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INTERVISTA A MARIO PICCININI - 10 GIUGNO 2001


Certo, c'è stato un lungo lavoro filosofico sugli assetti logico-concettuali del politico e della politico, fatto in anni di ricerca con altri in università, in particolare con il gruppo di lavoro sulla storia dei concetti politici a Filosofia a Padova e dove per me si sono determinate anche lì delle figure di magistero e delle referenze forti. Credo molto in questa fase (non so se c'entri con la domanda) sull'azione parallela: penso che ci siano piani di pensiero, piani di iniziativa, linee di condotta che non sempre o non linearmente, specialmente in anni come questi, portano a sintesi, e anticipare sintesi ha senso e potenza solo sul piano della politica pratica. In fondo, non credo di avere un pedigree diverso dalla mia generazione. Senza dimenticare poi l'operaio metalmeccanico che nel '66 mi ha insegnato come si deve scrivere un volantino!


Romano sostiene che l'operaismo si potrebbe inscrivere in un poligono i cui vertici sono la politica, la cultura, gli operai e l'operaità, la dimensione giovanile e generazionale. Tra questi vertici l'operaismo si è mosso, ha cercato di farci i conti o non vi è riuscito.

L'"operaismo" è stato in Italia anche la percezione di una transizione sociale e la modalità critica di modernizzazione culturale. Il confronto con 'forme alte' del pensiero borghese o lo stesso modo di formulare la critica dell'ideologia hanno sicuramente indotto un processo di acquisizione conoscitiva e a volte cognitiva che le componenti moderniste della cultura italiano degli anni '50 e '60 solo in parte avevano alluso. Probabilmente è vero che interi capitoli della sociologia classica, penso a Max Weber, siano stati recepiti nelle lettura critica che ne ha fatto la generazione che ha promossa la ripresa del marxismo negli anni '60. La peculiarità del marxismo italiano è stata quindi anche una forma di modernizzazione ipotecata politicamente, questa credo sia molto evidente. In fondo tutto ciò è avvenuto secondo una modalità omogenea a quella dell'analisi politica che assumeva la modernità politica della classe come indicatore della modernità capitalistica del paese. Paradossalmente in Francia non è stato il marxismo, ma è stata la rilettura lacaniana della psicanalisi (anche qui innovazione come ortodossia) ciò che ha complicato e messo in discussione alcuni profili di provincialismo culturale, operando in un contesto culturale un processo, forse secondario, ma effettivo di 'modernizzazione' culturale. Questo discorso sulla modernizzazione ipotecata politicamente vale anche per la questioni generazionale, nel senso che penso che almeno in alcune aree del paese (ma forse non solo) generazioni di giovani di formazione medio-alta abbiano potuto probabilmente interpretare (e comunicare con) giovani non intellettualizzati o meno scolarizzati attraverso griglie di quel tipo. Credo che ci sia stato una sorta di 'collante riflessivo' di un processo di modernizzazione formativa che forse tornerebbe utile a ragionare sul rapporto operai/ceto medio dal '60 in avanti.


Tu ti sei occupato molto della politica, facendo ad esempio degli interessanti studi su Hobbes. Possiamo parlare della politica come gestione e amministrazione dell'esistente, e invece del politico come agire organizzato volto alla trasformazione, al rovesciamento, alla rottura dei processi. Romano parla inoltre, come peculiarità sistemica, della politicità intrinseca e socialmente diffusa come potenziale d'influenza o condizionamento che ciascun rapporto, scambio ed attività sociale e suo luogo ha nei confronti del potere e del dominio. Poi si danno ovviamente le particolari forme di incrocio e di articolazione di categorie che comunque sono differenti. In questa ricerca verifichiamo che buona parte degli intervistati sono concordi nell'individuare nella politica un grande buco nero dell'operaismo, in tutte le esperienze e opzioni che al suo interno si sono date. Però, il modo di intendere la politica della maggior parte degli operaisti è ancora oggi in termini principalmente organizzativistici, ossia c'è una certa identificazione tra politica e organizzazione e forma-partito. Lenin, per esempio, ribaltava i termini: partendo da una particolare composizione e potenziale soggettivazione di classe e analisi complessiva della dimensione socio-economica, la politica e il partito diventano il luogo di elaborazione dei grandi obbiettivi, della riformulazione del programma comunista, ed i mezzi, tra cui il discorso organizzativo, vengono funzionalizzati ai metafini, relativamente mobili eventualmente. Romano sostiene che l'operaismo è stato connotato da un certo silenzio sui fini e sugli obiettivi politici, e quindi su una necessaria rielaborazione del comunismo, anche in relazione ad una nuova fase capitalistica in Italia, quella del taylorismo-fordismo, e soprattutto alla nuova operaità dell'operaio-massa. Se si pensa ad esempio al discorso della classe come strategia, il partito diventa esclusivamente la tattica, il luogo deputato all'organizzazione e finanche alla politica come tecnica verso fini su cui, da parte di quasi tutti gli operaisti, calava il silenzio.

Questo è assolutamente giusto, ma non credo che sia una cosa imputabile in particolare alla generazione di Classe Operaia. Ha forse giocato lì una divisione, 'sociologicamente' interessante ma a volte infelice politicamente, del lavoro e delle competenze. Leggendo Classe Operaia a volte si ha l'impressione di intuire questa ripartizione a partire dal tipo di attenzioni che uno si è preso.

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