Introduzione

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio.

(K. Marx, F. Engels, 1845, pp. 35-36)



Sono tante e differenti le questioni che vanno affrontate nel cercare di effettuare un’analisi sul significato di “Do It Yourself” che sia più fluida e comprensibile possibile, a partire dal tracciare un percorso cronologico di questo fenomeno, fino ad arrivare al comporre un quadro delle varie correnti che vanno a richiamarsi ad esso. Inizialmente mi pare opportuno ricercare dove il fenomeno Do It Yourself, più comunemente noto come DIY, letteralmente traducibile in italiano con l’espressione “fai da te” (o autoproduci), possa andare a radicarsi, ripartendo dall’imprescindibile concetto di controcultura. Se è vero che il concetto di cultura ha dato luogo a tante e diverse definizioni, cosa evidente se solo si pensa ai tanti significati che l’hanno accompagnato nel corso dei secoli e nella letteratura sociologica, il concetto di controcultura assume di conseguenza un opposto significato, costantemente soggetto a revisioni ed interpretazioni che ne influenzano il campo d’azione. Sin dai primi anni di avvio dei “cultural studies” è sempre esistita una certa dicotomia nell’interpretare il termine cultura o come alto livello di qualità culturale, lontano dal concetto di cultura popolare, o come stile di vita nel suo assieme; nel 1966 Richard Hoggart, che aveva sempre dimostrato grande attenzione nei confronti della cultura operaia, scrive: “Prima di tutto, senza apprezzare la buona letteratura, nessuno capirà veramente la natura della società; in secondo luogo, l’analisi critica letteraria può applicarsi a certi fenomeni sociali oltre che alla letteratura “accademicamente rispettabile” (per esempio le arti di massa, le comunicazioni di massa) in modo da illuminare i loro significati sia per i singoli individui che per le società a cui appartengono” (cit. Richard Hoggart, 1966).

L’idea che occorra una sensibilità letteraria per leggere la società, e soprattutto l’idea che la società stessa non vada analizzata solo nelle sue forme culturali ritenute alte, ispira Roland Barthes che ne verifica l’efficacia facendo ricorso alla semiotica che, come sistema di lettura dei segni applicato alla società, è in grado di rilevare come tutte le forme ed i rituali apparentemente spontanei delle società borghesi contemporanee siano in realtà impregnati da un’ideologia anonima tributaria dell’immagine che la borghesia si fa e ci fa dei rapporti tra l’uomo ed il mondo (Barthes, 1957). Ed è appunto alla luce di questa visione della cultura e dei suoi prodotti data da Barthes che l’iniziale citazione di Marx assume pienamente il suo senso sino a condurci al significato stesso di controcultura.

Una classe dominante svolge qualsiasi tipo di rituale quotidiano attenendosi a modalità (appunto dettate dall’ideologia anonima barthesiana) che, per quanto attinenti al mondo delle produzioni materiali, fanno riferimento a mezzi di produzione intellettuale, i quali sono alla base del dominio che la società stessa esercita tramite il prodotto materiale: è dall’inquadramento e dal rifiuto di questi mezzi di produzione intellettuale, sottostanti ai prodotti materiali stessi, che nasce una controcultura. Controcultura che, a questo punto, si può concepire come un’attività concernente le forme materiali di produzione, pur non rispecchiando nella sua materialità le forme intellettuali tipiche dell’ideologia della classe dominante. Il DIY è l’attuazione sostanziale di questo concetto. L’autoproduzione, dettata da un rifiuto per il mercato e le sue leggi o da una scelta personale, concerne l’individualità stessa della persona che la pratica, e nella realizzazione del prodotto materiale può esservi una immedesimazione della persona con il prodotto stesso: dalla scelta dei materiali, al confezionamento, alla distribuzione, l’individuo che decide di autoprodurre risponde solo a se stesso delle proprie scelte, indipendentemente dalle ideologie dominanti correnti. E’ proprio per questa sua adattabilità alle più diverse forme di espressione che il DIY si estende ai più disparati campi di produzione culturale e artistica: dall’editoria alla musica, dalla gestione di spazi sociali al cinema, alla continua ricerca di propri spazi autonomi di espressione controculturale in grado di utilizzare un sistema di segni (per ritornare alla semiotica barthesiana) non codificabile tramite i canoni della cultura dominante. Per quanto i vari campi dell’attività DIY agiscano sempre su piani di interazione reciproca, è difficile poterne fare una descrizione unitaria a causa delle varie forme estetiche e dei differenti supporti di cui l’autoproduzione si serve a seconda del diverso tipo di prodotto. In questo lavoro si è scelto di fermare l’attenzione sull’aspetto relativo alla produzione musicale indipendente ed autoprodotta, circoscritta alla sola esperienza italiana, consci dei necessari richiami con le altre forme di espressione DIY, spazi sociali e stampa autogestita in primis, e con l’ulteriore consapevolezza che il fenomeno DIY italiano non è germogliato da sé, mosso da una propria nuova volontà interna, ma, soprattutto nella sua fase embrionale, ha preso spunto e si è modellato sulla base delle esperienze simili di altri paesi, a partire dal fondamentale influsso inglese.

