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ROMANO ALQUATI
SUL SECONDO OPERAISMO POLITICO. Estate 2000


Orbene, a partire dal '62 fino al '65 in questa città sono stato un trontiano, un poco critico e talora diffidente, e per certi aspetti lo sono ancora. Considero tuttora Tronti uno dei maggiori rappresentanti europei di una certa ripresa internazionale post-stalinista di Marx e Lenin, della valorizzazione politica comunista\collettivista degli operai, ed altro. Non poco altro. A prescindere da altri grandi nodi (come ad esempio quello di quella che Tronti chiamerà "la rottura epistemologica marxiana" che anch'io dovrei riprendere ben di più nel mio discorso, almeno come già si fece all'inizio degli anni '60), la differenza fondamentale di Tronti rispetto al "marxismo" allora corrente è stata per me la valorizzazione e la modifica della più nota formulazione marxiana del "doppio carattere". Ci sono nel feticismo del capitale quattro o cinque grandi antinomie, una dentro l'altra. Dalle quali si traggono vari "doppi caratteri". Mentre in parte Marx e di più il marxismo storico sottolineavano soprattutto la dicotomia ed antinomia fra lavoro-astratto e lavoro-concreto incluso nel primo, dunque in un discorso sul lavoro, e sul doppio carattere del lavoro, Tronti spostava il discorso sul lavoratore, collettivo, e come classe operaia. Così trovava anche in Marx qualche brano in cui si parlava del doppio carattere del "lavoratore". Un'ipotesi di lavoro... Era solo uno spunto, ma qui si toccava una "contraddizione" in Marx d'enorme portata perché apriva la ricerca esplorativa di quella determinata e peculiare via d'uscita anche dal labirinto marxiano cui prima accennavo (in più di un secolo di storia); e quindi il discorso veniva ad incentrarsi sul lavoratore nel capitalismo. E dentro e contro. Tronti scriveva più o meno, "il lavoratore proletario è colui che lavora ma può anche (almeno per un tempo limitato) rifiutarsi di lavorare, d'essere lavoratore-specifico", può anche andare contro se stesso. Magari, ripeto, un piccolo spunto, forse profetico, ma che mi confermava un'ampia prospettiva, un poco utopica...
Fra l'altro Tronti poneva la questione del doppio-carattere, e dell'ambivalenza, anche con queste altre parole: la "forza-lavoro, che dà il capitale, è la classe operaia in potenza"; a parte l'operaietà... Io dico la capacità-umana-vivente lavorizzata e neo-merce è la grande classe parte in potenza. Questo punto di partenza era decisivo, ed a mio parere ha una sua validità ancora oggi! A parte l'operaietà.
Si ri-metteva così in scena, sul proscenio, il lavoratore proletario ed operaio; probabilmente per l'ultimo spettacolo. Allora si constatò che questo stesso lavoratore poteva contare ed esistere finché esisteva la sua fabbrica, in senso pure volgare, il suo stesso stabilimento, il suo posto di lavoro, l'attivazione del suo sistema di ruoli! Infatti, si vide, si era ben visto, in particolare in Europa nel '18\'19, che senza la fabbrica volgarmente intesa (ossia innanzi tutto il luogo di lavoro artefattivo e valorizzativo, allora per lo più tangibile e collettivo), la stessa classe operaia di quel tempo si dissolveva e s'annullava... Sorgevano allora nel primo dopoguerra fra l'altro ulteriori questioni: ad esempio, se esiste la classe comunque in una qualche autonomia, come classe proletaria appunto pure soggettiva contro se stessa, se esiste un'organizzazione opportuna, può esistere ancora davvero la classe proletaria? in via di autoestinguersi in un progetto generale di nuova civiltà...? Progetto che ad ogni modo non ci fu. I bolscevichi partirono e rischiarono con un progetto molto parziale, che poi non riuscì a crescere gran che strada facendo, ma presto precipitò. Però fu comunque fondamentale pur nei suoi grandi limiti, anche del bolscevismo storico come comunismo "operaio". E magari: esiste la classe proletaria pure senza il lavoro dipendente che io chiamo artefattivo?
La borghesia cristiana (prima protestante, però) e poi il socialismo, ribaltando la precedente mentalità e costume ostili al lavorare ritenuto maledetto ed ignominioso, diffusero e promossero l'etica del lavoro, ma anche molta stima del lavoratore, il quale si sacrifica per gli altri, accumula sempre più per gli altri, ecc. L'operaio (professionale) eroe del lavoro accumulativo ed innovativo. Così lo videro anche i socialcomunisti.
