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INTERVISTA A GIANCARLO PABA - 7 SETTEMBRE 2001



Durante un convegno organizzato da Carta l'anno passato tu hai parlato di "progetto cantierabile". Cosa intendi con questo termine?


Volevo solo esprimere un concetto se si vuole banale, che mi sembrano oggi necessari progetti di trasformazione effettiva della realtà, che possano produrre risultati pratici, che si vedano nelle situazioni di conflitto e di contrasto sociale energie in azione, e che queste energie producano effetti materiali sull'organizzazione del territorio e della città. Progettare e costruire, la metafora del cantiere significa in fondo questa, un luogo di soggettività liberate, un contesto di innovazione.
A Firenze c'è un significativo movimento di lotta per la casa, molto attivo ed efficace nella sua azione, quindi seguo con simpatia quello che fanno. Poi loro sono completamente autonomi, come molti di quelli che lavorano su questi terreni sono un gruppo ferocemente geloso della propria autonomia. Dico quello che mi piacerebbe, perché probabilmente neanche loro controllano tutto quello che fanno: se le cose hanno un significato non le controlli, non le devi controllare, se le controlli del tutto vuol dire che non hanno un grande significato. Per esempio, un episodio di occupazione di case può avere diversi significati dal punto di vista politico: uno è quello di contrastare alcune logiche edilizie e immobiliari della città, di aprire conflitti, di determinare attraverso la meccanica dell'appropriazione di un immobile e della sua trasformazione un contrasto con le autorità, aprire una dialettica e via dicendo, il che è naturalmente una cosa assolutamente importante. Non è che questa cosa non mi interessi, sono felicissimo che ciò ci sia, che ci sia anche una struttura organizzata capace di lavorare su uno dei bisogni più drammatici soprattutto in una città come Firenze, che forse rispetto ad altre realtà vive sul tema della casa una drammaticità particolare per la combinazione di turismo e l'espulsione della popolazione dal centro storico. Quindi, questo tipo di iniziativa è assolutamente fantastica da questo punto di vista. Però, il mio interesse scatta quando la cosa diventa concreta e quando le occupazioni stanno in un punto della città e questo è un punto in cui, se lo osservi e lo analizzi, hai un pezzo di società che deve vivere. E allora, se quel pezzo di microsocietà deve vivere, bisogna intanto capire che pezzo di società è: allora scopri che sono immigrati oppure no, che sono diversi, che devono costruire qualche cosa per continuare a vivere, scopri che tra le case c'è uno spazio comune, che quello spazio comune può diventare qualcosa. Questi aspetti mi interessano della mobilitazione pura e semplice (che però naturalmente è il presupposto perché si sviluppi tutto il resto) che porta i movimenti ad occupare le case. Il che, lo ripeto ancora, è importantissimo perché senza le occupazioni di spazio pubblico, di giardini, di case, di immobili, di fabbriche e la loro trasformazione in case individuali o collettive, in spazi urbani autogestiti o in centri sociali, non ci sarebbe il resto. Però, poi alla fine quello che mi interessa è realmente quello che avviene dentro in termini fisici, luoghi che cambiano aspetto per il fatto di essere abitati, possono essere luoghi chiusi come fabbriche, o possono essere luoghi aperti come piazze all'interno delle quali si svolgono dinamiche sociali. Mi interessa il modo in cui cambiano e in cui trattano relazioni, soprattutto relazioni umane, come creano legami con le persone, che sono sempre difficili, che non sono idilliaci. E' questo l'aspetto che mi interessa. Su questo stiamo anche facendo una ricerca dei cui esiti non sono soddisfattissimo, ci dobbiamo lavorare molto con un gruppo di ricerca dell'università all'interno del quale ci sono persone (e quindi è una ricerca partecipata) che sono dentro le situazioni che studiano, e dunque non sono ricercatori che osservano e analizzano dall'esterno, ma sono interesterni, fanno anche parte di questa realtà. Questa ricerca è un tentativo di costruire una sorta di mappa (di controgeografia l'abbiamo chiamata) di un'altra Firenze, una specie di atlante delle situazioni insorgent, non nel senso di insurrezionale (non c'è niente di veramente rivoluzionario a Firenze e nelle città italiane), ma nel senso di luoghi della città in cui si dispiegano energie vitali che poi impongono alla città stessa e al potere di avere attenzione nei loro confronti. Mi piacciono cioè tutte quelle situazioni in cui si radicano gruppi sociali e a partire dai bisogni elementari della vita sono posti alla città problemi che essa deve risolvere; mi piacerebbe poi che questi gruppi se li risolvessero da sé, ma anche costringendo la città a intervenire sul piano dei bisogni elementari o su quello dei bisogni più qualificati, dalla casa al giornale alla cultura al linguaggio e così via. Quindi, l'idea dei cantieri sociali in fondo nasce da questa deformazione professionale se si vuole, dalle ricerche all'interno della facoltà di Architettura che non si sono mai interrotte.

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