Se il volersi staccare dalle modalità di produzione dettate dalla ideologia dominante può essere considerato un atto di ribellione, allora ciò che agli inizi significò il DIY nella produzione musicale, uscendo fuori dagli stereotipati canoni imposti da una macchina da guerra chiamata “music business”, assomiglia ad una vera e propria rivoluzione. Non per questo lo spirito del fenomeno DIY si è preservato statico e immutabile nel tempo. Ciò che era nato con un puro scopo oppositivo, ovvero quello di riaffermare parametri artistici ed espressivi da troppo tempo appiattiti dalle esigenze dell’industria musicale, si è progressivamente dovuto scontrare con le tante frammentazioni provocate da differenti visioni del medesimo fenomeno. Perché, non dimentichiamolo, stiamo parlando di Do It Yourself, dove il verbo “To Do” (italiano: fare), indica un’azione, un’attività, e dietro lo stesso concetto di indipendenza espressiva possono esserci infiniti modi di esercitare l’attività espressiva stessa. Spesso modi persino divergenti, se non contrastanti, tra loro. Ma l’importante è fare, l’attivismo e la pratica sono alla base della cultura DIY. Solo nella piccola frazione delle autoproduzioni relativa all’ambito musicale esistono diverse e variegate correnti di pensiero, corrispondenti a modi di agire che si riferiscono a concetti e posizioni differenti. Se questo, a volte, può causare problemi di interazione, esso non esclude a priori la possibilità di cooperazione, visto che spesso l’obiettivo comune, ovvero l’esprimersi attraverso forme indipendenti e lontane dai modelli tipici dell’ideologia dominante, prevale sulle diversità di pensiero.

Scopo primario di questa trattazione è quello di analizzare il substrato di sottoculture appartenenti al mondo musicale del DIY in Italia, le loro relazioni e le loro specifiche identità, e di tracciare un percorso, dal momento della nascita delle prime forme di espressione importate dalla cultura angloamericana sino ai nostri giorni, attraverso innovative e discusse forme di espressione controculturale, riflesso degli immensi cambiamenti cui la nostra società è andata incontro negli anni più recenti, che hanno alimentato di continuo lo spirito di voci fuori dal coro, desiderose di trovare un’originale forma di espressione che le potesse rappresentare appieno.

In questo lavoro mi propongo di condurre uno studio completo sul fenomeno del Do It Yourself, il cui punto di partenza consiste in una ricostruzione storica della nascita e dell’evoluzione di questa cultura attraverso un percorso che arriva sino ai nostri giorni. In un secondo capitolo voglio mettere invece a confronto le radici e le basi etiche della cultura dell’autoproduzione, alla luce di diverse teorie sociologiche ed etnologiche attinenti a minoranze culturali ed artistiche. Infine un terzo capitolo è dedicato all’analisi di una ricerca sul campo, svolta attraverso la somministrazione di tracce di interviste aperte a 43 etichette operanti nel circuito DIY o indipendente, scelte tra le più attive del panorama, senza l’ambizione di fare un censimento ma semplicemente con lo scopo di ottenere un buon universo di riferimento.



Cuore, Carla Murialdo.