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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Altre due parole sulla conricerca

In realtà la conricerca come l'intendevo io non è mai davvero decollata, rimase in un limbo, però la parola è stata ed è ancora suggestiva: è rimasta fino ad oggi un'idea. La mia era diversa da quella di Montaldi. Dopo i primi anni '60 è tornata sempre, ogni tanto con qualche ri-abbozzo, legata ad iniziative individuali o locali ma non collegate fra di loro. Negli ultimi anni su di essa ho fatto un'ulteriore pensata: il frutto di ciò è "Camminando per realizzare un sogno comune" ('94), che rappresenta la continuazione di un altro mio libretto, "Per fare conricerca" ('93). Nel passato è stata fatta soprattutto una teoria dell'avvio della conricerca ed una certa messa in pratica dal '60 al '63, e poi dal '64 al '65. C'è questa parola suggestiva che colpisce l'immaginazione: scienziati sociali militanti che si mettono a fare la ricerca alla pari con coloro che prima erano solo oggetto d'intervista e basta; una volta finita l'intervista, l'intervistato rimaneva lì e non ne sapeva più nulla. C'era poi quello che veniva soprattutto immaginato, poco praticato, sul modello degli assistenti sociali, da gente non di formazione operaista, profondamente anti-leninista e assai populista: essi volevano solo coinvolgere gli intervistati, se non altro nei fini, nei mezzi, specie in vista di una pubblicazione, ritenendo l'altra ricerca una forma di esproprio. A Torino c'erano Ciafaloni e Fofi (reduce, il secondo, da Dolci e Scotellaro) che erano suggestionati in questo senso populista, che oggi ha un poco successo presso certi giovani intellettuali, presso alcuni cineasti. Per noi, invece, non aveva quel taglio: era fatta in tutt'altra maniera e con tutt'altri soggetti. C'era dunque gente di taglio assistenzial-populista che sapendo che ricercavo sugli e con gli operai (e gli impiegati) mi aggrediva proclamando che quello che il popolo dà deve restare al popolo, anche in termini proprio giuridici.
Noi la praticavamo anche sperimentalmente, parallelamente all'inchiesta sociologica sugli operai e i lavoratori occupati nelle fabbriche nuove e vecchie, grandi e piccole. Già quest'ultima poteva crescere solo a macchia d'olio con gli ulteriori indirizzi fornitici dagli stessi operai e da qualche militante di sindacato o partito, e quindi con un primo loro coinvolgimento. La conricerca non si basava affatto sulla qualificazione professionale, sulle competenze del mestiere; coinvolgeva operai (e impiegati e tecnici ed operatori) in un lavoro sistematico di ricerca su tutto l'arco della loro sopravvivenza e conflittualità e lotta, alla pari con gli intellettuali e ricercatori "esterni" a quel dato ambito lavorativo, dove però un poco ci si "radicava", anche se talora si trattava di un lavorare esterno al luogo di occupazione, a cominciare dal loro lavorare auto-riproduttivo. Dunque già si anticipava una concezione del lavorare diverso dall'artefare, e tantopiù dal produrre manuale, tangibile. Questo rapporto e scambio era reciprocamente anche formativo. Poneva esplicitamente ipotesi politiche sulla lotta legate alla teoria, messa così alla prova, in maniera che quel conoscere mobilitativo trasformava l'operaio anche in un peculiare militante (non solo ideologico...) e faceva crescere il militante e talora la lotta verso l'alto, finché lui stesso pure operava come con-ricercatore tirandosi dietro altri, come noi d'altronde ci tiravamo dietro giovani apprendisti. Poi i militanti conricercatori si collegavano fra loro (magari in una redazione di fogli di fabbrica od operai, anche preesistenti) in una certa rete, allora faccia a faccia e col telefono... Ma era un lavoro lento, che richiedeva molto tempo e radicamento per crescere ed anche per allargarsi. In fondo era solo una sistemazione di un tradizionale lavoro d'organizzazione politica di militanti, in cui non si portava solo la coscienza come ideologia, o come religione, ma ci si basava sulla conquista di nuova conoscenza da un punto di vista peculiare. Di nuovo c'era una certa sistematicità scientifica, e la realtà in cui e su cui s'indagava, e su cui gli stessi militanti anche vecchi avevano bisogno di conoscere, e poi ancor di più i nuovi lavoratori (magari immigrati) spesso spaesati e sconvolti dal nuovo. Nella conricerca vecchi militanti e lavoratori torinesi s'incontravano e scambiavano con i giovani operai immigrati e magari neo-lottanti, ma senza tradizioni di partito e neppure esperienza sindacale, ecc. Ciò s'inseriva nella ri-composizione e nella ri-soggettivazione ed andava avanti anche da solo, nella spontaneità e nell'organizzazione spontanea nella lotta. Che però da sola non bastava. Sapevamo che per saltare oltre aveva bisogno di un partito di tipo nuovo. Che non eravamo noi. Partito che (forse) se ci fosse stato avrebbe potuto portare a fondo anche la conricerca, portando la lotta fino ai livelli più alti...
