistente, con la precisa idea di sabotare e compromettere la presentazione ufficiale del lavoro sulle bande spettacolari giovanili. L’esternazione del loro disappunto fu plateale ed indimenticabile persino per gli stessi studiosi. Nel febbraio del 1984, presso la Sala degli Affreschi in corso Manforte, in pieno centro storico di Milano, era prevista la conferenza stampa, ampliamente pubblicizzata, con il patrocinio dell’assessorato ai servizi sociali e culturali della provincia, alla quale avrebbero partecipato personaggi di grande prestigio, come Giorgio Bocca, Francesco Alberoni e Goffredo Fofi. Dopo vari sopralluoghi sul luogo del convegno, il giorno della presentazione della ricerca i punk invasero la sala, sotto gli occhi esterrefatti dei rappresentanti delle istituzioni, distribuendo volantini di protesta, nei quali dichiaravano di essersi sentiti come cavie da laboratorio. In un secondo momento entrarono anche i ragazzi della rivista “Fame” che, a torso nudo e muniti di lamette, iniziarono a tagliarsi il petto e imbrattare di sangue i volantini da distribuire al pubblico ammutolito ed incredulo. Ovviamente il fatto richiamò l’interesse della stampa (cfr. immagine 10), e persino le più importanti testate nazionali si occuparono del caso. I ragazzi del Virus furono addirittura invitati in diretta da Radio Popolare, nell’ora di massimo ascolto, per esprimere le proprie opinioni. Si scatenò un braccio di ferro, riccamente amplificato dai media, tra i giovani punk, che contestavano alla ricerca di non avere nessun tipo di utilità, se non quella di legittimare l’ente commissionante, e gli studiosi del CSERDE, che affermavano di aver mantenuto la loro autonomia dall’istituzione e di essere semplicemente oggetto di strumentalizzazione da parte dei punk. Lo scontro non si limitò a toni puramente verbali: il venerdì seguente la presentazione del testo, i punk del Virus e di Creature Simili, ancora uniti nella protesta, fecero un’irruzione nel teatro di Porta Romana, dove gli studiosi avevano allestito una mostra sulle punkzine, e devastarono l’allestimento; il giorno seguente, occuparono lo stesso teatro per 24 ore ed organizzarono la domenica pomeriggio un concerto con band punk del giro del Virus, trasportando per l’occasione all’interno dello stabile tutto l’impianto di via Correggio. Fuori dal teatro venne collocato uno striscione che recitava: “CSERDE: Come Sappiamo Essere Rivoluzionari Distruggendo Esperienze”. Durante l’occupazione fu redatto un volantino dove i giovani, reclamando per l’ennesima volta la necessità degli spazi loro negati a Milano, minacciavano di prendersi ciò che non veniva loro dato: infatti la situazione di Virus si stava facendo sempre più precaria, come il successivo sgombero coatto dimostrerà pochi mesi più tardi.

Si può comunque concludere che il primo tentativo di compiere uno studio su una comunità appartenente alla sfera del DIY, come quella dei punk di Virus, non sia stato né semplice né accettato dagli appartenenti alle bande spettacolari: la determinazione dei punk nel rifiutare qualsiasi tipo di etichetta o categoria nelle quali essere inclusi si è manifestata attraverso una reazione violenta, che ha messo in discussione pesantemente il lavoro svolto dai sociologi.

Vi fu un altro episodio, che coinvolse sempre i ragazzi di Virus, in cui le cose andarono diversamente, e che permise di consegnare alla nostra generazione un documento di preziosissimo valore. Due anni prima dello studio del CSERDE, nel 1982, si presentò al Virus un gruppo composto da sei studenti di cinema e chiese di poter girare un documentario all’interno dell’edificio sulla vita e le abitudini dei punk, occupanti e frequentanti. Si trattava di studenti di un corso di formazione professionale organizzato dalla cooperativa Albedo Cinematografica, esperienza presto fallita ma che ha formato molti professionisti del “nuovo cinema italiano”. Dovendo realizzare un film/saggio per il termine del corso, questo gruppo di giovani cineasti decise di utilizzare lo scarso budget a disposizione per realizzare un documentario sull’esperienza Virus. Gli studenti erano ben consci del fatto che i punk fossero refrattari a farsi riprendere e a comunicare, ma formarono una delegazione che si presentò in via Correggio, chiedendo di poter partecipare alle riunioni del collettivo per esporre il loro progetto. La richiesta fu accettata. Il documentario trovò realizzazione solo dopo una lunga serie di riunioni, contrasti e chiarimenti con gli occupanti, ma soprattutto grazie al rapporto di fiducia ed amicizia che si era instaurato tra gli studenti e alcuni ragazzi del Virus. Il prodotto è un filmato di circa 25 minuti in 16 mm, in cui si alternano interviste a gruppi e collettivi, spezzoni di concerti, manifestazioni, volantini, e tutto ciò che faceva parte del mondo delle autoproduzioni, per arrivare fino alla ripresa dell’arrivo delle ruspe a demolire quel piccolo spazio di utopia metropolitana. La differenza tra i risultati ottenuti dallo studio fatto dai sociologi del CSERDE e dal documentario degli studenti di cinema risiede nel fatto che questi ultimi dimostrarono da subito un interesse diretto a parlare ed interagire con i punk, cercando un confronto attraverso la presenza alle riunioni del collettivo e partecipando in prima persona alle iniziative organizzate, seppur a fine parzialmente didattico; il documentario realizzato non è altro che la riproduzione di uno spaccato di vita reale, che non distorce né getta critiche sul Virus. Al contrario, le definizioni e le etichette date dai sociologi, derivate dal tentativo di fare una classificazione scientifica delle sottoculture senza nemmeno aver cercato di entrare in contatto con esse, creò il grande risentimento che spinse i ragazzi del Virus ai disordini del teatro di Porta Romana. L’episodio può essere utile per comprendere come un’esperienza DIY, per essere colta, non possa essere studiata dall’esterno, ma necessiti di essere vissuta: altrimenti tutto quello che riguarda il mondo delle autoproduzioni rischia di apparire come un’utopia prossima a crollare come un castello di carte, anche se nella realtà poggia su radici solide e profonde.

