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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000

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Accenno qualcosa pure su alcuni libri di Romano Màdera, credo pochissimo conosciuto, anche per dire di me parecchi anni fa: circa dal '60 al '65. Ci sarebbe tantissimo da dire, soprattutto su questi libri, naturalmente; mi limiterò ad una piccola parte. Tralascio il punto di vista di genere perché allora non c'era: c'erano le donne, non le femministe. Fare la storia di vecchie esperienze è anche di cattivo gusto: tipico di chi non ha presente, e tantomeno futuro! Ma adesso ci sono cose ed atteggiamenti che tornano, deformati. Può valer la pena di testimoniare qualcosa. So già che qualcuno pensa che io metta dentro quell'operaismo troppe cose. Io invece dico che ve ne ho messe troppo poche: una parte l'ho omessa di proposito, l'altra l'ho dimenticata. I cambiamenti del presente rinnovano una fame di conoscenze storiche; noi siamo anche circondati da tanti bravissimi storici che però non danno nulla. Io non ho mai creduto di essere un notevole "intellettuale", ossia un professionista della cultura umanistica esplicita. Gli intellettuali non mi hanno mai granché entusiasmato, e comunque non ho mai scritto per intellettuali, ma per militanti, con una scrittura peculiare. Cerco di scrivere pezzi di macchine (di guerra?) magari contro l'odierno macchinismo. Per questo, a differenza di miei autorevoli vecchi compagni di strada, non smetto e non sprofondo per la sconfitta dei primi due operaismi politici e l'inabissarsi dei vecchi operai, segno che il loro pensiero non era davvero tutto negativo?... C'è già sempre per me un nuovo medio raggio... Comunque, so di aver capito varie cose che altri non ha mai capito, e di averle anche capite in buona parte prima.