Parentesi. L'idea diffusa fra certi intellettuali sinistri che gli imprenditori industriali ed i padroni stessi odiassero gli operai come tali è molto sbagliata. A Torino mi resi subito conto che se c'erano una notevole quantità di padroni gretti e imbecilli, ce n'erano pure di "operaisti": padroni operaisti! Ma non era un paradosso. Poi certi comunisti come ad esempio noto lo stesso Garavini, figlio di uno dei maggiori imprenditori tipicamente torinesi... Altrettanto falsa era stata anche l'idea che i fascisti odiavano il lavoro. In particolare poi lo stalinismo soprattutto esaltò la condizione proletaria come tale. Legato all'operaità di mestiere, portò avanti una venerazione "artigianesca" e porotoindustriale della tecnica, che non arrivò mai (fino a Togliattigrad, rimasta a lungo colà isolata) davvero alla grande industrialità e tecnologia del taylorismo\fordismo, desiderata da Lenin, con la grande serie, l'automatismo spinto e l'esoprogrammazione minuta e lo svuotamento degli esecutori? pure con questo?, ecc. Che ha cambiato agli occhi delle masse occidentali "operaie" la visione della tecnica e della tecnoscienza del produrre e della propria identità! Che negli operai-massa estratti dal proletariati contadino era già molto differente. Questo ribaltamento è successo un poco in tutto l'est europeo e parti asiatiche dell'impero sovietico, onde lì adesso c'è un iperproletariato meno svuotato (dal taylorismo) di quello dell'Occidente; cosicché lì comunque attendono ancora qualcosa d'altro, mentre qui non aspettano più nient'altro che quello che c'é. Comunque, tornando indietro: marxisti contro Marx?... Si, ma anche Marx, "ingenuo", si affidava alla tecnica (liberata dalla rivoluzione?) mica poco. Anche le forze soggettive marxiste non sembravano poter portare gli operai contro se stessi ed oltre se stessi, per uscire dal suddetto labirinto. Io ho sempre pensato che il clou di tutta questa faccenda si concentrasse in quest'alternativa di sogni: liberare questa tecnica qui, come voleva chi era convinto che il comunismo\religione degli operai eroi avrebbe liberato l'uomo dal capitalismo e così dal male, liberando la tecnica dalla negatività che il capitalismo le ha imposto, però sostanzialmente facendo allora crescere questa tecno-scienza qui; oppure dall'altra parte l'invenzione di una tecnica e di una scienza completamente diverse, e di un modo di produzione e lavoro completamente diverso, come sognavano pochi utopisti o profeti piuttosto disarmati, fra cui io stesso. Ma queste diversità il comunismo reale (e religioso) storico non pensò mai sul serio nemmeno da dove cominciare ad immaginarle. C'era fra noi anche qualche raro timido tecnofobo, però magari a sua volta un po' scienziato... Il Panzieri del controllo operaio sulle imprese del padrone amava la Jugoslavia di Tito...: ci andò, mi pare, nel '61 con la Beccalli, che forse veniva da lì. Era tecno-scientista e sviluppista anche lui, ovviamente. Torniamo a noi allora.
C'è ancora una questione particolare un poco teorica sulla quale vorrei dire due parole. Il doppio carattere è riferito alquanto al valore-d'uso della merce forza-lavoro, che io da molti anni preferisco chiamare capacità-lavorativa-umana-vivente e calda. Merce specialissima. Ma qual é il suo valore d'uso, che in questo caso specialissimo conta più di quello di scambio? Marx diceva e Tronti riproponeva: la sua misteriosa "capacità di creare un valore maggiore del proprio valore". Ed io aggiungo, sia nel suo funzionamento attivante di breve, che in quello innovante di periodo meno breve. Si ma come? Perché? Con che portata? Prerogativa di capitale-umano? Intanto da quel che Tronti ne ha scritto io dico che é una questione che va studiata su livelli di realtà differenti, verticalmente articolata. Ad ogni modo, merce che consumandosi riproduce con incremento anche se stessa?, e viceversa nel consumare? In fondo la questione del feticismo del capitale e del proletario-operaio nella cosalità ci portava proprio qui! Io dicevo e dico: questa prerogativa la merce specialissima ce l'ha non solo perché è vivente, e come tutto il biologico nella sua carnalità (carne e sangue, diceva Marx...). Ma perché é "vivente-umano"! Allora da lì solo si parte per arrivare in prima istanza alla psiche, alla mente, allo spirito...: alla soggettività singolare e collettiva perché queste sono esclusive dell'umano, e quindi del valore-d'uso della capacità-vivente-umana e non più animale. Sì ma comunque sempre come valore d'uso dal doppio carattere di una merce! Concepita pel capitalista ed il suo sistema nel suo primo carattere; ma forse non nel secondo. Questo vale anche per la "soggettività-operaia", in fondo. Differente nelle varie fasi dell'industrialità e dell'operaietà, come in quella prima transizione-interna si constatava molto facilmente. Semmai bisognerebbe rovesciarla in soggettività-contro, alternativa ed autonoma, a partire dal suo secondo carattere. Come allora provammo a fare! Magari! Perché finora questo é riuscito solo un paio di volte nella storia e solo temporaneamente; però se non esci dal capitalismo ti ritrovi che da un lato hai cambiato "solo" qualcosa in basso in questo sistema (però l'hai anche cambiato, questo l'hai fatto); e dall'altro hai mutato anche certi contenuti bassi di questa stessa merce specialissima, che rimane tale! In fondo é questo che Marx intendeva quando diceva che la maggior forza produttiva, ed innovativa, del capitale é la classe operaia rivoluzionaria! Datori anche conflittuali di capitale. E' così anche rispetto al suo stesso valore d'uso\utilità specialissimo ed esclusivo. Personalmente sono rimasto sempre legato alla questione del doppio carattere del lavoratore, proletario, professionale o massificato: da decenni assumo il punto di vista di un'ambivalenza: oggettiva nel senso che ipotizzo la realtà capitalistica come ambivalente, anche se poi prevale una delle due facce; ed ambivalenza nel senso soggettivo che mi sforzo d'avere io uno sguardo ambivalente. Il legame fra ambivalenza soggettiva ed oggettiva, diciamo, passa per me ancora per la questione del doppio carattere; però rivista.

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