2.2 DIY come minoranza attiva

Analizzando il fenomeno del Do It Yourself nella sua natura puramente underground, in quanto nato e sviluppatosi in un ambiente decisamente lontano da quello delle culture di massa, possiamo tracciarne un profilo facendo riferimento alle teorie che lo psicologo sociale Serge Moscovici enunciò a riguardo del fenomeno delle minoranze attive (Serge Moscovici, 1976). Prima di addentrarci in un’analisi del nostro soggetto attraverso le teorie di Moscovici, mi pare fondamentale sottolineare come il DIY vada analizzato considerando non solamente il suo aspetto più materiale, concernente le singole produzioni artistiche e la reazione che esse suscitano negli ambienti affini, ma anche tenendo presente l’etica che sottintende questa pratica. Etica che, nel suo senso più profondo, può sfuggire e passare inosservata persino agli occhi di chi possiede dimestichezza con questo tipo di realtà. Infatti, la necessità estetica di un prodotto atipico cela un messaggio ben più profondo quando l’opera prodotta sa comunicare e raccontare tanto di sé e di chi l’ha creata.

Tratto distintivo dell’analisi realizzata da Moscovici sulle minoranze attive e sulla loro capacità di influenzare le maggioranze consiste nella distinzione tra minoranza nomica e minoranza anomica: nel primo caso esistono altri valori e credenze che appartengono alla minoranza e che non possono ritenersi conciliabili con quelli perseguiti dalla maggioranza; nel caso delle minoranze anomiche, invece, non esistono valori inconciliabili con quelli della maggioranza, ma semplicemente questi ultimi non vengono condivisi. Per fare un esempio, si può non credere in una determinata religione rappresentativa della maggioranza in quanto si professa già in un altro culto che ha precetti differenti (minoranza nomica), oppure in quanto non ci si sente in sintonia né con le credenze della religione di maggioranza né con quelle di nessun altro culto, come nel caso di gruppi od individui atei (minoranza anomica). Essendo il DIY cresciuto nel rispetto di una propria etica di fondo che, per quanto delineata da confini labili e soggettivi, influenza la produzione di un certo tipo di cultura, esso va indubbiamente considerato nell’ottica di una forma di produzione nomica, che trova la sua stessa ragione di esistere nei motivi per cui ha sempre cercato di differenziarsi dalla cultura di massa. Del resto la produzione artistica di massa ha portato ad un appiattimento e ad una perdita di significato che trascende la produzione musicale e arriva direttamente a toccare tutte le forme ad essa affini, dal cinema alle opere letterarie, come se l’arte avesse dismesso la sua funzione di responsabilità sociale, per relegarsi ad un ruolo di puro intrattenimento. Osservata da questo punto di vista, la situazione prospettata dalla teoria di Moscovici appare quasi capovolta: se è vero che una minoranza nomica utilizza le proprie stesse credenze per differenziarsi e prendere le distanze dalla cultura maggioritaria, nel nostro specifico caso è proprio la cultura di maggioranza, che si consideri dal lato del music business o di tutte le parallele forme di intrattenimento artistico / commerciale, ad apparire anomica, in quanto apparentemente svuotata di tutto il significato sociale e, in un certo senso, politico. La consapevolezza del proprio stato di minoranza nomica è ciò che induce determinati fenomeni di nicchia a proseguire sulla propria strada: dovunque la produzione di massa abbia fatto dimenticare ruoli e funzioni di una certa essenza artistica, autorelegandosi all’infelice status di “maggioranza anomica”, occorrono delle minoranze che, senza alcuna pretesa di raggiungere la stessa portata commerciale ed economica, siano in grado di farsi di nuovo portavoce di messaggi e significati che il pubblico è sempre meno interessato ad ascoltare e concepire.

