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INTERVISTA A FRANCO PIPERNO - 31 AGOSTO 2000
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Vorrei fare una premessa limitativa a quello che dico che è alla fine strettamente legato a quello che faccio, come a mio parere è inevitabile che sia: io faccio il fisico di mestiere, poi mi occupo di cablare una città. Dico questo per dire nello stesso tempo che sono fortemente e inevitabilmente condizionato, al di là di quello che coscientemente riesco a definire, da un tipo di scelta d'azione e di vita sociale che ho. Allora, detto questo in premessa, se dovessi caratterizzare la situazione di oggi rispetto a quella dell'inizio degli anni '60 e a quello che è partito verso la fine degli anni '60, farei riferimento prima di tutto al ruolo diverso che gioca il lavoro nell'innovazione, cosa che a me sembra assolutamente decisiva per caratterizzare la fase. Una volta l'innovazione in fabbrica aveva certo quella che, in una conferenza di tantissimi anni fa, Romano Alquati chiamava, riprendendola da Marx, la via per così dire delle scienze, del pensiero tecnico-scientifico che si materializza in strumenti (ad esempio la cellula fotoelettrica che permette il controllo della catena); aveva poi l'altra via dell'innovazione che era dovuta al risparmio di fatica operaia. Almeno per me gran parte dell'interesse intellettuale della condizione operaia era esattamente questa cosa (non dico che questo sia così in generale, sto parlando della mia esperienza). L'operaio lì ha una funzione innovativa, se si vuole anche suo malgrado: lui lo fa per risparmiare fatica, ma la conseguenza è una conseguenza generalmente umana, per esprimermi nel gergo della tradizione marxista. Allora, quello che è venuto a mancare è esattamente questo, e quelli sono, per così dire, gli anni del processo di estinzione (ora esagero per ragioni dialogiche, per fissare le cose fra di noi).
Però, a me sembra che tutto il processo di automazione, e sostanzialmente poi l'introduzione in senso forte della telematica nel processo produttivo, abbia come conseguenza significativa questo, al di là di una definizione economica della condizione di classe tramite la categoria dello sfruttamento. Fra l'altro su tale definizione io ho avuto fortissime perplessità fin da piccolo, perché per sfruttare bisogna che ci sia qualcuno che davvero produce, cioè qualcuno che accresce davvero il valore di quella merce, che questo qualcuno non sia genericamente tutti perché se no la cosa non funziona. Allora, al di là di come la teoria economica, anche di parte marxista, si è rappresentata il processo, era dubbio che si potesse parlare di sfruttamento, perché questo comporta un'idea di produzione e accrescimento della ricchezza che invece non è così ovvia come sembra, cioè può anche darsi che la ricchezza non si accresca mai, che semplicemente si distribuisca in maniera diversa nel tempo di una giornata, dei consumi, delle forme. Dunque, dicevo che, a parte la definizione in termini di sfruttamento, la definizione invece o il riferimento alla classe operaia in quegli anni per noi del movimento, e anche per noi della FGCI (perché io in quegli anni ero nella FGCI, stavo a Pisa e c'era tutto un piccolo gruppo di studenti ma anche di operai, non molti ma c'erano), riguardava le forme di insorgenza, le condotte di massa operaie interessanti proprio dal punto di vista dell'effetto innovativo che avevano sul processo produttivo. Detto ancora in altri termini, da questo punto di vista la classe operaia appare, in una specie di romanzo su come è andata la storia dell'umanità, come quella che realizza questo sogno antropologico umano di scaricarsi la fatica: scaricare la fatica fisica, scaricare possibilmente anche la fatica cerebrale nei termini in cui è fatica, e quindi in cui in realtà è ripetizione. Ciò perché è solo parzialmente un problema di capacità di fare lavoro fisico con i muscoli, in gran parte si tratta di fatica nel senso che la ripetizione, per come è fatta la nostra condizione umana, comporta una mera fatica; è anche una cosa che viene disprezzata nella tradizione dei movimenti di liberazione, per come corrono nei secoli, la fatica brutale e ripetitiva viene disprezzata. Allora, da questo punto di vista le lotte di classe operaia sono state in qualche maniera come la conclusione di questo lungo percorso: conclusione che ha portato a una sorta di matematizzazione del mondo come cosa vista dall'altra parte. Cioè, tutto questo è stato reso possibile perché in realtà c'è la macchina automatica, e questa non ha una base esperienziale, ha soprattutto una base simbolica-speculativa: dunque, non è arrivata attraverso l'esperienza, è arrivata attraverso lo studio, quindi attraverso le capacità simboliche dell'essere umano. Quindi, da questo punto di vista naturalmente appare anche come una cosa esterna, perché non è nata dal fatto che hanno automatizzato per esperienza, è nata dai teoremi di Turing. Questa stessa cosa si può vedere anche dal punto di vista della vigenza della legge del valore, per dirla in termini a noi famigliari, da questo punto di vista naturalmente il richiamo alle cose di Marx è assolutamente pertinente: è come se fosse saltato quel rapporto fra valore e tempo di lavoro, ma ciò non solo nel senso della critica all'economia politica, ma è come se fosse saltato nell'esperienza. Da qui i comportamenti che non si comprendono, cioè il fatto che uno possa ritrovarsi disoccupato a cinquant'anni, tutte quelle cose che se le vedi dal punto di vista della vita quotidiana sono paradossali rispetto a un certo regime a cui la società di fabbrica ci aveva abituato, per cui avevi delle età precise in cui si facevano delle cose. Invece, qui c'è in realtà un rimescolamento del tempo, del modo di concepire il tempo nella vita quotidiana, del modo come attraverso la categoria del tempo noi ci organizziamo la vita quotidiana.

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