Due prime parole su di me

Non so se Màdera abbia mai letto qualche mio libretto, magari quando stava con Gambazzi, nel primo Rosso. Quello buono. Ci sono state fra noi a distanza di una quindicina d'anni molte coincidenze, soprattutto linguistiche. Quando nei primi anni '80 ho letto, un poco superficialmente, ammetto, il primo libro di Màdera intitolato "Identità e feticismo" non sono stato sorpreso tanto dalle sue principali affermazioni, ma solo dalla profondità della sua conoscenza di Marx e di alcuni marxologi: a mio parere forse pochissimi altri negli anni '70, potevano vantare una simile conoscenza dei testi marxiani (e marxisti). Concordo che la questione del feticismo, e specificamente del feticismo del capitale e non solo di quello della merce, è basilare nel pensiero di Marx. Ed essa è stata un poco aggirata dagli "operaisti politici di seconda battuta" nostrani, ma solo un poco...; ed è stato giusto così. Comunque, quel libro maderiano era duramente contro Tronti a solo pochi anni dall'uscita di "Operai e capitale" ed appariva in un momento di massimo richiamo dell'interpretazione trontiana di Marx, sebbene in cerchie ristrette e particolari, ed era scritto da parte di un giovane milanese (a ventisei\ventisette anni!) che pure aveva fatto e magari stava facendo ancora una certa sua esperienza di un operaismo analogo; questo era abnorme... Tuttavia per quanto concerne l'attacco forte ma ambivalente allo stesso Marx e l'incerta (nel '77) apertura a Nietzsche e Freud e di più a Jung che quel testo maderiano pure conteneva, leggicchiandolo malgrado tutto mi ero ritrovato proprio a casa mia; rispetto innanzi tutto alle discussioni con alcuni amici alla fine degli anni '50 e poi riguardo a certi temi di riflessione nell'esperienza del movimento-operaio non piccola che ho fatto negli anni '50, '60 e '70 ed i numerosi diversi e ricchi dibattiti che già allora si sono ripetuti nel nostro giro e con filosofi e scienziati sociali, pure al di fuori della ripresa di Marx e dei classici del "marxismo", con alcune oscillazioni, in specie secondo alcune fasi... Orbene, Màdera nel '77 mi riportava lì. A vent'anni prima: ai miei venticinque anni. Come ho già scritto, eravamo già per certi aspetti post-moderni ante marcia.
Restando a me, ripeto cose che ho già scritto di qua e di là, anche più volte. Sono stato cattolico fino a quindici anni, e poi proprio mai più. In seguito ho mantenuto una discreta curiosità antropologica per tutte le dimensioni della religione e della religiosità, ma io dal '50 di cattolico credo proprio di non avere più avuto proprio nulla. Ero arrivato a Marx dal '52-'53 in un contesto di militanti "comunisti\storici" e consigliari o di "operaismo-rivoluzionario", per lo più trotzkisti o ex trotzkisti, tutti fortemente antistaliniani e critici della burocratizzazione dei partiti comunisti, neppure solo europei. Burocratizzazione che alcuni di loro, francesi (Castoriadis e quelli di Socialisme ou Barbarie e Pouvoir Ouvrier), ed analoghi inglesi (per Shop stuard, ecc., da New university left, ecc.), ed americani (News and letters ecc.), e spagnoli, e dell'est, tutti un po' visionari e retro, a grande differenza da noi, facevano risalire almeno in parte allo stesso Marx, oltreché al leninismo (in specie dal '918 in poi); criticavano molto la caduta nel socialismo realizzato.
Sia io che vari miei amici cremonesi, e pure milanesi, non abbiamo mai avuto nulla a che spartire in positivo con Stalin e lo stalinismo. Semmai io mi misi a riflettere un poco su Stalin dopo, nei secondi anni '60. Ma fin da giovani noi c'incontrammo, seppur su linee diverse, a dialogare con locali "minoranze storiche" sia trotzkisteggianti, sia "internazionaliste", pure bordighiane. Così verso la metà degli anni '50 il nostro incontro d'adolescenti con l'altra grande ideologia e religione fu subito con Marx e con Lenin (e la Luxemburg e Trotzki, ecc.), coi testi che si potevano leggere in italiano ed in francese. Per me fu determinante l'incontro nel '55 con Giovanni Bottaioli, un quadro operaio internazionalista rientrato da un lungo soggiorno nella Parigi operaia, che fra l'altro m'impressionò subito con la sua critica della vicenda dei fronti popolari, e con la sua idea piuttosto leninista dell'operaità di mestiere (con la faccenda dell'"opportunismo bianco" di quegli operai...): l'altra metà dell'artigiano e dell'artigiano\contadino dimidiato: un apprezzamento degli operai, il suo, ma assai critico. Così fin da allora non credo di essere mai stato populista proprio in nessun senso di questa parola; ma semmai da subito operaista, ed in una maniera insolita, fra gli intellettuali di sinistra italiani, complicata e forse un poco originale. Tuttora difficile da capir bene. Ed oggi la ritengo retrospettivamente un poco inopportuna per la rigidità con cui l'intesi, anche in seguito. Talora ho sentito gli operai quasi come l'altra parte delle macchine, in un'apertura schizoide alla tecnoscienza... Ma solo talora...
Dico inoltre subito che non è proprio vero quel che dice anche Rozzi, che io sono stato figlio di Montaldi. Non è proprio mai stato vero! A cominciare subito dalla qualità della mia concezione dell'operaio, a molto altro. Fra l'altro questa differenza mi pose in una forte differenza verso l'idea piuttosto populista che tutto il buono veniva "dal basso": per me il capitalismo doveva essere combattuto insieme dal basso e dall'alto.
Attraverso l'amicizia con operai-sociologi come D. Mothé superai subito la venerazione dell'artigiano di fabbrica, ossia dell'operaio artigiano e di mestiere (che appunto Màdera ci ripresenta chiuso, col marxismo ed il socialcomunismo storico, nel labirinto del capitalismo; se non fosse per taluni apporti esterni...). Ma mi posi subito, già a Cremona, nella prospettiva della fabbrica nell'organizzazione scientifica classica, di tipo "taylorista", e in una dimensione di "operaio-collettivo" da ricomporre attraverso i vistosi "frantumi" (Friedmann, Navillle...) dell'operaio-massa. Nel '57 criticavamo il "metellismo" degli intellettuali di sinistra italici; e io guardavo a Jünger, quello di "Tempeste d'acciaio" e di "L'operaio": questi libri li stimo ancora molto. L'operaio capace come membro di un immenso collettivo, non solo di reggere, pur soffrendo e morendo, ma pure di fronteggiare, gestire e co-produrre l'enorme potenza della tecno-scienza e del macchinario semiautomatico, per la sua stessa sopravvivenza e in un movimento da cui poteva uscire qualche risorsa o condizione per cambiare qualcosa proprio di quella tremenda condizione e società. Comunque non nel sacrificismo etico comunista-proto-operaio e poi grottescamente stalinista. Anche nel taylorismo, si doveva e poteva rivendicare e valorizzare dietro alla miseria delle mansioni formali dei singoli la forza, la capacità e finanche la produttività "collettiva": ripeto, malgrado la miseria e il vuoto professionale di moltissimi singoli lavoratori di grande serie; appunto. Qui proprio niente di populista. Semmai il contrario. Ed avversione pel consumismo e fastidio per ogni andata al popolo, agli umili, ai sottomessi, ai subordinati. Malgrado tutto dico che nemmeno il mio amico Gasparotto andava al popolo nel senso che qualcuno ha frainteso: é troppo facile... Ma della mia idea degli operai, collettivi, proletari capaci ormai soprattutto collettivamente nell'occupazione, presenti ed innervati in tutto il ciclo della fabbrica e della società fabbrica tecno-scientifica e talora un poco in dialettica col loro stesso feticismo, magari riparlerò un poco in seguito. Comunque nella rappresentazione jüngeriana c'era parecchio che non mi quadrava ed io volli andare a guardarci subito dentro, con diffidenza, criticando: proprio perché sentivo nel vecchio operaismo fra i due trascorsi secoli qualcosa di religioso, ed in vari sensi. Tantopiù in un embrionale revival italico a fine anni '50 e per un operaismo di ritorno.

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