L’esistenza del DIY è strettamente legata all’esistenza di un messaggio, esso non può limitarsi ad essere musica fine a se stessa: questo significherebbe spogliare la cultura DIY della sua componente primaria e maggiormente significativa, ovvero la necessità di comunicare in maniera personale.

Un’altra componente che, nello studio svolto da Moscovici, viene ritenuta fondamentale riguardo la capacità di influenza che può esercitare una minoranza, è la coerenza mantenuta dagli elementi che la costituiscono. Riportando questa riflessione all’interno del raggio di azione del DIY, è possibile notare come la coerenza di pensiero e di vedute, per quanto possa essere non completamente uniforme, sia dettata da quegli stessi valori che sono alla base di questa controcultura: per fare un esempio, la stessa filosofia del no profit, che prevede la rinuncia dell’aspetto lucroso della produzione, determina che chiunque si introduca nell’ambiente delle autoproduzioni organizzando concerti con prezzi al rialzo, o chiedendo rimborsi spropositati in confronto alle spese, venga boicottato e tagliato fuori dal circuito, perché incurante di un’etica di base che è, prima di tutto, attenta e rispettosa del pubblico. Etica fedele al principio che spettatori, organizzatori e musicisti sono persone identicamente coinvolte, vista la possibile interscambiabilità dei ruoli.

Altri atteggiamenti che, secondo Moscovici, aiutano la minoranza nel suo processo di crescita attiva, quali la consistenza e la sicurezza dimostrate dal gruppo, possono anch’essi essere riferiti all’etica ed ai valori comuni di fondo, che garantiscono la compattezza del tessuto subculturale, trasmettendo agli occhi della maggioranza un senso di coesione e sicurezza che ne aumenta il prestigio ed il riconoscimento.

Caratteristico per la cultura DIY il rivolgersi al restauro di un senso critico, in modo talvolta provocatorio, della produzione artistica. La motivazione principale che le impedisce di influenzare la cultura “artistica” di maggioranza consiste nella perdita proprio di questo senso critico e dello spirito di osservazione da parte della massa, sempre più assuefatta ai ritmi frenetici della vita odierna e a sempre più incalzanti input esterni, che rendono difficile captare lo stimolo ad una riflessione coerente e generale sull’andamento della nostra società. Vi è una ricerca sempre maggiore di identità sociale, che si realizza attraverso il senso di appartenenza ad una determinata comunità socioculturale, mentre il senso critico individuale viene visto sempre più spesso come un fattore che pone l’individuo stesso a rischio di emarginazione.

Appare con sempre maggiore evidenza il limite di influenza che una cultura come quella DIY, dove l’individuo ed il suo punto di vista sono componente prioritaria all’interno dell’ottica di gruppo, possa avere nei confronti di una maggioranza che ha sempre più paura di far emergere posizioni individuali. Questo ci porta a condividere un’ulteriore osservazione di Moscovici, secondo il quale i soggetti potenzialmente più influenzabili dal messaggio di una minoranza sono quelli isolati. Non possono essere che bersagli isolati ed immuni alla narcotizzazione culturale di massa a sentirsi stimolati da messaggi che non si basano esclusivamente sul concetto di intrattenimento; certamente saranno individui isolati e dotati di forte sensibilità e capacità ricettiva coloro che colgono l’essenza del meccanismo di fiducia e di stima interpersonale che sta alla base dei rapporti di collaborazione di vari soggetti nella coproduzione di un prodotto DIY, meccanismo che si scosta nettamente dall’andamento di una società che ci induce ad avere sempre meno fiducia nel prossimo, aumentando nell’individuo un senso di diffidenza ed alienazione.

La presa di posizione e la visione critica del mondo, considerati come componente fondamentale della cultura DIY, sanciscono di fatto come non sia effettivamente interesse di questo tipo di cultura aprirsi alle masse e cercare dei punti di contatto con la cultura di intrattenimento: sin da quando i Crass portarono avanti le prime lotte per aprire gli occhi del pubblico nei confronti di argomenti che destavano sempre più preoccupazione, lo fecero consci che non sarebbe stato un messaggio recepibile per tutti, e tuttora la cultura DIY si pone come un’alternativa che non ha pretese di influenzare la cultura di massa, perché la massa ha paura di venire a conoscenza di certe realtà, così come sente l’esigenza di vivere soggiogata nei limiti di una libertà sempre più ristretta, dettata dalle leggi della moda, del costume e del mercato. In un mondo sempre più dicotomico, dove le alternative si limitano a scegliere tra destra o sinistra, bianco o nero, buono o cattivo, giusto o sbagliato, vittima o carnefice, il messaggio lanciato dalla cultura DIY appare sempre più una terza scelta, basata sulla conoscenza e la coscienza, sull’informazione e la valutazione razionale dei fatti, che dovrebbe essere operata da qualsiasi singolo individuo senza le limitazioni tipiche della cultura che rappresenta lo spirito del nostro tempo.

