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INTERVISTA A MARIO TRONTI - 9 AGOSTO 2001
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[...] Questi movimenti antiglobalizzazione devono avere la capacità di stare dentro una storia, altrimenti subiscono anche loro il fascino di una sorta alternativa di nuovismo: "è un movimento nuovo in tutti i sensi, non ce n'è mai stato uno di questo tipo qua, interessante è questa sua novità per il modo in cui vive, per come si organizza, per come si esprime". Però, sarebbe interessante se loro riconoscessero una storia dietro le spalle, sapere da dove si viene è importante. E dietro ci sono queste esperienze di lotta, non c'è nessun movimento che possa prescindere dal fatto che ci sono state le lotte operaie, nessun movimento contestatore (come si dice) dell'ordine costituito può pensare di prescindere da questa storia qui. E' un movimento che si presenta subito con una sua apparente forza e reale debolezza. La forza è di continuare una storia, di prendere una bandiera. Nemmeno io penso che sia oggi riproponibile un ciclo di lotte operaie come quello degli anni '60, né qui in Italia né in altri paesi, è chiaro che ci sono altre forme di conflitto; però, appunto è la continuità del conflitto, la storia del conflitto che è fondamentale. Tale consapevolezza non c'è, questi tipi di studi, di raccolte, di ricerche come questa dovrebbero anche servire per immettere là dentro questa consapevolezza. Non tanto perché da queste ricerche scaturisca un'esperienza di riproposta, ma per immetterle dentro un collettivo attualmente esistente di protesta, che sicuramente c'è, c'è più di quello che si vede. Del resto una delle cose interessanti di questi movimenti è che ti fanno scoprire che c'è ancora una carica pure eversiva, giustamente eversiva, anche il carattere poi della violenza è la spia di qualcosa, di una mentalità non-ordinante, dis-ordinante anzi. E' interessante vedere che c'è ancora, perché guardando il mondo si può pensare che ormai ciò sia chiuso. Invece, questo è tipico del grande capitalismo, che ripropone sempre al suo interno contraddizioni nuove, e anche forme di spinte, di anticapitalismo: il capitalismo produce anche l'anti. E' interessante perché appena la cosiddetta globalizzazione scavalca questo orizzonte viene fuori l'antiglobal. Però, anche lì è importante capire che ciò sta dentro una logica di sistema e non è una cosa che capita adesso per la prima volta, c'è stata sempre da quando c'è storicamente capitalismo: poi le forme sono state sempre diverse, questa può essere una forma di anti, però sta dentro la storia dell'anti. Lì questo tipo di consapevolezza io non riesco a vederla, non so se c'è una conoscenza anche limitata del movimento. Cioè, il fatto che si dica più globalizzazione che capitalismo è significativo: io non dico mai globalizzazione, dico sempre globalizzazione capitalistica, questa è la caratteristica che definisce la globalizzazione, la sua natura capitalistica. Allora, anche l'anti diventa più chiaro, perché altrimenti quando parli di antiglobalizzazione devi dire: "però non siamo contro la globalizzazione in quanto tale ma si tratta di usare in un altro modo la globalizzazione", c'è questo discorso leggero, all'acqua di rosa insomma, "non siamo contro ma...". Invece, se tu sei contro la forma capitalistica della globalizzazione, allora il discorso diventa molto chiaro. Però, io non lo vedo declinato così, tranne magari in qualche frangia più consapevole. Bisognerebbe aprire una discussione, ma è difficile poi capire chi sono, dove sono. C'è questa per me fastidiosa natura pauperistica del movimento, che poi gli dà un'intonazione etica, "per i poveri del mondo contro i ricchi del mondo", messa così non è che ci si cavi un granché: tanto è vero che poi ti ritrovi lì la parte cattolica, i papa-boys, ti ritrovi dentro tutti, la cancellazione del debito ecc. Bisogna far capire che sono forme che erano già state superate a un certo punto dai cicli ricorrenti delle lotte operaie, la loro caratteristica era stata proprio quella di abbandonare questo terreno: non la rivendicazione ricchi contro poveri, ma due classi che non si disputavano poi tanto la quantità di ricchezza da spartire, quanto invece il livello di potere da esercitare. Quello è stato il movimento operaio, nella lunga storia delle classi subalterne è intervenuta questa consapevolezza non più di debolezza ma di forza: "siamo alla pari, non è che vogliamo una migliore redistribuzione della ricchezza, vogliamo che si metta in discussione il criterio di produzione della ricchezza stessa; e siccome nel rapporto di produzione c'è implicito un rapporto di potere, lì, nel rapporto di potere, dobbiamo fare il conflitto". Questo è il punto altissimo da cui non si può tornare indietro: tanto è vero che gli operai poi si organizzavano attraverso i sindacati, attraverso i partiti, per la conquista del potere politico.

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