Montaldi ha ripreso l'idea dell'inchiesta condotta e diretta insieme con gli indagati da Guiducci, ma l'ha fatto in termini molto diversi sia da lui che da me: successivamente non ha fatto più niente di simile. Quando io l'ho ripresa qui a Torino, c'era quel gruppo che indagava sul campo continuamente diviso in due: ce n'era una metà (ripeto, composto da quattro, cinque, sei persone) con cui questo discorso aveva una prospettiva, almeno preso "grosso modo". L'altra parte, quella che poi ha fatto i Quaderni Rossi (tra cui Panzieri), non ha mai accettato la conricerca. Quando, nel '61, con quelli ci siamo riappacificati la conricerca è stata messa da parte, nell'apparenza dei rapporti ufficiali, nascosta semmai dietro rapporti normalmente "giornalistici" con operai (in lotta, nuova) fino al momento in cui è avvenuta la definitiva rottura. In Classe Operaia non c'è mai stata tanta vera e propria conricerca, con quella sistematicità che volevo io. Neanche per un'ostilità, ma perché non c'era nessuno che la portasse avanti oltre il primo passo. Nel '66, finita Classe Operaia, io non ho più militato ed ho fatto qualcosina per conto mio. Nel '71 e negli anni successivi all'università di Trento posso dire di aver portato avanti la conricerca con studenti a Verona. Poi con laureandi e laureati a Torino soprattutto negli anni '70. D'altronde io facevo, ripeto, non solo per sopravvivere, anche della sociologia scientifica e pure con metodologie quantitative, tecniche statistiche ecc.
Montaldi, l'anno che è morto, aveva incontrato Ciafaloni e insieme avevano fatto un progetto di un'inchiesta operaia che non è mai stata fatta: in questo progetto c'erano altri personaggi come Pino Ferraris di Biella, ex appartenente al PSIUP, e qualcun altro. Ripeto, di questo e d'altre cose di Montaldi possono avere qualcosa, a Cremona. Montaldi prima, nelle "Autobiografie della leggera", aveva una sua teoria. Quella cosa, come l'intendeva, l'aveva già fatta ad esempio Pavese per "La luna e i falò", e lui aveva pubblicato su Presenza lo schema di intervista di Pavese ai Langaroli. Era il cercare i miti e i riti della gente ricollocandoli nelle classi sociali. Ricordava anche De Martino. Quando Montaldi ha fatto queste "Autobiografie della leggera" i sociologi l'hanno attaccato duramente, in particolare Luciano Gallino, dicendo che non era scienza, non c'era generalizzazione; sostenevano che, oltre ad essere estraneo alla scienza, era addirittura negativo, si andavano a prendere gli individui "diversi". Qualcosa del genere l'avevano già detto per "Milano-Corea". Il cremonese c'era rimasto molto male: per pararsi dalle critiche lui aveva quindi cercato di dare a ciò una dignità scientifica basandosi su Riesmann, autore di "Visi nella folla" e "La folla solitaria" (libri da cui ha anche tratto dei film Kazan). Si è dunque attaccato a Riesmann per avere questa dignità scientifica, ma quelli dicevano che la scienza o la fai secondo certe regole o non la fai, per loro il suo sforzo non stava in piedi. Ebbe però l'avallo di Pizzorno che l'aveva in parte ispirata. E fra gli intellettuali infiammò Pasolini. E interessò così un poco Panzieri.
Noi, fra Torino, Milano e Locarno, caldeggiavamo anche l'ipotesi di una scienza altra, che ci veniva da Husserl e da Enzo Paci; ma in vero questa non c'era. La scienza altra doveva pure avere connotazioni soggettive, coinvolgere e assumere il soggetto del ricercare, parlare dell'individuo, ecc. Non riuscimmo a farla crescere abbastanza nella pratica. In questo senso ci sono stati dei precedenti negli Stati Uniti, e in Germania intorno a Rosa Luxemburg. In Francia negli anni '50 c'erano degli ex trotzkisti: c'erano Pouvoir Ouvrier, e Socialisme ou Barbarie che esploravano qualcosa di una sorta di conricercare con operai...: quando ha chiuso questa rivista alcuni sono diventati sociologi di professione. C'era lì il segretario di Merlau-Ponty, Léfort, l'algerino Lyotard, Castoriadis, credo pure Derrida, e c'era Morin. Anche alcuni di loro sono passati per la fenomenologia, per Husserl, in particolare e pel suo libro, "La crisi delle scienze europee" da cui viene anche il concetto di "scienza galileiana" che io uso molto. Meno per Foucault e Deleuze.

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