La cultura DIY rappresenta quindi una minoranza attiva nella continua ricerca di stimoli e interpretazioni critiche del mondo che la circonda, ma non attiva nel perseguire un riconoscimento da parte della cultura maggioritaria, alla quale anzi si oppone nettamente attraverso una serie di rifiuti inconciliabili: il rifiuto delle logiche di profitto e di mercato, il rifiuto dell’idea di puro intrattenimento, il rifiuto di una sempre più opprimente omologazione dei prodotti. L’impegno sociale non può essere attivo quando si è parte del meccanismo economico ed intellettuale che si combatte: l’obiettività e la credibilità si conservano non omologandosi.

2.3 Fatto artistico e fatto di folklore

Un altro aspetto interessante di questo discorso consiste nell’analisi della cultura DIY attraverso lo studio delle tradizioni folkloriche, intendendo queste ultime come la rappresentazione letteraria e culturale di una determinata minoranza sociale. Uno studio a cui è necessario fare riferimento è quello svolto da Petr Bogatyrev e Roman Jakobson (Bogatyrev, 1982) a proposito della correlazione esistente tra le strutture semiotiche del linguaggio e l’espressione della cultura popolare, nel quale viene sviluppato un continuo confronto tra l’atto individuale del discorso e l’insieme di convenzioni accettate da una comunità per assicurare la comprensibilità di esso. E’ chiaro il riferimento alla distinzione precedentemente applicata da Ferdinand De Saussure tra il termine parole, corrispondente appunto al linguaggio individuale, e langue, che invece indica le convenzioni linguistiche della comunità di riferimento, verso le quali la parole non può esimersi dal fare riferimento, per non apparire come incomprensibile e rischiare così di essere respinta (De Saussure, 1922). La storia della letteratura e delle tradizioni folcloriche ci insegna come l’individuo od il gruppo minoritario, nel suo comunicare ed esprimersi, debba tenere in costante considerazione le convenzioni e gli usi della comunità di riferimento, affinché la maggioranza possa accettare e capire il discorso: altrimenti, quello che si rischia è l’estinzione dello stesso, che non sopravviverebbe al tramandarsi attraverso le generazioni. Per secoli le tradizioni popolari si sono tramandate nel corso della storia mediante forma orale, ma, per far sì che vengano accettate ed assorbite dalla comunità, è necessario che ne avvenga il passaggio ad una forma scritta, in grado di ufficializzarle e renderle inossidabili all’oblio del tempo ed al progressivo modificarsi dei costumi. Il racconto orale, sulla lunga distanza, viene respinto dalla cultura ufficiale, anche perché sostanzialmente esposto a continue variazioni che ne minano l’autenticità iniziale: eppure, prima di poter passare a forma scritta e ricevere il riconoscimento di opera letteraria, ha bisogno dell’approvazione della comunità. Si può parlare di “nascita” di un’innovazione linguistica, sia essa generata da una differenza o da un errore di linguaggio, soltanto a partire dal momento in cui essa diviene un fatto sociale, ovvero quando la comunità linguistica la fa propria. Risulta da ciò chiaro che l’esistenza di un’opera popolare presuppone l’esistenza di un gruppo che l’adotti e la sanzioni, passandola al vaglio della censura preventiva della società: i due studiosi utilizzano coscientemente l’espressione preventiva “poiché nell’esaminare fatti folclorici non si parla di momenti che ne precedono la nascita né di vita embrionale, ma soltanto di “nascita” e sorti successive” (Petr Bogatyrev e Roman Jakobson, 1982).

Parimenti, considerando la cultura DIY come fosse un fatto folklorico, nato dalla necessità di una comunità (che trova il proprio riconoscimento in una affinità di pensiero piuttosto che in una semplice vicinanza geografica) di esprimersi attraverso una forma di linguaggio artistico e concettuale lontano dai parametri socialmente dominanti, bisogna riconoscere come difficilmente essa possa trovare un forte riscontro sociale, visto che la parole, intesa come forma di linguaggio individuale della cultura delle autoproduzioni, si sforza di trasgredire le consuetudini della langue, specularmene rappresentate dai canoni del music business e dagli stereotipi del mercato culturale. La stessa natura oppositiva che è alla base di questa cultura minoritaria ne inibisce la comprensione da parte della comunità di riferimento, semplicemente perché le convenzioni adottate da questo tipo di società non vogliono essere per presupposto condivise. Gli stessi Bogatyrev e Jakobson misero in discussione il detto “il popolo non crea, riproduce soltanto”, dato che, per quanto la cultura popolare spesso tragga spunto e riferimento dalla tradizione letteraria, essa si basa su parametri diversi ed ha funzioni differenti rispetto a questa: folclore e letteratura non possono quindi essere analizzati tramite la medesima chiave di lettura. Se il noto detto viene riferito all’attuale situazione musicale, facendo corrispondere al popolo la posizione della cultura DIY, pare evidente come il mondo delle autoproduzioni sembri quello che produce, nello sforzo di offrire qualcosa di differente sia nella forma che nei contenuti, rispetto ad un mercato musicale che invece riproduce stereotipi da esso stesso creati e continuamente riciclati.

Allo stesso modo della tradizione folklorica, anche la cultura DIY è alla continua ricerca di un riconoscimento, ufficiale e stabile nel tempo, per alcuni prodotti trascurati in passato o andati addirittura perduti: non di rado, infatti, capita che etichette DIY decidano di investire in produzioni che puntano alla riscoperta di opere scarsamente valorizzate al momento della loro uscita (ma non per questo non attuali!), ad esempio pubblicando dischi che non uscirono mai al tempo della loro registrazione, oppure ristampando su cd vinili esauriti ormai da anni e di difficile reperibilità per i neofiti del genere. Così come la cultura popolare rischia di essere soffocata da quella ufficiale ed ha bisogno di un continuo sforzo in termini di valorizzazione e riscoperta, allo stesso modo la cultura DIY non può permettersi che determinati prodotti vadano persi o scivolino nell’oblio, nel momento in cui viene riconosciuta la loro importanza per tutto ciò che è stato lo svilupparsi della cultura stessa.

I due autori ci mostrano conseguentemente come siano rapportabili da un lato, fatto folklorico e produzione su misura, utilizzata da una minoranza per il consolidamento di sé stessa e dei propri valori, e, dall’altro, fatto letterario e produzione di serie, soggetta ai limiti di norme e convenzioni. Sulla stessa linea, anche la cultura DIY assomiglia ad una produzione su misura, in quanto attenta, ad esempio, a determinati messaggi e logiche di distribuzione, logiche che vengono trascurate nella produzione seriale tipica del music business. A dimostrazione di ciò basti notare come la forma di produzione vinilica, da tempo abbandonata dal mercato musicale, sia stata recuperata e valorizzata all’interno della cultura DIY, dove esistono band che incidono i propri lavori solo in vinile, cosa che alla luce di un mercato globale e di fine economico, risulta controproducente: tra il grande pubblico pochi hanno ancora a disposizione i mezzi per riprodurre il vinile in casa propria, ma questa scelta punta con nostalgia ed intransigenza al recupero di una tradizione che legava l’individuo ad un diverso approccio nei confronti della musica e del disco stesso, un approccio più fisico e manuale attraverso l’opera vinilica ed i suoi meccanismi di funzionamento.

A riprova di come la cultura DIY abbia a disposizione un raggio d’azione ed una gamma di scelte maggiori del music business, possiamo analizzarne un’altra analogia con lo studio sui fatti folclorici di Bogatyrev: secondo l’etnologo russo la tipologia delle forme folcloriche deve nascere indipendentemente dalla tipologia delle forme letterarie, in quanto la parole, il linguaggio individuale, ammette una varietà di modificazioni maggiori che non la langue, il linguaggio collettivo della comunità, così come le regole strutturali della lingua sono più severe e monolitiche nei confronti della creazione collettiva che non invece della creazione individuale. L’aspetto dell’individualità racchiuso all’interno della cultura DIY è rappresentato, all’interno del termine stesso, dal concetto di “Yourself”, che pone in primo piano l’individuo e la sua volontà di agire e creare indipendentemente dai canoni collettivi, mettendo a disposizione del soggetto una gamma di scelte e possibilità di realizzazione dell’opera pari alla sua capacità creativa, eliminando costrizioni formali che non lo rappresentino. In sostanza, se il folclore è la forma di espressione di una minoranza, in grado di attingere da una fonte di possibilità di scelta maggiore della cultura letteraria, allo stesso modo il DIY è la forma di espressione di una minoranza in cui la centralità del singolo individuo che produce l’opera pone la possibilità di far sì che l’opera stessa gli assomigli quanto più possibile, senza la pretesa di assomigliare al pubblico fruitore: un prodotto DIY non è fondamentalmente fatto per incarnare lo spirito di chi lo consuma, ma bensì quello di chi lo produce. Ciò che semioticamente è rappresentato dalla parole, dal linguaggio individuale, è l’essenza del DIY, dove ogni prodotto è in grado di comunicare qualcosa su chi l’ha realizzato, senza attenersi ai canoni della langue, del linguaggio collettivo, dove il senso di una produzione si acquista alla luce di chi ne andrà a fruire, secondo la tradizione della ricerca di un pubblico e di uno spazio di mercato ufficiale.

2.4 Limiti della cultura DIY in Italia

A quanto appare dall’analisi svolta sino a questo momento, la cultura DIY dovrebbe costituire una cultura minoritaria e di nicchia, eppure attiva, pulsante ed in grado di trovare un suo spazio ed una sua collocazione all’interno del mercato musicale italiano; in realtà i fatti non sono esattamente così come potrebbero presentarsi ad una prima occhiata superficiale, rivelandoci una situazione ben più complessa.

Se il DIY può essere visto come una minoranza attiva, ed in quanto tale potenzialmente recepibile da singoli bersagli toccati dal suo messaggio, minoranza portatrice di valori e lontana dai circuiti stereotipati del music business, perché allora vi è tutta questa difficoltà, per la cultura delle autoproduzioni, ad uscire da un circuito sorretto dall’impegno e dalla passione di poche singole persone che risultano essere sempre i soliti nomi noti? Perché questa difficoltà ad autoalimentarsi e ad allargarsi attraverso una crescita numerica e di visibilità? Per una propria scelta refrattaria? Molte risposte si possono trovare considerando i tratti tipici della cultura musicale italiana, talmente delineati nel tempo da apparire come caratteristiche immutabili ed irreversibili.

Un grosso limite all’espansione del movimento DIY potrebbe essere da subito rintracciato nella cronica esterofilia dell’ascoltatore italiano, spesso limitato nella sua ricerca ad una cultura musicale di importazione, dettata dall’esigenza delle majors del music business di costruirsi un solido riscontro nel nostro paese, attraverso una promozione pressante e capillare di prodotti esteri, supportata dalla stampa specializzata e dalle emittenti radiofoniche, a discapito di tanti prodotti del nostro sottobosco musicale. Paradossalmente, è rara all’interno delle classifiche di vendita in Italia la presenza di prodotti musicali provenienti dal nostro paese, mentre a spartirsi il mercato sono sempre prodotti provenienti da altre nazioni, nella maggior parte dei casi figli della cultura angloamericana; triste e rara eccezione è rappresentata da produzioni italiane vuote e prive di identità, nate con la finalità prioritaria di diventare suonerie da cellulare piuttosto che patrimonio della nostra cultura musicale. La musica italiana che riesce a ritagliarsi uno spazio all’interno del mercato è costruita secondo regole commerciali, e l’artista o la band emergente assomigliano sempre più ad un pacchetto o ad un marchio da vendere alle masse, alla stregua di un detersivo o di una merendina. La formula è semplice: una melodia orecchiabile e senza troppe pretese compositive, un testo privo di contenuti significativi, scritto per essere memorizzato facilmente attraverso assonanze e rime che rasentano il limite della banalità, artisti che diventano personaggi, costruendosi un proprio look identificante a tavolino (il ribelle, il romantico, l’anticonformista, il ragazzino spensierato…), quasi per appagare un senso di riconoscimento dell’ascoltatore basato più su canoni estetici che sui contenuti musicali. A dimostrazione di tutto ciò basti guardare il meccanismo alla base della produzione dei videoclip musicali, grosso traino delle vendite: si prende un’artista o una band cercando di inquadrarli all’interno di personaggi quanto più stereotipati, li si pettina, li si trucca, li si costruisce in modo che incarnino quanto più fedelmente il ruolo designato. Poi viene girato un videoclip promozionale del brano scelto per lanciarli nel panorama musicale, usualmente una canzone di facile presa, anch’essa sottostante a canoni prestabiliti: nei videoclip vi è sempre più spesso un’omogeneizzazione persino del linguaggio corporale e gesticolare, che differenzia nettamente, per esempio, le mosse e l’atteggiamento di un cantante rap o di uno rock; tutto fa parte di uno schema di promozione preciso e nulla è lasciato al caso o alla volontà di differenziazione artistica del prodotto. Quello che ne deriva è una proposta stereotipata e timorosa di porsi come un taglio netto dai soliti cliché del mercato musicale, come viene confermato dagli stessi canali di promozione: quella che è la selezione dei videoclip e delle hit del momento curata dai canali televisivi diventa poi a sua volta la programmazione di punta dei canali radiofonici, anch’essi incapaci di differenziarsi tramite una politica di supporto della qualità e della musica d’autore.

Se il DIY è nato per differenziarsi da tutto ciò, ripudiando alla base tutte le caratteristiche che riguardano questa logica di pensiero, allora deve anche fare i conti, come ha sempre fatto, con il fatto che la gente ha paura delle differenze e sempre più raramente tenta uno sforzo per cercare di comprenderle. Recentemente mi è capitato di fare un breve viaggio in compagnia di un artista londinese, leader di una band discretamente nota all’interno del mercato musicale mondiale, nonché gestore di una piccola etichetta indipendente in Inghilterra: ciò che mi è stato detto mi ha dato davvero molto da pensare. Secondo il suddetto, la differenza fondamentale tra lo scarso acchito che la musica indipendente ha in Italia ed il buon riscontro che ha invece in Inghilterra è in prima linea riconducibile alla funzione ed all’atteggiamento della stampa specializzata. In Inghilterra una band indipendente con una propria proposta musicale qualitativamente di buon livello può avere facilmente l’opportunità di essere presa in considerazione e recensita dalla stampa specializzata nazionale, in quanto è interesse della stampa stessa crearsi un buon nome attraverso la scoperta di nuovi talenti e presentando al pubblico nuove proposte in grado di appassionarlo e coinvolgerlo, indipendentemente da chi stia dietro la sua produzione, che si tratti di una major multinazionale o di una piccola etichetta locale. In Italia la stampa nazionale specializzata, già di per sé non troppo considerata in confronto ai mezzi di promozione televisiva o radiofonica, pone le sue attenzioni su determinati artisti, non curandosi della loro reale caratura qualitativa ma secondo le pressioni opportunistiche di determinate etichette o canali di promozione, al di fuori dei quali si crea una tabula rasa, come se non esistesse nulla di più di ciò che è “obbligatorio” considerare. Artisti appartenenti a tale management, o sotto contratto con tale etichetta discografica, meritano di essere considerati solo in base all’appartenenza a questi, mentre per gli atri non c’è spazio, in quanto non c’è interesse nel presentarli e di farli scoprire al pubblico. Per questo motivo ritengo che il pubblico stesso, nella persona del ragazzino che, spinto da una forte passione, cerca di scoprire e farsi una cultura all’interno del vasto mercato musicale, sia la prima vittima di questo meccanismo perverso, che gli chiude gli occhi appena egli cerca guardare oltre l’orizzonte. Se la cultura musicale underground italiana, e con essa anche quella delle autoproduzioni, è spinta sempre più sotto terra, il pubblico non ne è la causa, ma una vittima inconsapevole.

2.5 La posizione del DIY nel mercato musicale

Da quanto sinora detto a proposito del DIY e dei meccanismi che ne regolano la produzione e la distribuzione, appare abbastanza evidente come esso si ponga in una posizione piuttosto marginale nei confronti del mercato musicale, poiché gli stessi principi su cui si basa gli impediscono di esserne completamente all’interno. Parlare di music business significa riferirsi ad un notevole giro d’affari a livello mondiale derivante dalla speculazione sull’arte musicale, che fa sì che poche etichette discografiche si spartiscano il grosso del mercato e dei proventi che da questo derivano. Poche majors, oltre a controllare opere e diritti degli artisti più seguiti, influenzano direttamente tutto ciò che riguarda la promozione di questi tramite i canali ufficiali, lasciando pochi spazi di mercato a risorse alternative e proposte diverse. Tutto ciò, come è stato largamente illustrato in precedenza, comporta un appiattimento delle proposte musicali: si portano nuovi artisti e nuovi generi ciclicamente alla ribalta, per poi spesso relegarli nel dimenticatoio non appena si prospetta un cambiamento di gusti e di tendenze da parte del pubblico, primo parametro di valutazione per il successo di un prodotto, per ovvi motivi di profitto. In sostanza, non è più la qualità di un artista a garantirne la sopravvivenza, bensì le vendite da esso registrate, facilmente determinabili in termini di profitto. La stessa politica delle majors ad assecondare le esigenze del pubblico, determina lo scarso livello di longevità delle tendenze che vengono lanciate: se un certo genere ha buoni riscontri in termini di audience e vendite nel corso di una stagione, facilmente la maggior parte delle grandi etichette musicali lo sfrutteranno il più possibile per incrementare i loro profitti, sino al punto in cui la saturazione del mercato da parte di artisti troppo simili condurrà al collasso della stessa proposta musicale, con la conseguente necessità di un cambio di scenario il più immediato possibile. A questo punto o l’artista è in grado di rinnovarsi e cambiare pelle per adeguarsi alle richieste del mercato, oppure la sua visibilità e gli spazi promozionali concessigli andranno sempre a diminuire, riportandolo nel girone dell’anonimato. Lasciando da parte le necessità di qualità artistica, come in tutti i mercati un nome ed un prodotto hanno diritto di esistere finché funzionano; poi, se la tendenza si inverte, la loro inesorabile sorte è quella di scomparire.

In tutto questo meccanismo la cultura DIY è semplicemente passiva spettatrice: essa non ha interesse a conquistare grosse porzioni di mercato, ma la pretesa di promuovere proposte alternative, cercando, nonostante gli scarsi mezzi economici e distribuitivi a disposizione, di mantenere un’alta soglia di qualità da garantire a quella ristretta cerchia di pubblico appassionato. Ultimamente, però, capita sempre più spesso di trovarsi di fronte ad una tendenza piuttosto inedita: il mercato musicale di massa guidato si trova di fronte a cicli di vita sempre più brevi per le proprie proposte, ed il continuo tentativo di rilanciare generi e tendenze eclissati nell’oblio non sempre si rivela utile e proficuo. Quando la musica fatta e composta per le masse è in via di saturazione, le majors cominciano a pescare nell’underground per trovare le nuove proposte da lanciare al grande pubblico. Così, con sempre maggiore frequenza, capita che band o artisti legati al giro dei piccoli club o delle etichette indipendenti si ritrovino contattati da majors interessate a lanciarli su vasta scala, e non sempre è così facile rimanere indifferenti davanti a proposte tanto redditizie e promettenti, a meno che non ci sia una forte componete etica di rifiuto di questi meccanismi. Il più delle volte fare questo salto comporta rinunce e compromessi non indifferenti, che minano alla base la qualità della stessa proposta musicale: in sostanza si tratta di smussare gli angoli per adeguare la propria proposta al grande circuito commerciale, attraverso stravolgimenti di look, di immagine, di suono, di arrangiamento. Piccoli ma fondamentali ritocchi che mutano l’essenza della proposta stessa. A questo punto interviene la questione della scelta razionale della band o dell’artista di sottostare o meno alle imposizioni necessarie per l’ingresso nel music business: il mondo delle autoproduzioni può essere, da un lato, una necessità per artisti che muovono i primi passi, magari già speranzosi di approdare presto a circuiti di maggiore caratura, così come, dall’altro, una scelta etica e consapevole dettata dal rifiuto delle regole del music business, tesa verso una certa integrità artistica e compositiva lontana dalle regole del mercato. Spesso chi agisce all’interno del circuito DIY lo fa nella piena convinzione che chiunque se ne trovi all’interno lo faccia per propria scelta personale ed etica, disinteressato al mondo del profitto musicale e desideroso di poter portare avanti la propria proposta artistica senza cedere a compromessi e pressioni di mercato, ma non è sempre così: resistere alla tentazione di essere risucchiati dal music business è cosa possibile solo a chi teme e disprezza con forti motivazioni di fondo quel tipo di ambiente.

Tuttavia, trascurando la libera scelta di ogni singolo soggetto, se si cerca di vedere quella che è la portata speculativa dell’attività DIY all’interno del mercato musicale, si nota subito quanto essa sia marginale, se non addirittura inesistente. La gestione dei diritti d’autore, tra le maggiori fonti di provento nel mondo dell’industria discografica, è praticamente inesistente all’interno della cultura DIY, in cui non esistono artisti (nel senso che non ci si ritiene tali), ma solo persone e musicisti, desiderosi di allargare la propria proposta a quanti più ascoltatori possibile, tramite tutte le vie al di fuori di quelle commerciali: ultimamente sempre più band decidono addirittura di registrare i loro prodotti sotto licenza Copyleft, rinunciando così a qualsiasi tipo di diritto d’autore e consentendo libera diffusione dell’opera, al di fuori dei fini di lucro. La consuetudine relativa allo scambio di dischi tra produttori DIY esiste appunto per abbattere il concetto di guadagno personale e fare in modo che un prodotto possa essere distribuito quanto meglio possibile, fuori dai canali di promozione artistica ufficiali: si crea in questo modo una rete di risorse ed appoggi alternativa che, non dando priorità al guadagno, offre la possibilità di abbattere gli evidenti limiti di una distribuzione locale. Infine, aspetto non trascurabile è la politica dei prezzi:il DIY, trascurando i vari passaggi distributivi, consente all’ascoltatore di entrare in possesso del prodotto desiderato alla cifra stabilita dalla band o dall’etichetta che lo fa uscire, cifra usualmente piuttosto abbordabile e lontana dalle speculazioni del mercato musicale. Mentre le majors combattono una battaglia a spada tratta nei confronti della pirateria musicale, attribuendo a questo fenomeno le maggiori responsabilità sull’aumento dei prezzi, il DIY decide di stabilire prezzi ragionevoli in proporzione ai costi, così da rendere un determinato lavoro economicamente accessibile a tutti, applicando un sistematico controllo sulla distribuzione e sulla speculazione altrui del prodotto stesso. Pare perciò evidente come la cultura DIY non sia da considerare sotto l’aspetto economico una componente di rilievo all’interno del mercato della musica: in primis perché i meccanismi su cui si basa sono diversi e lontani da quelli tradizionali del profitto, in secondo piano perché, nella sua lontananza ideologica dal circuito del music business, non si trova nemmeno nella posizione di sottrarre parti di mercato a quest’ultimo. Si tratta semplicemente di un mondo a parte, regolato da meccanismi a parte, che punta al soddisfacimento di differenti finalità ed obiettivi, secondo il rispetto di certi valori.





Immagine 10 - Cut-up tratto da “TVOR” (immagine tratta da Philopat, Marco, Costretti a sanguinare, Shake Edizioni, Milano, 1997, p.XXVIII).




Autoproduzione, Federico Zenoni